Un racconto di Ida Amlesú
Numero di battute: 2150
I quattro lampioni occhieggiano distratti. Nessuna musica, nemmeno per idea. La salumeria islamica si è trasformata in lavanderia. Cinese, a gettoni. I gettoni sono cinesi. I clienti sono arabi. Gli sciami sulle scale non sono insetti, ma transessuali di varia etnia. È straordinario, un palazzo prestigiatore.
Un uomo pende alla finestra. Non è morto: fuma, per ingannare il tempo. Piedi fuori dal davanzale, si tiene a un tubo di grondaia. La gravità non lo interessa. Magari vola. Lui guarda la strada per trovare o il senso della vita, o quella moneta effigiata persa tra le rotaie, o il poliziotto in borghese incaricato di fare irruzione. Però non succede niente. La vita non ha senso, la moneta l’hanno rubata nottetempo e il poliziotto in borghese è pigro e gioca a carte. Da solo. E perde.
Ogni tanto va a fuoco il sottoscala. O il sottotetto, basta sia il sotto di qualcosa. Ecco che giungono di corsa tutti – pompieri ambulanza carabinieri. Il poliziotto pigro molla le carte e va a litigare. Era arrivato prima lui, insomma. Dal mazzo di quaranta gli hanno sfilato due carte. Un asso un re. Ma chi è stato? Per ripicca, adesso arresta qualcuno.
«È straordinario,
un palazzo prestigiatore.»
I soccorsi avanzano, si fermano, riprendono. Spintonano la ressa. Non passano. Sulle scale, spruzzi di piscio asciutti. Un uomo in turbante gioca a dadi contro una brasiliana. Vincono entrambi, a giudicare dagli abbracci. Seduti sui gradini, i condomini vogliono parlare. Quale incendio non c’è nessun incendio. Non vedo fumo. Sì mi chiamo Pasquale controlli qua sulla patente. Non sono cinese sono vietnamita. No non abito qui. Non me ne vado affatto ho puntato tutto sulla brasiliana e aspetto la rivincita.
L’incendio si spegne da solo. Nessun ferito, le barelle se ne tornano con le pive nel sacco. I pompieri per lo smacco svuotano le cisterne sulle scale. Il poliziotto in borghese attacca briga coi carabinieri, poi ci ripensa – chi glielo fa fare? – e torna al suo solitario. Il signore in turbante con un colpo di dadi sconfigge la rivale. L’uomo appeso alla grondaia fuma ancora, una sigaretta infinita. Guarda lontano.
E si chiede: e ora che me ne faccio di un asso e un re?
Ida Amlesú (1990) è nata a Milano, ha vissuto tra Milano, Parigi e Mosca, dove lavora attualmente come insegnante. Laureata in Filologia Slava e Letteratura Russa, si è dedicata per anni al canto lirico. Suoi racconti sono apparsi sul blog Piazzaemmezza, sulle riviste Nuovi Argomenti e Colla, sull’antologia Ypsilon Tellers (Feltrinelli, 2015). Con il suo romanzo d’esordio, Perdutamente (Nottetempo, 2017), ha vinto il Premio Salerno. Alcune sue traduzioni sono apparse su Nazione Indiana e Nuovi Argomenti.
Un racconto di Francesco Spiedo
Numero di battute: 2000
Anna gettò distrattamente gli occhi sullo schermo e lesse: biglietto vincente serie 409, poi le mancò il coraggio. «Paolo» sussurrò quasi per non svegliarsi, «l’hai giocata la lotteria?» «Certo» rispose l’altro dal balcone della piccola cucina dove si ritirava a fumarsi una sigaretta. Anna si sedette con un tonfo e restò muta tanto che al marito dovette sembrare morta, ma morta non era, anzi mai si era sentita così viva. Si erano giocati il biglietto serie 409 n. 001, lo ricordava bene. «Paolo» disse a mezza bocca, «c’è una possibilità che abbiamo vinto.» «C’è sempre una possibilità, per questo si gioca, ma cos’hai?» E poi anche a lui mancò la voce.
E se avessero vinto sul serio? Si guardavano felici, come se i sette milioni fossero già nelle tasche. Restavano lì, lei seduta a guardarsi le mani e lui a misurare i quattro metri della cucina. Per prima cosa, pensò Anna, una casa al mare e qualche viaggio e un vestito, anzi due, ma che dico? Tre, sette, cento vestiti. Per prima cosa, pensò Paolo, una macchina sportiva, poi un figlio, qualche investimento e gli interessi della banca.
«Paolo, c’è una possibilità che abbiamo vinto.»
Pensavano a tutte le mattine senza il lavoro, svegliarsi leggeri. Non avevano fretta di alzare lo sguardo e leggere il numero del biglietto vincente, a loro bastava quest’ipotesi di vincita. Piuttosto si guardavano e Paolo pensava che Anna, fifona com’era, una sportiva non l’avrebbe comprata e che avrebbe speso tutto in vestiti e viaggi, mentre Anna pensava alla noia che avrebbe provato a viaggiare con Paolo che si lamentava per ogni cosa. In un momento iniziarono a odiarsi, e fu come una liberazione guardare lo schermo e urlare pieni di risentimento: «Serie 409 n. 018, non abbiamo vinto!».
Paolo afferrò un’altra sigaretta: quella casa non gli era mai apparsa così brutta e quella moglie così insignificante. Ad Anna parve un’immensa sciocchezza esser finita a sopravvivere accanto a un uomo così crudele. Andarono a letto senza parlarsi, mentre dall’altra parte del Paese qualcuno non avrebbe chiuso occhio tutta la notte.
Francesco Spiedo (1992) nasce a Napoli, si laurea in Ingegneria e scrive per alcune riviste online, occupandosi d’ambiente e cultura. Ha frequentato un Master in scrittura creativa, ha pubblicato racconti e romanzi, continua a scrivere anche per il teatro. Attende l’opera della vita, nel frattempo non demorde.
Un racconto di Arzachena Leporatti
Numero di battute: 2487
L’uomo lavorava come comparsa nei film di fantascienza. Il suo ruolo era quello dell’alieno, per via del suo aspetto, per natura, terrificante. Aveva la fronte alta, piatta e lucida. Gli occhi infossati e scuri. Il naso schiacciato e appiccicato alla bocca frastagliata e fine, che dava all’intero volto un’aria cattiva e triste insieme. A Brighton, nel suo bar preferito, era stato notato da un regista californiano in vacanza. Ti paghiamo bene, aveva detto. Domani parto, aveva risposto l’uomo.
A Los Angeles viveva in un appartamento senza né letto né tavolo né sedie. Dormiva per terra e sempre per terra mangiava e guardava la tv, l’unico oggetto che il precedente proprietario aveva lasciato in quella casa prima di suicidarsi nella vasca da bagno.
«Il suo ruolo
era quello dell’alieno.»
L’uomo, ormai totalmente influenzato dalla personalità dell’alieno che interpretava ogni giorno, aveva iniziato a odiare il genere umano. Per prime le donne, le quali da sempre avevano riso di gran gusto alla vista della sua faccia spaventosa. Poi era stato il turno degli uomini. Aveva provato a trovare in loro conforto e affetto, a innamorarsene magari. Non era andata meglio e per tutta risposta aveva ricevuto spintoni e offese. La sua unica attività all’aria aperta, in mezzo alla gente, era la camminata che lo separava dal set.
Non parlava con nessuno da molti anni. Le uniche parole che pronunciava erano le battute a lui assegnate, che erano poche e molto brevi. Un giorno la Signora Del Buffet lo chiamò per nome. Richard, disse. Lui a stento se lo ricordava, il proprio nome. Nonostante il suo aspetto orripilante, la Signora sembrava provare davvero piacere nello scambiare quattro chiacchiere con lui. L’uomo si sentiva destabilizzato da tante attenzioni e da quell’improvviso contatto umano, ma dopo due giorni si trasferì nell’appartamento della Signora, che aveva tavoli, sedie e persino un letto.
Le chiese, Mi ami? Lei rispose, No. Lui le chiese, Allora perché sono qui? Lei rispose, Perché ho bisogno di qualcuno che mi faccia compagnia, sono vecchia. Lui disse, Va bene, ma sono allergico ai gatti. La Signora aveva 15 gatti, ma lo perdonò. Starnutì 3 volte al giorno per 25 anni spendendo un patrimonio in Kleenex. Continuò a fare l’alieno per il resto del tempo. La Signora era vecchia ma aveva una salute di ferro. Alla fine fu lui a morire per primo. La Signora arrivò all’ospedale in tempo. Lui le strinse la mano per la prima volta. La ringraziò. La compagnia, in fondo, non gli era poi dispiaciuta.
Arzachena Leporatti (1991) nasce e vive a Prato. Collabora con magazine online come Nuok e Rumor, ha pubblicato racconti su Lahar e Tuffi e ha partecipato a vari concorsi letterari. La lunghezza del romanzo la spaventa ma vorrebbe provare a scriverne uno.
Un racconto di Daniele Pasquini
Numero di battute: 2455
Quando, dopo essere stato inseguito, si ritrovò sul retro di un capannone con un coltello puntato alla gola, solo allora capì a quanto poco servissero i rimorsi per aver sprecato la vita di un tempo, quando gestiva il bar, quando si faceva un gran culo e ogni mattina alle sei tirava su la saracinesca e sentiva il profumo delle brioche appena scaricate dal pasticcere, quando c’erano ogni tanto delle piccole cose che lo commuovevano, non che lo rendessero felice – era comunque un quarantacinquenne fallito – eppure un senso alla giornata lo davano, cose come il buongiorno del primo cliente, come l’ultimo cicchetto la sera, come fantasticare sulle ragazzine che compravano la merenda, quelle storie lì, che gli sembravano pochezze, eppure le rimpiangeva ora che se le era lasciate sfuggire, come si era lasciato sfuggire Letizia, l’unica donna che bene o male c’era sempre stata, che non era una bellezza ma gli faceva compagnia fino a chiusura e pure dopo, che lo aveva portato in vacanza, lo aveva accompagnato alle cene coi parenti,
Letizia che gli reggeva il capo quando vomitava, che gli preparava le lasagne per il compleanno e che gli aveva dato il culo nonostante le ritrosie, che gli aveva prestato duemila euro per risistemare il bancone del bar e invece lui da sei mesi sputtanava in cocaina più di quanto riuscisse a guadagnare,
«Non c’era niente da fare, solo inutili ricordi, flash.»
e sì che aveva iniziato così per provare, ma c’era precipitato, e allora aveva provato a prenderla all’ingrosso e piazzarla per ripagarsi il vizio – non voleva spacciare e arricchirsi ma quantomeno minimizzare la spesa – ma in quel ramo imprenditoriale c’era chi non l’aveva presa bene, gente che gli aveva mandato avvertimenti che lui aveva ignorato, troppo tardi per fermarsi, per tornare a pensare al bar e alle brioche, ora che nell’aria c’era solo il tanfo dell’area industriale e i ronzii costanti dei capannoni non c’era niente da fare, solo inutili ricordi, flash, come nel momento in cui iniziando a sentire la lama che incideva la pelle, nell’istante in cui da copione avrebbe dovuto chiedere pietà, in quel momento ripensò a sua madre morta di cancro un anno prima, che una notte verso la fine dell’ultimo ciclo di chemio lo sorprese in casa da lei a frugare nei cassetti, quella notte che sua madre gli disse perché mi fai così, va a finire che farai una brutta fine e lui nel buio si vergognò, e ora che anche lui forse moriva pensò a quel che le disse: mamma tranquilla, è solo un brutto periodo.
Daniele Pasquini (1988) è nato in provincia di Firenze. Giornalista pubblicista, si occupa di comunicazione e di eventi culturali. Ha pubblicato il romanzo Io volevo Ringo Starr (Intermezzi 2009), il racconto lungo Le rockstar non muoiono mai (Intermezzi 2013) e la raccolta di racconti Ripescati dalla piena (Intermezzi 2015). Suoi racconti sono stati pubblicati su riviste, blog e antologie (tra cui Prendi la DeLorean e scappa, Las Vegas, 2015). Fa parte della redazione di The FLR e scrive per Riot Van.
Un racconto di Gianluigi Bodi
Numero di battute: 2468
Non si ricordava dove l’avesse letta o sentita, ma mentre guardava una piccola pozza di luce illuminare le foglie del ficus gli ritornò in mente una frase. Solo i raggi del sole possono attraversare una finestra senza romperla. Sembrava una frase da bacio Perugina, qualcosa che un adolescente avrebbe potuto scrivere sul suo diario. Però suonava vera, una perla di saggezza a cui bisognava trovare un significato. Seduto alla scrivania, mentre cercava di far quadrare i conti del bar, provò a pensare a cos’altro potesse entrare da una finestra chiusa senza frantumarne i vetri. Ma non era un tipo creativo, la fantasia non sapeva nemmeno dove stesse di casa. Subiva gli stimoli esterni e ne godeva il prodotto sotto forma di film.
Le dita raschiavano la tastiera per dare un senso a tutti i numeri che gli erano piovuti addosso, alle preoccupazioni di ogni fine mese, ai sorrisi tirati davanti ai clienti che hanno sempre ragione anche quando hanno torto. Ma quella frase continuava a richiamarlo a sé. Il fatto è, pensava, che anche lui aveva bisogno di luce. Non solo perché era pallido come i fogli nella stampante, ma perché si era stancato di vivere sotto la costante pressione di un buio a cui non riusciva che dare il nome di futuro.
«Solo i raggi del sole possono attraversare una finestra senza romperla.»
Sì alzò dalla sedia, si avvicinò al ficus e gli accarezzò le foglie. Poi, si staccò dalla pianta. Come un salmone che risale la corrente si diresse verso la finestra. Era da lì dunque che nasceva quella luce? Ne voleva un po’ anche lui. Se ne restò immobile, con gli occhi chiusi ad assorbire il calore dei raggi fino a che un botto improvviso lo destò.
Guardò giù in strada. Due macchine si erano scontrate, una delle due nella sua corsa aveva travolto e rovesciato i bidoni della spazzatura. I guidatori si erano riversati sull’asfalto bestemmiando. Attorno a loro si era radunata una piccola folla. Un ragazzo di colore percorse a testa bassa lo spazio dissestato che lo divideva dal gregge umano. Aveva le spalle piegate in avanti come se volesse scusarsi, un cappello floscio e logoro in mano. Iniziò a chiedere l’elemosina, ma non durò molto. Uno dei due autisti lo prese per la camicia, gliela strappò. Lo appoggiò al cofano della macchina e iniziò ad urlare come se la colpa dell’incidente fosse del ragazzo. La folla gli si avvicinò e lo sovrastò. Era facile vedere le traiettorie degli sputi illuminati dalla stessa luce che gli scaldava il viso. Ecco un’altra cosa che attraversa i vetri senza romperli: lo schifo.
Gianluigi Bodi è il creatore del sito Senzaudio.it, che si occupa di editoria indipendente. Nel 2015 ha vinto il concorso letterario indetto dal CartaCarbone Festival con il racconto Perché piango di notte. Ha curato la raccolta di racconti Teorie e tecniche di Indipendenza (VerbaVolant, 2016).
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