Un racconto di Claudio Lagomarsini
Numero di battute: 2410
Verso la fine del trimestre mi sono innamorato della caviglia di Alice e ho passato i mesi seguenti a chiedermi come toccarla anche solo per un secondo o due.
Alice è una studentessa del terzo anno iscritta al mio corso di Estetica. Una biondina niente di che, a dirla tutta. Anche la caviglia, oggettivamente, non ha nulla di speciale se non, per paradosso, la sua perfetta medietà. Mi interessa soprattutto la destra, dove Alice tiene legato quasi per dimenticanza uno di quei lacci color arcobaleno che i vucumprà fingono di regalare, per poi ripensarci un attimo dopo. Ormai – era maggio – il laccio era liso e scolorito. Presto si sarebbe staccato durante una doccia, e io volevo passarci le dita prima che succedesse.
Il colore della pelle è riposante. Il modo in cui il laccio cade mi eccita. La caviglia non è grossa né sottile: dà l’impressione di essere imperfettamente depilata, intuisco la presenza dei follicoli ispessiti, ne immagino l’attrito sotto le dita. Alice non lo sa, ma possiede un esemplare assoluto di caviglia femminile.
«Verso la fine del trimestre mi sono innamorato della caviglia di Alice.»
Presto mi sono reso conto che l’unico modo per toccare la caviglia era portarsi a letto anche il resto del corpo. Le altre zone erogene non mi attirano, sono felicemente sposato e non voglio tradire mia moglie per un’articolazione. Eppure mi è chiaro che, se non voglio impazzire oppure passare per un maniaco, prendermi una denuncia e perdere il lavoro, devo convincere Alice a fare l’amore con me.
Con una scusa l’ho convocata a ricevimento. Cercavo la maniera per avvicinare le dita alla caviglia. Ho fatto cadere una penna, ma Alice è scattata prima di me. Allora ho flirtato (non sapevo più cosa inventare), ma Alice ha sviato il discorso. Quando se ne è andata, ho pianto. Ci ho riprovato all’esame, ancora con il trucco della penna. Stavolta mi ha tradito un rimbalzo sfortunato. Ho ritentato con un sorriso ammiccante, a cui lei ha opposto una smorfia smarrita, che mi ha fatto sentire sporco e vecchio. Le ho messo trenta per il senso di colpa.
Sono passate settimane. Non sapevo dove trovarla, ho pensato di scriverle un’email, espormi irrimediabilmente, invitarla per un caffè. Ho lasciato perdere.
Oggi – non ci speravo più – l’ho incontrata in corridoio, passava con un’amica. Ho salutato con discrezione. Incrociandola sono inciampato, le ho dato un calcione sullo stinco.
Sono mortificato mentre mi inginocchio. Faccia vedere, oddio faccia vedere.
Claudio Lagomarsini (1984) insegna Filologia romanza all’Università di Siena. Suoi racconti sono apparsi su Nuovi Argomenti, La rassegna mensile di Oblique, e nelle raccolte Il fiume in un racconto (Clichy) e Radio1 Plot Machine (Mondadori-Rai Eri). Ha scritto articoli e longreads per minima&moralia, Le parole e le cose, The Towner, Il Post. È autore di un romanzo inedito, L’incauto acquisto, segnalato dal comitato di lettura della XXIXa edizione del Premio Calvino.
Un racconto di Silvano Calzini
Numero di battute: 1855
Cap. 1
Squillo d’alto bordo sgozzata in una mansarda di via Santo Spirito, nel cuore del quadrilatero del lusso e della moda. La notizia fa scalpore. Partono le indagini.
Cap. 2
Faceva la commessa in corso Vercelli. Un giorno una cliente le dice: «Conosco dei signori che per certe robine farebbero pazzie. Chiamami». La sventurata chiamò.
Cap. 3
E fu subito passaparola nel giro della Milano che conta. Clientela scelta, anzi sceltissima. Solo gente seria, importante. «Di classe» come diceva sempre lei.
Cap. 4
Servizio di prim’ordine e niente tariffe fisse. Tutto al buon cuore dei clienti. E si sa che i milanesi oltre al cuore hanno in mano anche il libretto degli assegni.
Cap. 5
Voci e sussurri di una lista degli habitué. Pissi pissi bau bau nella Milano dei sciuri, ora tutti molto “schisci”, che da queste parti vuol dire “abbottonati”.
«E si sa che i milanesi oltre al cuore hanno in mano anche il libretto
degli assegni.»
Cap. 6
Gran sfilata di papaveri al Palazzo di Giustizia, neanche fosse la prima della Scala. Ci sono tutti: industriali, banchieri, finanzieri, politici, giornalisti.
Cap. 7
Colpo di scena. Nella mansarda c’è il Dna del cingalese custode del palazzo. Il sollievo della Milano che conta spazza lo smog e arriva fino a Quarto Oggiaro.
Cap. 8
Il cingalese confessa il delitto. Bene! Milano respira. Dopo due giorni però dice: «Io ucciso signorina perché lui pagato me». Ahi! Ma lui chi? Milano trema.
Cap. 9
San Vittore: il cingalese viene trovato morto nella sua cella. La cosa puzza, ma l’autopsia parla chiaro: «Morte per cause naturali». Ah, la provvidenza manzoniana!
Cap. 10
La salma del cingalese viene rimpatriata; quella della squillo cremata. È luglio: «Ma cùsa te fè chi cun ’sto cald?». La Milano dei danè è già tutta a Santa Margherita.
Epilogo
Nel deserto di agosto in via Santo Spirito, nel cuore del quadrilatero del lusso e della moda, compare un cartello: “Affittasi mansarda”. Arrivederci a settembre.
Silvano Calzini (1956) vive a Milano. Ha pubblicato Figurine. 100 grandi scrittori raccontati come assi del pallone (Ink, 2017) e la serie di e-book Nani da leggere. Romanzi in 10 parole (Simonelli Editore, 2011-2014).
Un racconto di Mari Accardi
Numero di battute: 2500
Come si dice je t’aime?
Ti amo.
Sotto casa mia ci sono due gang rivali. In una i ragazzi – no femmine – portano il giubbotto di jeans, nell’altra i ragazzi – una sola femmina – portano la tuta. Il mio alunno, l’unico che ho, è in tuta, ma non sa che abito qui, che lo vedo.
In questa città che lui stesso ha definito “di vecchi e cani piccoli”, ecco dove sono concentrati i giovani. È la zona dei kebab eppure il loro quartier generale è un take-away giapponese. Stanno a mezzo metro di distanza gli uni dagli altri, bevono birra giapponese, si picchiano per scherzo con quelli del proprio gruppo, per davvero con gli altri. Fino a mezzanotte si sentono solo le voci poi, quando il take-away chiude, due componenti, uno per gang, saltano su macchine spuntate dal nulla e gareggiano da una punta all’altra del boulevard intervallato da dossi artificiali che creano una sorta di melodia.
«È la zona dei kebab eppure il loro quartier generale è un take-away giapponese.»
Il boulevard lungo tre chilometri collega il centro storico, minuscolo e bellissimo, al resto. Un resto fatto da residence che si distinguono solo dai nomi, a volte fantasiosi, come Genio della lampada, Vento d’estate, ma perlopiù di fiori. Ai residence si alternano parrucchieri, negozi di serrature e casseforti, di protesi, farmacie, servizi per gli anziani, supermercati, mobili buttati per trasloco, cacche di cani, zero parchi. La signora dell’agenzia ci ha abbindolato con la “vista mare” che si scorge tra il cemento, a ricordarci che siamo in Costa Azzurra. Diceva che era una via rumorosa ma che essendo al settimo piano saremmo stati isolati. Invece sembra di stare al pianterreno, potrei parlare con le gang senza bisogno di gridare.
Il mio alunno, preso fuori contesto, è innocuo, timido addirittura. Vuole imparare l’italiano perché si è innamorato di una ragazza di Venezia. Con me, pur indossando la tuta, parla a voce bassa, chiede scusa.
Quando ho tirato la prima secchiata d’acqua mi sono coperta il viso con un passamontagna, per non farmi riconoscere. Ho colpito la gang in jeans, gli altri ridevano. Allora poi la secchiata l’ho tirata a quelli in tuta, gli altri ridevano, e queste risate reciproche sono finite in rissa, mettendo in secondo piano il mio gesto. Lucien dice che è più semplice comprarci i tappi per le orecchie ma non è questo il punto. Nascosta, camuffata, tiro secchi d’acqua in piena notte. Protesto contro la bruttezza. So che presto me le troverò dietro la porta, le due gang insieme, per una volta alleate.
Insegnami una frase romantica.
Sogni d’oro.
Mari Accardi è nata a Palermo e vive in Francia. Ha pubblicato Il posto più strano dove mi sono innamorata (Terre di Mezzo, 2013), finalista al premio Settembrini. È tra le scrittrici dell'antologia Quello che hai amato (Utet, 2015), e ha scritto per Granta, Watt, Colla, Effe, Toilet, Doppiozero.
Un racconto di Marco Corvaia
Numero di battute: 2496
Fuori l’aria è acuminata. Ancora. Fa serrare la mascella. Nubi rotonde si estendono fino a perdersi in Svizzera.
Lascia la stanza in cui ha dormito per quattro mesi, abbandona l’albergo in cui ha lavorato per la stagione invernale, al termine del contratto. Non si sente un disertore, né un ergastolano evaso di prigione o una cavia fuggita dal laboratorio, una sensazione di liberatoria sottrazione che preferirebbe percepire, e questo lo turba.
Si sfila di dosso il borsone che porta a tracolla e lo poggia per terra, si volta verso l’ingresso della struttura turistica in cui ha cucinato dodici ore al giorno e considera che, nonostante l’estenuante velocità con cui si è dovuto muovere in quei giorni privi di riposo, il modo migliore per descrivere quell’esperienza sarebbe tramite un film interamente a rallentatore, per enfatizzare ogni dinamica fisica, ogni agitazione dell’ambiente, tutte le trasformazioni organiche. E anche questo gli increspa l’espressione. Chissà se ne esiste uno, si domanda, forse sarebbe un interessante esperimento cinematografico, potrebbe intitolarsi La Terra ruota lentamente; oppure no, sarebbe soltanto un film immerso nella noia, con una scelta tecnica pretestuosa. Riprende il borsone e si allontana prima che qualcuno lo veda ed esca per salutarlo.
Camminando, in discesa tra monti innevati che lo scrutano, lo circondano, lo minacciano, estrae dalla tasca il registratore vocale, lo porta alla bocca e preme rec: «Il principio della fine è la fine del principio». Stop. Ricambia gli sguardi di sfida al Monte Bianco e ha un passo deciso, si sgancia da Courmayeur che è stato un buon posto dove rifugiarsi per un po’. Telefono spento, internet dimenticato, agire per necessità altrui, stancarsi e dormire, riflettere il meno possibile, nessuna vita sociale, intascare l’assegno.
«Telefono spento, internet dimenticato, agire per necessità altrui, stancarsi
e dormire.»
Perfora e trapassa un gruppo di sciatori, qualcuno lo fissa, come sempre; nel giorno in cui smette di crescere comincia a invecchiare e non è una brutta sensazione. La biologia è accettabile. Si sente saldo anche se è dimagrito cinque chili. Possono fissare la sua totale assenza di peluria quanto vogliono, non gli importa più.
Riaccende il telefono, proseguendo il cammino. Attende. Riceve un messaggio... soltanto uno: «È da vigliacchi fuggire così, senza dire una parola. Non so neanche dove sei finito. Non ti perdonerò mai».
Ecco, è arrivata, la sensazione di evasione, tardiva, ormai inopportuna. Il tempismo è tutto in certe faccende, pensa, e spegne il telefono.
Marco Corvaia (1980) è nato a Palermo. Dopo aver girovagato tra Roma, Bologna, Firenze e Milano, è tornato nella sua città ma non ha ancora capito perché. È l’autore di Pino se lo aspettava. Il racconto della vita e della morte di Padre Puglisi (Navarra Editore). Sue poesie sono state pubblicate in antologie e su Prospektiva, Sagarana e Alibi. Con un amico disegnatore è l’autore del blog a fumetto Nonno Fetish & Nonna Punk.
Un racconto di Francesca Marzia Esposito
Numero di battute: 2313
Crescendo incontravamo strani oggetti nella casa, misterici monoliti accampati tra le gambe a cavalletto del tavolo, sui tappeti, lungo le mensole, oscuri volumi imperscrutabili che nella loro mancata corrispondenza a una precisa funzione sapevamo essere: opere d’arte. Fiancheggiavano muri, con la matita imbrattavamo l’intonaco a nostra altezza e il cervello l’avevamo a mollo nel periodo concettuale di nostro padre.
Pannelli rettangolari in corridoio esponevano prodigiosi utensili chirurgici, bisturi affilati adatti alla vivisezione che suggerivano un ordine sempiterno primordiale. Nell’anticamera un lavello di marmo, nel quale fingevamo di raderci, si collegava a una bombola di gas o di ossigeno bianca anch’essa e posta sotto al ripiano. Un’anomala pettorina in salotto riproduceva l’anatomia di un ventre, la piastra di vetro era fornita di cinghie per l’allaccio e rimandava a uno strumento di tortura correttiva per corpi deturpati da abominevoli storture.
Con Manuela sostavamo nella stanza degli scacchi dove, oltre a quadri e libri, trovavamo foto in bianco e nero di un uomo nudo riccio di inguine che si copriva il viso brandendo un pugnale. Lo studio era la porta in fondo; noi spiavamo nostro padre issato sulla scala contro la tela, oppure accovacciato a terra con le mani e i jeans imbrattati di pittura.
«Più del nostro accento temevamo le tele con le fiche galleggianti.»
Ci trasferimmo a Milano e nostro padre prese a disegnare fiche galleggianti nel magma di colore. Non avesse usato il carboncino nero avremmo potuto immaginare altro anziché l’esattezza della soffice matassa pubica femminile. Conoscemmo Monica e Luca, mocciosi meneghini che presero a farci notare l’accento differente. A nessuno dicevamo di nostro padre artista. Avevamo già un bel daffare con una madre eccentrica che in confronto alle altre donne, prototipi lignei a cassetti usciti da un mobilificio dozzinale, pareva schermo elettrizzato.
Un giorno invitammo Monica e Luca per ricambiare gentilezza. Più del nostro accento temevamo le tele con le fiche galleggianti. Una di queste si trovava sulla parete del soggiorno. Dico soggiorno e non è esatto, la casa era loculo a una sola stanza e la tela incombeva immensa nella sproporzione. Che cosa significa, disse Monica fissando la vulva. Luca prese a ridere. Diventammo rossi in volto e rispondemmo a mente: che stiamo con Satana.
Francesca Marzia Esposito vive a Milano, insegna danza. Si è laureata al Dams di Bologna, ha conseguito un master in Scrittura per il Cinema all’Università Cattolica di Milano. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati sulle riviste: Granta, ’tina, Colla, GQ e altre. La forma minima della felicità è il suo primo romanzo, edito da Baldini & Castoldi (2015).
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