Un racconto di Paola Moretti
Numero di battute: 2482
Devo chiedere informazioni, ma ho la bocca impastata. Al banco balbetto «Ca…car…car», «Carouge!» mi viene incontro l’impiegata.
Arrivo e dormo. Per i quattro giorni successivi dormo. Dormo nel letto, dormo sulla sdraio in balcone, dormo sul divano con mia nipote in braccio. Avevo del sonno arretrato. Poi parto. Arrivo a casa dei miei e mangio. Per i quattro giorni successivi mangio. Mangio a casa, mangio fuori, mangio al mare. Poi mi stufo e parto. Vado in Toscana e osservo. Osservo la mia amica con la sua famiglia, la mia amica con il suo ragazzo, la mia amica con l’altra amica.
Parto di nuovo e arrivo a Napoli. A Napoli scopro. Le mie origini, le fissazioni di mio padre, il romanticismo. Torno a casa e fa troppo caldo. Vado al mare, mi annoio. Parto per Roma. Ho le vesciche ai piedi, non faccio in tempo a mangiare i carciofi alla giudia. Dormo con un ventilatore acceso che non serve a niente. Vado a Milano. Il tour dell’afa continua.
La nonna compie novant’anni. Torno a Pescara. Gioco a ping-pong, che poi si dovrebbe chiamare tennis tavolo se no i professionisti si offendono. Nuoto finché mi brucia la lingua per l’acqua salata.
«Sai che c’è? Riparto.»
Vado in montagna, sono in piazza con un maglione di lana e bevo Estathé al limone. Ascolto la musica del piano bar e guardo il sole scivolare dietro la Maiella. Beppe dice «pota» e mi conferma che il bergamasco è proprio brutto. Guardo Gianluca che invece è proprio bello. Sono in campagna, stesa in un’amaca a sua volta stesa tra due ulivi, la musica è grime e so che le mie amiche andranno avanti a ballare fino al mattino. Io ho con chi tornare a casa. Sono alla festa di paese, i tavoli disposti su una spianata di cemento. Le luci calde, le luci fredde, le noccioline tiepide nelle buste di plastica rosse. Gli arrosticini che mi porge la sua mano. Sono alla Torre del Cerrano, è ferragosto e io gioco a carte. Scopa! Sono competitiva. Mai una folata di vento.
Sai che c’è? Riparto. In macchina direzione Puglia. Tanto fino a Ostuni è tutto dritto. Poi guida lui. L’aria dal finestrino entra, ma i capelli non si muovono. Perché non ce li ho. Li ho rasati ieri. Zack. Il sole sta per tramontare, andiamo al mare. Dall’altra parte però, sul Tirreno è meglio. Le birre sulla sabbia al Jamaica, in realtà volevo le cozze, ma le han finite. O così ci han detto, ne arriva un vassoio pieno un’ora dopo. Ma non per noi. Puzziamo, di sedili, sudore e salsedine. «Su al paese» è tutto bianco. Il mio vestito. Il pavimento. Il suo sorriso.
Paola Moretti, vive, studia e scrive a Berlino dal 2009. Collabora con riviste italiane tra cui Not, Yanez e Il Tascabile.
Un racconto di Piergianni Curti
Numero di battute: 2468
Corinna e Rodolfo sono sorella e fratello. Due grandi fisici. Si sono sempre amati, di nascosto. Hanno vinto il Nobel per essere riusciti a risolvere l’annoso problema della contraddizione tra la relatività generale e la meccanica quantistica. Hanno un figlio, Orione, nato quando erano ancora geniali studenti di fisica. Avevano poi tentato di vivere secondo le convenzioni sociali. Lei aveva sposato Mario, lui non si era sposato. Quando Orione era nato, lo avevano registrato come figlio di Rodolfo e Lena, una prostituta messicana che era stata pagata profumatamente. Lena, la cui identità era falsa, era poi sparita. Orione era stato allevato dal padre. In seguito Corinna aveva avuto Clara, ufficialmente figlia di Mario, in realtà anch’essa figlia di Rodolfo.
Ora, a cinquant’anni, Corinna e Rodolfo si ritrovano nella casa d’infanzia per i funerali del padre. Con loro Orione e Clara, Mario e Delia, nuova compagna di Rodolfo. Aria pesante. Gli unici felici sono Orione e Clara che hanno annunciato quella sera di aspettare un figlio. Si sposeranno al più presto.
Corinna e Rodolfo comunicano anch’essi qualcosa di importante: che si amano, da sempre, che hanno capito di non potere più vivere l’una senza l’altro, e che andranno a vivere insieme, in Svizzera, dove le leggi lo consentono. Lacrime, rabbia, esecrazione.
«Lacrime, rabbia, esecrazione.»
L’unica cosa che non svelano è che Clara e Orione sono fratelli. Però questi lo hanno già scoperto da un bel pezzo dalle analisi di routine eseguite in vista del parto. Fanno finta di non saperlo. Nasce il loro figlio, il nuovo genio che sconvolgerà la fisica e insieme la morale e la vita degli uomini. Appena nato non piange, anzi, ride. In pochi giorni ripete le parole che sente. Dopo un mese conta. I nonni per primi se ne accorgono e scherzosamente lo chiamano Zarathustra. A cinque anni Zarathustra Altoviti ha un QI di 350. Impara una lingua in dieci giorni e per ora batte qualunque algoritmo a Go.
È sempre innamorato, è per l’amore libero, ama il prossimo suo, non crede in nessun dio, non vuole vivere troppo a lungo. Tutta la matematica che ha prodotto impegnerà per secoli gli studiosi. Ha una sorella bella e intelligente quanto lui. Sono legatissimi. Vuole dei figli. Scherza: la loro intelligenza andrà in progressione geometrica. Ha un mucchio di tempo, perché in un’ora produce quello che gli altri producono in un anno. Adesso si diverte a scrivere romanzi. Nessuno li capisce. Almeno per ora.
Fra trecento anni, forse.
Piergianni Curti ha insegnato matematica al liceo e alla facoltà di Economia dell’Università di Torino, ha scritto per il teatro, ha diretto compagnie drammaturgiche, teatri e festival. Ha pubblicato la raccolta poetica Qzearas (Edizioni Pitecantropus), oltre ad alcuni racconti su Granta, Atti Impuri e Literaturnaja gazeta. Nel 2013 ha vinto il Premio Gran Giallo di Cattolica con il racconto Pink Moon.
Un racconto di Antonella Duccini
Numero di battute: 2458
Con la faccia sporca fissa sdegnosa l’obiettivo, ignorandomi. Tiene le mani incrociate sul petto e indossa un orologio da uomo con il quadrante troppo largo per il suo braccio sottile. I suoi capelli hanno un gran bisogno di essere lavati. Non somiglia affatto ai bambini di cui mi prendo cura di solito.
Mi chiamo Vivian e sono una bambinaia, a volte è faticoso, ma non potrei fare altro. Con loro, la vita ricomincia da capo ogni giorno. Passo il tempo libero a fotografare la gente che incontro nelle strade di Chicago e nei vicoli lì intorno. I miei ricordi migliori sono legati alle foto che scatto. Per cinque giovedì filati ho seguito quella bambina ma, fino a oggi, non sono mai riuscita a catturare un suo ritratto. Ha le unghie rosicchiate a zero e indossa una maglietta a righe. Quando stacca le mani dal petto, allunga la destra per toccare la macchina fotografica, sfiorandola appena, come se avesse paura di romperla. All’improvviso una voce d’uomo alle mie spalle grida qualcosa che mi fa girare di scatto e, quando mi volto di nuovo, lei è sparita.
«Stia attenta signora, sono mesi che cerco di prendere quella piccola delinquente. Non si lasci ingannare dal suo bel visino.
Ha derubato i passanti e tutti i negozi della zona» mi avvisa un poliziotto.
«I miei ricordi migliori sono legati alle foto che scatto.»
Nei sei giorni che seguono, non riesco a toglierla dalla mente. La incontro di nuovo, mentre finisco di allacciarmi una scarpa. La vedo entrare dentro un edificio pericolante in un vicolo buono per i gatti randagi e la spazzatura. Sposta una delle assi di legno dell’ingresso e poi la risistema al suo posto una volta passata. Tappo l’obiettivo della Rolleiflex e mi infilo a fatica in quel passaggio. Salgo per cinque rampe buie dei gradini invasi da pezzi d’intonaco, bottiglie di coca, incarti di dolciumi e caramelle. Alla fine, in una stanza umida con una finestra tappata da nylon, vedo la ragazzina dalla faccia sporca accucciata ai piedi di un materasso, mentre rimbocca la coperta a un bambino di forse tre anni. Non si è accorta di avere un’attenta spettatrice.
La cosa dura già da una decina di minuti quando il bambino si sveglia, si stropiccia gli occhi chiusi con i polpastrelli delle mani, alza lo sguardo verso di me e rimane un momento in attesa. Poi, assumendo una posizione più eretta, mi indica, lanciando un breve urlo. Lei sussulta come se gli avessero sparato. Il bambino cerca la sua mano e ci infila dentro la sua. Insieme, senza perdermi di vista, fuggono di corsa.
Antonella Duccini (1963) ha studiato all’Università di Firenze. Ha iniziato scrivendo di storia, ha continuato scrivendo racconti. Le raccolte della Scuola Carver di Livorno, Obtorto collo (Valigie Rosse 2016) e De Sprofundis (Valigie Rosse 2017), contengono due suoi racconti.
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