Un racconto di Danilo Deninotti
Numero di battute: 2500
È impressionante, vero? L'ho pensato anch'io, la prima volta che sono entrato nella sede del CAI. Avevo la tua età e mio zio si lamentava che un montanaro come me non poteva preferire davvero il mar Ligure. Così, mi aveva accompagnato lì e regalato un paio di scarponi.
Era in un corridoio, al buio, ma faceva luce lo stesso. Hai ragione, non è questo che colpisce un ragazzino. Almeno, non al primo sguardo. Quello che ti colpisce è immaginare di avere tutto quel peso sulle spalle – pennelli, colori, cavalletto, la tela enorme – e salire su, lungo valloni e crestoni.
Quando sono diventato io presidente, l'ho fatto spostare qui nel mio ufficio. Perché la sua storia non poteva restare relegata in un angolo della memoria del club.
Fulvio Basso si era trasferito a Milano, per studiare a Brera. E gli amici, in Accademia, se li era fatti grazie al Nebbiolo portato da Cuneo. E alla montagna. Perché quando, dopo qualche bottiglia, la sua parlata e quelle di Emilio Longoni, Giovanni Segantini e Filippo Carcano caracollavano in dialetti che cercavano dei punti in comune, era sulla bellezza delle cime innevate che convergevano.
Quei quattro sono stati tra i primi alpinisti, sai? E fu Fulvio, dopo un'ascensione in gruppo sulle Retiche, lo sguardo perso nelle lame di colore che bucavano la nebbia più a valle, a proporre di portare la loro pittura lassù.
«Guardalo, il suo Sul ghiacciaio.»
In poco tempo avevano imparato a dipingere in quota con la facilità con cui io e te stringiamo i lacci degli scarponi e andiamo a funghi. I loro quadri avevano successo, soprattutto tra i collezionisti interessati a una pittura che fosse la rappresentazione oggettiva della realtà. Così, il CAI decise di offrire una medaglia d'oro al miglior dipinto con protagonista l'alta montagna. Era il 1898. Fu allora che Fulvio volle dimostrare di poter creare la luce con il colore.
Guardalo, il suo Sul ghiacciaio. La luminosità del paesaggio, il nitore della neve. La perfezione di quel crepaccio. Allontaniamoci un poco. Ecco, da qui è perfetto. Così reale.
Quel giorno, una volta giunto in vetta, Fulvio costruì una baracca per ripararsi durante le notti. E sul Bernina, credimi, fa un freddo cane. Dopo un mese non era ancora tornato e i suoi amici andarono a cercarlo. Lo trovarono morto assiderato, la capanna distrutta da una slavina. Ma il quadro era intatto. Maestoso. Solo un angolo doveva ancora essere dipinto. Carcano, Segantini e Longoni si caricarono il corpo dell'amico in spalla. E dopo averlo pianto al funerale, conclusero la sua tela.
Danilo Deninotti (1980) è nato in provincia di Cuneo e vive a Milano. Sceneggia storie per Topolino e ha scritto due graphic novel: Kurt Cobain – Quando ero un alieno (Edizioni BD 2013, tradotto anche in USA, Canada, Spagna e Brasile, e in corso di traduzione in Francia e Russia) e Wish you were here – Syd Barrett e i Pink Floyd (Edizioni BD, 2015). Per Pagina99 ha pubblicato, insieme a Giorgio Fontana e Lucio Ruvidotti, alcuni reportage a fumetti.
L'immagine in apertura è Neve in Alta Montagna (Alba sul ghiacciaio), olio su tela di Emilio Longoni, esposto alla Pinacoteca di Brera.
Un racconto di Sara Micello
Numero di battute: 2484
In famiglia a fregarci era la statura.
Foto dopo foto perdevamo centimetri. La nostra ombra era più alta di noi.
Portavamo addosso una corporatura in discesa: mio padre cedeva di millimetri, per via dei capelli caduti; mia madre di decimetri, a causa della spina dorsale rammollita. Io e mia sorella, in posizione eretta, rimpicciolivamo: sguardo basso e bocca all’ingiù.
In un modo o nell’altro, tutti e quattro tendevamo a calare.
Quando le nostre otto spalle combaciarono, immortalammo il momento.
La foto esiste ancora e profuma di muffa. Formato A1, vecchia quanto il rullino rimasto a sviluppare dal fotografo. È chiazzata d’olio, come se mia madre l’avesse presa per carta assorbente in seguito a una frittura di calamari.
Il bordo inferiore ha le rughe, nessuna data scritta, nessuna didascalia. Il retro è giallognolo, con il marchio Kodak PAPER riprodotto all’infinito; alcune lettere sono recise. Un po’ come noi.
«La foto
esiste ancora
e profuma
di muffa.»
Salutiamo l’obiettivo indossando tuta e scarponi da sci. Gli unici colori sono i nostri, il resto è bianco neve: bianca la palma nana in primo piano, bianchi i carrubi sul fondo; bianca la nuca di mio padre, bianche le sopracciglia di mia madre.
Abbiamo busti ridotti, scapole striminzite, siamo un metro e cinquantanove ciascuno.
Sembriamo una famiglia adolescente.
Al lato sinistro, mio padre ha cinquant’anni e un femore marcio. La stazza è da uomo di mare, la mano destra che alza in cielo sta tremando. Il sorriso è a mezzi denti, gli occhiali sono ancora quelli di vetro spesso.
Accanto c’è Mamma, ossatura friabile, anche cedevoli. I seni le profumano di latte, la bocca di nicotina. La pelle è glabra, i polsi cigolano.
Segue mia sorella, la mano sinistra alta alle nuvole, speculare a quella di Padre. Gli scarponi sprofondano nel nevischio sporco. Gli occhi sono cinesi, gli zigomi sanno di lacrime asciutte. Indossa un berretto che le oscura i capelli tinti di viola.
Davanti, al centro, la sottoscritta. Le guance sono piene, la dentatura è sgarbata. In testa un cappello intrecciato a maglia e le mani sudano nei guanti d’una taglia in più.
Mi accorgo solo ora di quanto siamo piccoli.
Mio padre è poco per i pantaloni che indossa e il petto di mia madre non riempie il cappotto sgualcito.
Siamo tozzi, di alto c’era solo la voce.
Urlavamo dalla cucina al letto per dirci Buongiorno e Buonanotte. Ci scambiavamo baci nani, carezze lillipuziane. Gli attimi d’affetto erano brevi quanto noi.
Solo questo posso dire. Eravamo troppo bassi per volerci bene.
Sara Micello (1992) è nata in Puglia. Si è laureata in Editoria e Pubblicistica e attualmente frequenta il Master in Tecniche della narrazione alla Scuola Holden di Torino. Su Sai Scrivere cura la rubrica Nomi d’autore.
Un racconto di Nicola Esposito
Numero di battute: 2439
«Riuniamoci, questa mattina, a celebrare il Venerdì santo» dice un prete col microfono, imboccando lo squallido porticato di un complesso condominiale, e incede, in una luce pallida di nebbiolina, e incede, col suo strascico di fedeli.
Poco distanti, due ragazzini li squadrano, nelle facce bambine una vecchia malizia. Uno è secco secco e seduto a cavalcioni d’una motoretta; l’altro, tozzo, sul cofano d’una macchina.
Un bastardo roso dagli stenti si accuccia ai piedi di un pilastro.
«Osanna eh!» intona stonato il prete.
«Osanna eh!» echeggiano i provetti coreuti.
La processione si avvicina ai ragazzini. Quello secco fissa il prete, una diffidenza scura nella smorta magrezza del volto; l’altro trae il cellulare di tasca e vi china la testa. Con un’aria di flaccido sussiego, le braccia allargate e i palmi rivolti in su, il prete avanza salmodiando e, accanto ai ragazzini, dà loro un’occhiata che ha il colore della nebbia e un attimo dopo torna a guardarla, dritto davanti a sé. Come passa oltre, quello tozzo guarda storto la schiena del prete, le maschere tragiche di alcuni fedeli, la mutria di altri e l’incantata confusione di qualche bambino.
«I cieli e la ter...» Il microfono tonfa: il prete incespica nel lembo della talare e cade ginocchioni; e un vecchietto gli afferra di lancio il gomito, una donna fa «uh!» posando la mano sul petto, un’altra raccoglie il microfono e lo porge al prete, che lo prende alzandosi goffo, e lento, e alcuni bambini lo fissano inebetiti, e gli altri fedeli mormorano; mentre il ragazzo secco abbassa la testa e la scuote con un risolino, e l’altro nasconde una risataccia nell’incavo del braccio.
Impettito, un sopracciglio alzato nella faccia paonazza, il prete riprende a incedere.
«I cieli e la terra» dice, «o Signore, sono pieni di te.»
«Ma chi è Osanna?»
Il bastardo squarcia le fauci sbadigliando e si distende su un fianco.
«Ma chi è Osanna?» dice il tozzo al compare, che scrolla le spalle, mentre entrambi osservano la processione che sfuma nella nebbiolina, di là dal porticato, come un ricordo distante.
Poi il primo sfrega indice e pollice vicino al naso, annusando, e dice: «Cos’è ‘sta puzza?»
«Boh. Il fumo?»
«La nebbia?»
«No... Il fumo della chiesa.»
«Il fum... Ah... L’ices… L’insces…»
«Eh. A proposito di fumo, dobbiamo vendere» dice il secco.
L’altro annuisce, una mano intascata a brancicare una bustina di erba, e s’avvia col compare di spalle a un altro, lontano Sono pieni di te, nella luce pallida.
Nicola Esposito (1985) è nato a Bari. Ha pubblicato racconti su Storiebrevi e sulla rivista Alibi. Nel 2009 è uscito il suo libro Quattro chiacchiere (Altromondo).
Un racconto di Jacopo Cirillo
Numero di battute: 2500
Prima di spezzare il pane e tranciare la carne, Daniel versò del vino a terra, mormorando una preghiera al Grande Spirito; poi rendemmo grazie agli antenati, all’Orso e all’Aquila. La terra non aveva ancora assorbito tutto il sangue degli acini e noi, sacrileghi, già bevevamo caffè e arrotolavamo sigarette con l’erba di Nino, il più grande coltivatore di marijuana in questa parte di mondo, poco sopra il New Mexico, poco sotto al niente.
Daniel accese un grande fuoco vicino all’hogan, la capanna in cui si svolgevano i riti: era il master of peyote, l’unico che potesse somministrare il pane degli dei a chi ne fosse degno. Noi non lo eravamo. Nonostante questo, ci raccolse attorno a sé e raccontò la storia dell’orso.
«Gli occhi dell’orso erano inespressivi.»
Tanto tempo fa, Daniel viveva insieme alla sua famiglia in una piccola capanna di tronchi d’albero. Una mattina vide un orso gigantesco che lo guardava, immobile, sul limitare della foresta. La stessa sera, tornando a casa, l’orso era ancora lì. Dieci giorni di sguardi e paure, come tra innamorati.
Una notte, l’orso si avvicinò alla capanna, si arrampicò sui tronchi di legno e salì sul tetto; sotto dormivano i figli di Daniel. L’animale provò a portarglieli via, il padre si svegliò in tempo.
La mattina dopo l’orso era ancora lì, immobile, con gli occhi puntati nei suoi. Daniel pulì il fucile con mani tremanti e, procedendo per tentennamenti, camminò verso l’animale. Gli occhi dell’orso erano inespressivi, mostravano solo i meccanismi della natura. Daniel alzò la canna, poi l’abbassò, poi l’alzò di nuovo, si risolse e gli sparò in testa.
I didn’t want to piss off the Great Spirit, piagnucolò, rifugiandosi colpevole nell’hogan. Passarono ore prima che uscisse. Prese un lungo coltellaccio, si avvicinò alla carcassa dell’orso, lo scuoiò e tornò nella capanna, rimanendoci per tre giorni. Alla terza notte, notte di luna piena, Daniel riemerse con tre piccoli mantelli di pelle d’orso, quelli che ora sono appesi all’ingresso della casa nuova, vicino ai cappotti. Svegliò i bambini, li vestì con le pelli e ballarono tutta la notte attorno al fuoco, per chiedere perdono e invitare lo spirito dell’Orso a vivere con loro.
La storia, così com’era cominciata, finì in uno sbuffo di fumo, lasciandoci tutti in preda di quel momento. Sentivamo distintamente lo Spirito aleggiare e non avevamo paura, così come ci aveva insegnato il maestro del peyote. Poi un muoversi tra le foglie, un orso correva contro di noi, a fauci spalancate. Nessuno riuscì a muovere un muscolo.
Jacopo Cirillo (1982) vive e lavora a Milano. Autore e collaboratore di Topolino, ha fondato nel 2008 il progetto letterario Finzioni. Scrive di libri e serie tv su numerose testate online e ha appena finito il suo primo libro.
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