Stefano Amato (1977) è nato e vive a Siracusa. Suoi racconti sono apparsi su varie antologie e, tra le altre, sulle riviste «Linus», «Maltese narrazioni», «Colla», «Fernandel». È il fondatore e il curatore della rivista letteraria «A4».
Ha scritto con Fabio Genovesi e Franz Krauspenhaar Guida letteraria alla sopravvivenza in tempo di crisi (Transeuropa, 2010). Ex libraio, da anni cura il sito «L’apprendista libraio», vincitore di due premi Macchianera e da cui è stato tratto il libro Avete il Gabbiano Jonathan Listerine? (Editrice bibliografica, 2013). Nel 2011 ha tradotto un romanzo inedito di J. D. Salinger, La foresta capovolta.
Ha pubblicato i romanzi Le sirene di Rotterdam (Transeuropa, 2009), Il 49esimo Stato (Feltrinelli Indies, 2013) e Bastaddi (Marcos y Marcos, 2015).
Un racconto di Marco Montanaro
Numero di battute: 2499
Sentite questa.
La prima volta che me ne sono andato: diciott’anni/Roma/lingue.
Cinque anni senza legarmi a niente: né donne, né dipartimento.
Poi mamma sta male, torno.
Ripetizioni/venditore porta a porta: un anno, via di nuovo.
Torino/Milano, la vita e la fame. Due cose che si fanno da sole.
Londra: cameriere/caposala/manager, umilio altri italiani: me più giovani/più distratti, io mai fermo a costo di cigolare soltanto, come la memoria di ossa distorte a furia di posture sbagliate.
Piccolo inciso: adesso dormo al cimitero, in paese. Ma ci arriviamo.
Barcellona. Ditta immobiliare, un collega di Londra. Voleva cambiare, lo seguo. Disastro. Lui ci riprova in Tunisia, io: papà sta male, torno. Lo seppellisco accanto a mamma. Al momento di ripartire, black out. Sono morto anch’io, mi vedo tra loro sepolto.
Mio fratello, psicoterapeuta: mi passa il nome di un collega. Prova, dice. Niente pillole, solo chiacchiere.
E chiacchiere restano. Il collega, una donna. Non legarti a niente. Il problema non è la testa, è il fegato collegato alla testa, dice lei. Sembra Iggy Pop in un corpo da femmina: quei muscoletti lì, sempre nudi, bene in vista.
E poi i reni, dice.
Sei giallo, dice. Giallo come la paura in un corpo sano.
Il problema
non è la testa,
è il fegato.
Guarisco. Resto, rilevo un ristorantino. Vale niente, ci provo.
Mesi, veloci. Vendo il ristorante, non va – non va abbastanza da svenderlo a un ex compagno di scuola che ha perso una gamba a Nassiriya.
Pronto a partire, chiama Iggy.
Alla mia età non si hanno dubbi, dice.
Tiene il bambino, ha deciso, è una femmina. Non resto.
So di certe cose sul mio conto, che si dicono in assenza. Perciò più vere.
Verso est. A Brno conosco un tizio mutilato da bambino perché fosse più credibile da adulto, come mendicante.
La bimba, crescendo, mi odia/Bucarest. Poi si ammala/Dyarbakir. Iggy mi scrive per dirmelo (Vilnius, il rancore, la malattia). Budapest/aeroporto.
Terapia per la ragazzina, soldi miei. Ho cinquantacinque anni, nessun amore. Mio fratello mi fa causa. L’eredità/l’infermità di papà. Mi resta qualcosa per partire.
L’amico dice che a Tunisi farei la vita, non la fame.
La ragazzina peggiora, soldi miei ancora.
Ignoro Tunisi.
Una sera al bar conosco una coetanea. Batte giù al cimitero, dicono, forse ci vive.
Mi insegna a stare con due soldi. Mi insegna a stare. Mi insegna che la luna piena, a notte fonda, se la guardi bene è appesa a un filo. Questo in ogni parte di mondo, a guardarla da ogni parte di mondo. Giuro che è così, davvero, non scherzo, dice. Dico anch’io.
Marco Montanaro (1982) vive in Puglia. Il suo ultimo libro è il romanzo Il corpo estraneo (Caratteri Mobili, 2012). Altri suoi testi sono sparsi tra rete e riviste cartacee. Il suo blog si chiama Malesangue.
Un racconto di Mara Abbafati
Numero di battute: 1990
Da quando ho capito che non mi ami ho paura dei ponteggi. La mattina evito il ponteggio davanti alla tabaccheria. A cinquanta metri inizio già a innervosirmi e mi spingo gli occhiali sul naso, poi col pollice e l’indice a pinza mi stacco la maglietta di dosso ripetutamente, infine mi arrotolo una ciocca di capelli sulla nuca. Quando sono a tre metri scendo dal marciapiede e avanzo sulla strada trafficata. A volte le macchine suonano, i clacson mi fanno saltare e tiro i capelli ancora più forte. Perché da quando ho saputo che non mi ami ho paura anche dei clacson.
Quando torno a casa devo evitare il ponteggio della palazzina gialla a tre piani a cui stanno rifacendo la facciata perché la tinta gialla prevista dal capitolato approvato all’unanimità nell’ultima riunione condominiale è già diventata grigia per l’umidità. Quel tratto di strada però è molto facile perché posso usufruire dello spazio tra ponteggio e carreggiata occupato dal parcheggio che è sempre semivuoto. All’inizio ho avuto qualche problema perché da quando ho scoperto che non mi ami ho avuto paura delle strisce blu sull’asfalto ma è durata soltanto una settimana.
Al supermercato invece ho delle grosse difficoltà perché da quando ho capito che non mi ami sono terrorizzata dal banco frigo, dalle uova a pacchetti da quattro, dalla marmellata di pesche e dalla candeggina gel al profumo di brezza marina. È per questo che cerco di uscire solo quando è indispensabile.
Da quando ho saputo che non mi ami ho paura anche dei clacson.
Ieri pomeriggio sono dovuta andare dal dottore per parlargli delle mie fobie, dopo aver evitato il solito ponteggio davanti alla tabaccheria e quello nuovo davanti al Parrucchiere per signora Antonio Del Santo pensavo di essere al sicuro, ma un motorino mi si è affiancato e ha suonato tre volte il clacson in segno di saluto. Mi sono strappata qualche capello dalla ciocca che tenevo arrotolata all’indice sinistro, ho guardato dentro al casco e c’eri tu, che da quando ho saputo che non mi ami mi fai più paura del banco frigo dell’Ipercoop.
Mara Abbafati (1980) vive a Firenze. Ha un master in traduzione e adattamento dialoghi, cerca di fare l’editor, la traduttrice e la dialoghista. Scrive racconti brevi, sta imparando a suonare il basso elettrico, crede nella sintesi.
Un racconto di Marco Magnone
Numero di battute: 2500
Vieni?
Mi aveva chiesto l’ultima mattina della mia vita di prima. Era la ragazza più bella di quelle estati in montagna coi miei. Di qualche anno più grande di noi – di me e dei suoi due fratelli – arrivava dall’altra parte del paese, che per me al tempo significava l’altra parte della terra.
Dove?
Alla casa del terzo occhio.
Era una vecchia baita più in alto, affacciata su un laghetto nel bosco. Un incendio o forse un fulmine l’aveva mezza bruciata una notte quando ancora non eravamo nati. Il mattino dopo un uomo era stato trovato morto, nel teschio proprio sopra gli occhi un foro perfettamente rotondo. Così erano cominciate a girare voci di misteriosi culti. Sacrifici. Iniziazioni. Non ne sapevamo molto, ma tanto bastava ad attirarci e allo stesso tempo tenerci lontano.
Perché?
Mica hai paura?
Certo che avevo paura, ma mai come quell’estate il mondo mi era sembrato tanto innocente e pieno di segreti, che io non potevo più rinunciare alla mia parte di risposte.
Mica
hai
paura?
Con una piccola bugia ai nostri genitori salivamo tutti e quattro di buona lena, ridendo sotto il sole del primo pomeriggio che scappava dai prati. La casa del terzo occhio ci accolse avvolta nella sera come fossimo atterrati sulla faccia livida di un pianeta senza sole. Anche se la parete davanti era crollata, per qualche ragione nessuno diede un’occhiata dentro. Facemmo un fuoco, dove io misi a cuocere le salsicce mentre i miei occhi rincorrevano i suoi tra le fiamme. Dopo cena continuammo a bere e raccontarci storie di paura, in attesa di qualcosa che non arrivò. Allora il fratello di mezzo temendo che tutto finisse troppo presto accese una radiolina. La musica ci trascinò in piedi a saltare e urlare e ballare come selvaggi, finché il più piccolo iniziò a spogliarsi, lo stesso l’altro, e presero per il lago.
Perché non resti?
Mi chiese mentre stavo per seguirli anch’io. Senza maglietta, le dita che armeggiavano il reggiseno dietro la schiena. Solo per me. Aprii la bocca, i segreti del mondo stavano per prendere il sopravvento sull’innocenza.
Mica hai paura?
Sì che ce l’avevo. Avevo paura per il mio petto senza peli, le braccia bianche, la pancia che sbordava dalla cintura, avevo paura perché io non ero nient’altro, e corsi dai suoi fratelli senza una parola.
La mattina, del mistero della casa del terzo occhio, non rimaneva traccia. Il sole illuminava un rudere vuoto, le cartacce per terra e le pareti annerite. Tornai a casa con un passo che non mi conoscevo, pesante e pieno di vergogna come quello dei grandi.
Marco Magnone (1981) è nato ad Asti. Dopo aver vissuto a Berlino, è tornato in Italia dove ha iniziato a lavorare nell'editoria (Pangramma, IED) e a pubblicare reportage e diari di viaggio (Espress Edizioni, Zandegù). Insieme a Fabio Geda è autore della serie di libri per ragazzi Berlin (Mondadori), di cui sono usciti i primi tre volumi: I fuochi di Tegel, L'alba di Alexanderplatz e La Battaglia di Gropius.
Un racconto di Ginevra Lamberti
Numero di battute: 2464
Predilige sostare nel reparto ortofrutta, che è arioso, bene illuminato e molto vicino all’uscita. Nessuno gli nega un bel sorriso, tutti lo ascoltano. Quando i suoi pensieri volano altrove e si distrae ne approfittano per allontanarsi. Lo fanno con passo calmo. Appena girato l’angolo corrono via, guardano per un attimo l’orologio e pregano che il turno finisca in fretta.
Svetta nei migliori supermercati della città, a giorni alterni, in orari imprevedibili. È alto due metri, porta in giro una lunga chioma dorata su centocinquanta chili di muscoli scolpiti non si sa dove né come. Lo chiamano Capitan Serenissima.
Indossa scarponi da montagna senza calzini, shorts di jeans troppo corti e molto strappati, una maglietta a brandelli che una volta era bianca. Una bandiera della Repubblica di Venezia è legata attorno al suo collo e quando corre via sventola come mantello pronto a fargli spiccare il volo, ma il volo non lo spicca mai.
Capitan Serenissima
è un esempio di integrazione.
I suoi superpoteri consistono nello smaterializzare la birra più forte del discount senza farla passare dalla cassa, smaterializzare i malumori della gente intorno a sé, smaterializzare le forze dell’ordine, moltiplicare i sorrisi.
La sua Missione è ancora ignota.
Capitan Serenissima è un esempio di integrazione.
Alza il braccio destro al cielo e punta l’indice verso un neon a caso, dice che l’Ungheria è il paese migliore del mondo mentre la Croazia fa schifo. Gli accompagnatori di carrelli che gli passeggiano attorno si guardano e non osano proferire parola, ma ognuno di essi si sta chiedendo se è ancora vero che non siamo né in Croazia né in Ungheria. Alza il braccio sinistro e punta l’indice verso la scarola a prezzo speciale e grida qui costa tutto troppo. Io vado al discount Qualità Italiana e con cinque euro mangio come un re. Nuovamente rivolgendosi ai passeggiatori di carrelli grida non dovete stare qui, cosa ci fate tutti qui? Fissa l’uscita e colto da una qualche illuminazione corre via, con la bandiera che sventola come mantello pronto a spiccare il volo, ma il volo non lo spicca mai.
Libero da orpelli, nessuno sa se abbia una casa, ma Capitan Serenissima la sera torna dove sa, tira fuori da sotto al materasso una vecchia stampa con i segni del foglio più volte accartocciato e altrettante spiegato con cura. Ogni sera guarda quel foglio, mette la testa fra le mani e valuta l’ipotesi di tornare indietro. Poi la scarta. Con i suoi superpoteri trasforma il mantello in coperta e la veglia in sonno.
Ginevra Lamberti (1985) vive a Venezia, cambia spesso lavoro, nel 2015 il suo primo romanzo, La questione più che altro, è stato pubblicato per nottetempo.
Suoi racconti sono stati pubblicati su Nuovi Argomenti, Linus, Colla, Scottecs Megazine, Lahar.
Commenti recenti