Un racconto di David Valentini
Numero di battute: 2426
È stato come dopo la caduta dell’impero d’occidente, hai presente? Non è che il 5 settembre del 476 d’improvviso sono spuntati castelli e armature medievali e la gente ha smesso di parlare latino.
Tutto era ancora Roma, no?
Nessuno ha capito. Avevano soltanto sostituito l’ennesimo, inutile imperatore con qualcuno più amato dall’esercito.
Prendi Boezio: mentre scriveva di temi già tipicamente medievali, continuava a considerarsi un romano. Me lo immagino, in attesa della morte nella sua cella buia in compagnia dei fantasmi di Cicerone e Seneca, quei suoi illustri concittadini.
C’è voluto del tempo prima che la gente si rendesse conto. Gli anni passavano, re barbari si sostituivano ad altri re barbari, la perfetta macchina amministrativa romana cedeva il passo al diritto germanico. Il sogno di Roma aleggiava nell’aria, illuminando le notti oscure di chi provava a trasformarlo in realtà.
Pensa alla peste di Giustiniano. Pensaci un secondo: se non è quella una sliding door non so proprio cos’altro potrebbe esserlo. Magari se l’impero bizantino non fosse stato decimato da oltre dieci anni di epidemia, oggi parleremmo ancora latino.
«Tutto
era ancora
Roma, no?»
Che poi, per quanto si vantassero del titolo di imperatori romani, i successori di Giustiniano avrebbero parlato greco fino alla fine. Da Augustus a Basileus il passo è breve, e quando si arriva al Sacro romano impero mi faccio sempre due risate.
Quindi ecco, Paola, quando ripercorro come sono andate le cose in questi anni, non posso non pensare alla fine dell’impero romano. Ci siamo detti che era solo un momento di crisi di passaggio che stavamo attraversando. Che l’avremmo superata, che alla fine del nostro viaggio ci saremmo ritrovati qui. Insieme. Come prima.
Poi ho trovato lavoro a Milano. Tu sei partita per il servizio civile.
Al telefono – te lo ricordi quel periodo così strano? – parlavamo di quando ci saremmo rivisti.
Era questione di tempo. Dovevamo capire meglio noi stessi, i nostri obiettivi.
Ma poi, dicevamo. Poi vedrai che.
Anche le persone che abbiamo preso a frequentare erano solo figure temporanee. Qualcuno per riempire le nostre solitudini.
Era sesso, non amore. Quello era prerogativa nostra.
Così ci dicevamo.
Il Sacro romano impero venne sciolto nel 1806 da Francesco II, ma sono sicuro che c’è stato un momento in cui i tedeschi hanno smesso di chiamarsi romani.
Un momento in cui l’unità di Roma è diventata irrecuperabile.
Capisci cosa voglio dire, tesoro mio?
David Valentini (1987) è nato a Roma. Laureato in filosofia, si occupa di editoria, scrittura e comunicazione. Ha pubblicato racconti su Altri Animali, Inkroci, Crapula club, Spaghetti Writers e Carie.
Un racconto di Ilaria Gaspari
Numero di battute: 2475
Il modello era un ragazzino, aveva occhi blu e ciglia lunghe che abbassava di continuo come piccoli ventagli. Gli chiedevi una cosa, e quello invece di risponderti socchiudeva gli occhi. Qualche volta poi rispondeva. Veniva da un posto oscuro, un nome polacco forse? Comunque, una landa al di là della cortina di ferro. Pensava Lea, in ginocchio di fronte a lui, mentre aspettava – era un 43 o un 44? aveva due scarpe per mano, lei, e lui gli occhi socchiusi, inutile e perfetto – che forse se non avesse avuto quegli occhi ora sarebbe stato in una scuola squallida, un cubo prefabbricato, realismo socialista, bitume, alcolismo, miasmi, miseria; prima di intraprendere una carriera sfiancante e disumana, muratore, operaio, camionista. Invece era lì, in kimono e piedi nudi (43? 44?) nello stanzino dietro la sala con gli specchi, dove sistemavano i tavoli per la conferenza stampa, contavano sedie, faceva caldo e nessuno parlava.
La sarta aveva sistemato il bottone della camicia bianca. Possiamo vestirti? Silenzio. Entrò il supervisore, Lea era ancora in ginocchio. La fulminò: era già tardi. Lea porse i pantaloni al ragazzo che sbuffando si alzò; con un gesto che aveva fatto mille volte gli slacciò il kimono e iniziò ad abbottonargli la camicia, dall’ultimo al primo bottone, poi i polsini, come a un bimbo piccolo.
«Se non era per questi occhi, adesso, altroché.»
Era molto più alto di lei: quando gli lisciò il colletto sollevò il viso verso quello di lui, lo guardò e quasi l'avrebbe baciato, sarebbe bastato poco. Lui le fece cenno che gli allacciasse i pantaloni e Lea pensò: se non era per questi occhi, adesso, altroché. Si chinò, gli mise le scarpe 44 per non sbagliare, le allacciò strette. Aveva piedi da uomo, ossuti, le vene in rilievo, i piedi dell'uomo che sarebbe stato se non fosse nato con quelle ciglia da bambola, i piedi con cui avrebbe guidato un camion per le strade dell'Europa.
Durante la conferenza stampa Lea gli infilava cappotti descritti in tre lingue dalla traduzione simultanea. Lui, impettito, docile, si abbassava un poco perché Lea potesse accomodargli le spalle. C'era un cappotto di pelliccia di un grigio lucente, pareva d'argento. Spalancò gli occhi: nella magnifica pelle di chissà quale animale, si sentiva un principe, non poteva star fermo: si accarezzò un fianco, l'altro, il pelo morbido, lussureggiante.
Di nutria, disse in tre lingue simultaneamente la voce nei microfoni. Lui non ne capiva nessuna: continuò ad accarezzarsi, in piedi, beato, mentre tutti inorridivano.
Ilaria Gaspari (1986) ha studiato filosofia a Pisa e poi a Parigi. Il suo primo romanzo è Etica dell’acquario, uscito per Voland nel 2015. Collabora con l’Espresso, La Lettura, Vogue, cura diverse rubriche sul Libraio.it. Alcuni suoi racconti sono apparsi nell’antologia Teorie e tecniche di indipendenza (Verbavolant, 2016), sulla Stampa e su Reportage.
Daniele Pasquini (1988) è nato in provincia di Firenze. Giornalista pubblicista, si occupa di comunicazione e di eventi culturali. Suoi racconti sono stati pubblicati su riviste, blog e antologie (tra cui Prendi la DeLorean e scappa, Las Vegas 2015).
Ha esordito nel 2009 con il romanzo Io volevo Ringo Starr (Intermezzi). Con Intermezzi ha pubblicato anche il racconto lungo Le rockstar non muoiono mai (2013) e la raccolta di racconti Ripescati dalla piena (2015). I suoi ultimi romanzi sono Un naufragio (SEM 2022) e Selvaggio Ovest (NNE 2024).
Un racconto di Kristine Maria Rapino
Numero di battute: 2489
Ho salvato un piccione.
Nonostante tutto, l’ho salvato.
Avrebbe potuto essere un cane, un bambino. Avrebbe avuto un senso. Invece, davanti alla porta di casa mia, c’era un miserabile piccione. Piccolo. Scuro. Imberbe.
Lo sposto nella terra. Rientro. Torno indietro. Lo prendo, me lo metto nella vasca da bagno. Dovrei farlo bere con una siringa. Ma quel ridicolo ingombro d’ossa è combattivo. Allunga il collo, becca come un’aquila. E stattene lì, nel tuo piscio giallo. So già che lo ritroverò morto.
La mattina mi alzo. Mi vesto. Il primo pensiero è andare a buttarlo, e pulire tutto. Invece è ancora vivo, ma provato. Ansima. Non si regge più sulle zampe. Lo guardo per un po’. Se morissi adesso, gli dico, mi risparmieresti la fatica. Poi prendo le chiavi, uno straccio, una scatola di vecchi sandali col tacco. E via, in macchina.
Tamburello sul volante. Accendo una sigaretta. Cazzo, ho detto che la devo smettere. Di colpo mi viene in mente che possa fargli male. Pensiero ridicolo. Apro il finestrino. Troppa aria. Lo richiudo. Quella specie d’imbuto neanche mi guarda. È immobile. Fisso in un angolo. Venti minuti. Lo tocco. Mezz’ora. Ancora niente. Proprio non vuoi morire. Sei uno che non molla.
«Ho salvato un piccione. Nonostante tutto l’ho salvato.»
L’insegna del Centro Recupero Rapaci. Scendo. Una mano sotto la scatola, l’altra sul pullo quasi esanime. C’è una veterinaria, dentro. Non perdo tempo. Glielo consegno, e me ne vado. «Poi vuole sapere come sta?» mi blocca. Annuisco, senza pensare. Le lascio il mio numero. «Non ci speri troppo, però.» Quasi mi consola.
Di nuovo in macchina. Guido in una direzione qualsiasi. Il cielo è un letto disfatto. Si prevede temporale. Troppo caldo per essere maggio. Accendo un’altra sigaretta. Un gatto mi attraversa la strada e per poco non lo metto sotto. Accosto per lo spavento.
Ho trentacinque anni. Ho appena perso il lavoro. Volevo un figlio.
In un attimo, tutto a puttane. E io che non riesco a smettere di pensare a quel maledetto piccione. Mi rimetto in strada. Accelero. Accendo l’aria condizionata al massimo. Fanculo il freddo.
All’ora di pranzo, rientro. Controllo il telefono. Niente. Pulisco la vasca da bagno senza guanti. La varechina mi scava le mani. Quel piscio m’ignora. Non se ne va. Lo devo scorticare. È tenace, penso. Come lui. Chissà.
Mangio qualcosa, controllo il telefono. Ancora niente. Dovrei uscire. Poi, una chiamata. È la donna del Centro Rapaci. Rispondo. Mentre lei parla, mi guardo le mani secche, l'odore bianco. Sorrido. E mi accorgo di essere felice.
Kristine Maria Rapino (1982) è laureata in Lingue e vive a Chieti. Con il romanzo inedito Voglio un amore da film ha vinto il premio della critica del programma Tramate con noi di Radio Rai1, è stata finalista regionale del Premio Letterario Rai La Giara e concorrente del talent letterario di Rai3 Masterpiece. Con un racconto ha vinto il Premio Sándor Márai per scrittori emergenti. Ha collaborato con alcuni web magazine e si occupa di editing. Ha appena terminato il suo secondo romanzo.
Un racconto di Carmelo Vetrano
Numero di battute: 2499
Erano sempre i rumori che le ingarbugliavano il tempo. Nel buio della stanza ne aveva sentito uno: poteva essere stato suo figlio, ma Francesco non rientrava quasi mai così presto. A suo marito, stando al ritmo con cui russava, era evidente che non gliene fregava proprio. Sentiva la sua voce anche senza doverlo interpellare. Siamo stati giovani pure noi, no? E lascialo divertire. Lei era stata giovane? Lei era giovane, ma non nel modo che intendeva suo marito. Spostò il piumone – non proprio il piumone, quello più leggero, il piumotto, come diceva qualcuno; ma che cazzo. Infilò le pantofole e andò in corridoio. Silenzio.
La porta della stanza di Francesco era proprio lì. La apriamo? La apriamo. Per lo spostamento d’aria se ne era aperta un’altra, forse quella della cucina. Dentro, la luce del lampione entrava sfruttando le fessure della tapparella, calava sugli angoli dell’armadio, del comodino, e sulle curve del piumone, che era gonfio. Sei qui. Sotto, Francesco undicenne che dormiva con la bocca spalancata. Un’abitudine che non aveva più.
«Erano sempre
i rumori che le ingarbugliavano il tempo.»
Si ritrasse, richiuse piano e puntò la cucina. La porta era aperta a metà. La spinse con forza – un altro spostamento d’aria, un’altra porta che si apriva – e trovò suo marito, seduto, che guardava la tv. Addosso lo stesso giubbino verde che aveva nella foto della vacanza in montagna del duemilacinque. Non senti caldo? Lui tenne gli occhi sullo schermo, fece un gesto con la mano sinistra. Un incontro di pugilato. Due neri. Erano anni che non lo seguivi.
Un altro rumore: questa era la porta d’ingresso. Le sembrò che tutte le altre si spostassero all’unisono. Suo marito era scomparso, insieme ai pugili. Francesco era invece sulla soglia della cucina. Capelli in disordine, occhi pesanti. Mamma, che ci fai qui? Che strana sensazione, farsi riprendere da suo figlio. Avevo sete. Andò al frigo, aprì lo sportello facendo tintinnare le bottiglie. Suo figlio si avvicinò. Ho sete anch’io. Gli passò la bottiglia. Ora suo marito era di nuovo lì, in piedi e in pigiama. Che succede? Non era facile rispondere. Aveva la testa piena di parole, tutte in disordine. Poteva dire qualcosa sull’incontro di pugilato, o su Francesco che dormiva di là? Non era pronta per questo. Non era mai sicura di quello che le succedeva, così non diceva niente; gli altri potevano fraintendere, metterla in difficoltà. Meglio essere cauti. Non poteva sapere come l’avrebbero presa, sapendo che lei era l’unica, in quella casa, per la quale il tempo non esisteva.
Carmelo Vetrano (1975) è originario di San Pancrazio Salentino (BR), ma vive a Verona dal 2006. Ha collaborato con la rivista ex-libris, ha pubblicato racconti in un’antologia dell’editore Manni e sulle riviste In-edito e Cadillac Magazine.
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