Un racconto di Stella Poli
Numero di battute: 2476
Grazie per questa casetta
quattro mura cinque finestre
e nel cielo l’aprile
È morto a ventott’anni. Cancro al quarto stadio, quando l’hanno trovato.
Negli ultimi concerti si trucca da pierrot e porta un pigiama che, dice, lo fa arlecchino. Non vuole che nessuno lo guardi più in faccia.
Torna a morire dai suoi. Pare comprensibile, come un commiato decente, sensato. È di un paesino minuscolo attaccato all’Ucraina per strascichi burocratici. Un posto veramente dimenticato da dio. Venendo da Mosca, poi, la Mosca del boom.
È quando arrivo che scopro che ha una moglie. Un figlio. Lei è una ragazzina.
È inverno, farà meno venti. Non ci sono macchine, gli edifici non sono riscaldati. Una ragazzina minuscola che si dà pacche sulle braccia e non chiede perché sono venuta.
Per faxare le diagnosi ai luminari di Mosca. Le cliniche private. Quelle quasi occidentali.
La mia famiglia pranza con tre coltelli. Ho imparato quale e quanto burro vada sotto ogni caviale. Sono io, la Mosca in ascesa.
Ho prodotto i suoi ultimi tre album. Me li ha dedicati, sono per me.
(Per salvarlo. Ho i mezzi per provarci).
«È quando arrivo che scopro che
ha una moglie.
Un figlio.»
L’ho conosciuto che aveva già delle storie. Tutte pubbliche, sfacciate. Chissà cosa vuol dire sposare un uomo e non vederlo più. Perderlo, avendolo. Una cosa vuota e enorme. Come un simulacro, una parvenza. Ma sacra, insieme, agghiacciante di purezza e inutilità.
Di lui che cos’ha avuto, mi chiedo, i suoi diciassette anni che volevano partire? Queste rovine, questi brandelli di uomo che pensano siano questi il tempo e il luogo cui tornare?
Eppure ha ragione lei, misera, provinciale, che mi accompagna a piedi per questo buco di culo di mondo, con delle pantofoline ridicole e un soprabito fatto di niente. Che sogna una pelliccia. A Mosca non si usano più le pellicce, le dico, si va in grandi auto scure, calde, vestiti da sera.
Non dice niente. Non piange, non urla, non chiede dove trovi il coraggio per dirle “vestiti da sera”, troppo veloce. Non mi insulta. Non domanda.
Scialba, sfiorita a ventiquattro anni, di istruzione modesta, ha talmente ragione lei che me ne vado prima che muoia. Lascio il campo, le lascio i diritti, caccio in borsa i fogli dei medici.
Mia nonna era ingegnere nucleare. La prima donna in Russia. Mi ripeteva che ero eccezionale, magnifica, che era inopportuno paragonarsi agli altri. Non mi ha insegnato a sentirmi in colpa, a domandare scusa.
Ogni tanto ascolto la sera tardi le canzoni che lui cantava con lo sguardo un po’ di lato.
Non mi ha insegnato quanto sono piene persino quando paiono vuote, le cose strette.
Stella Poli (1990) è nata a Piacenza, ma prova sempre a non starci. Sta finendo un dottorato in filologia e letteratura contemporanea all’Università di Genova. Collabora con la Balena Bianca, un suo racconto è uscito su inutile e uno uscirà su ’tina.
Un racconto di Francesco Mila
Numero di battute: 2399
Devi trattarmi bene, aveva detto – quando a Roma non avevamo letto e per la prima volta l’avevo trascinata in questa casa, sicché per un futuro assieme esisteva solamente la campagna. Ti devo trattare bene, le avevo risposto – finalmente, dopo aver fatto l’amore, dopo aver rovesciato un’altra coperta di lana grezza ed esserci intrecciati nudi per dimenticarci del freddo.
Ricordo che più tardi, baciandoci, si era messa a piangere. Allora le avevo preso le guance, e ai terminali delle lacrime avevo piazzato dei baci. Ricordo di averle chiesto Perché piangi? – no – Perché non sei felice? E adesso non so, se avesse più paura che rispondendomi le avrei o che non le avrei creduto. Perché voglio morire, aveva detto – mentre quel poco d’ombretto sfumava sugli zigomi aztechi in un viola acquerello.
La mattina lavoravo all’orto mentre lei si occupava dei gatti – venivano a miagolarle sul tetto del capanno, lei metteva in un piatto gli avanzi e ad uno ad uno li portava in paese a sterilizzare; dopo avevano il pelo rasato e tre punti, e per paura che non cicatrizzassero la sera se li tirava dentro.
«l’animale graffiava e aveva l’aria
di soffocare.»
Una volta, chino sull’orto, avevo sentito uno dei gatti lamentarsi, ed entrando avevo trovato il cotto disseminato di escrementi. Se lo stringeva al petto, sepolta da tre strati di lana grezza, e l’animale graffiava e aveva l’aria di soffocare. Perché fai così? le avevo chiesto. Perché voglio morire – e io mi ero arrabbiato per gli escrementi, a forza le avevo strappato il gatto, tutto nero e forse nemmeno svezzato, dopodiché lo avevo scaraventato oltre la siepe e il gatto non aveva miagolato più.
Un pomeriggio – con l’orto avevo finito presto – l’avevo lasciata leggere ed ero andato in paese a caricare la legna. Vivevamo in campagna da quattro mesi, alle cinque faceva già buio e si vedevano le stelle; la pasticceria era ancora aperta, e pensai, per scusarmi, di comprarle una di quelle paste che a Roma trovavamo da Romoli e che in campagna non avevamo modo di mangiare più. Ricordo di avere pensato ai nomi di stelle che credevo di avere dimenticato – Sirio, Antares, Rigel –, mentre le paste mi cadevano sulla veranda e oltre i doppi vetri brillavano di riflessi lunari i corpicini dei gatti nel punto in cui il pelo cominciava a ricrescere. Dopodiché ricordo un odore forte, avvolgente di gas, e sugli zigomi aztechi l’ombretto asciutto.
Francesco Mila (1996) è nato a Roma e si divide fra la capitale e il lago di Vico. Studia Lettere moderne presso l’Università La Sapienza e collabora con la rivista YAWP, per cui pubblica racconti, interviste e altro. Possiede un cane, ma segretamente preferisce i gatti. Sogna di vincere un giorno il prestigioso Burroughs Award.
Claudio Lagomarsini (1984) è ricercatore di Filologia romanza all’Università di Siena. Oltre a svariate pubblicazioni accademiche, ha tradotto per i «Millenni» Einaudi la Storia del Graal. Suoi articoli di approfondimento e opinione sono usciti per «Il Post», «minima&moralia», «Le parole e le cose», «The Towner», «La Balena Bianca».
Come narratore ha pubblicato racconti per «Nuovi Argomenti», «Colla», «inutile», «Retabloid», per le raccolte Il fiume in un racconto (Edizioni Clichy) e Radio 1 Plot Machine (Mondadori-Rai Eri), vincendo il contest «Ogni desiderio» organizzato dal Premio Calvino nel 2019.
Il suo primo romanzo è Ai sopravvissuti spareremo ancora (Fazi 2020).
Irene Chias è nata a Erice (TP). I suoi racconti sono apparsi su «Nuovi Argomenti», su «Granta Italia», sulle pagine siciliane di «la Repubblica», su «Il primo amore» e in diverse antologie.
Ha pubblicato i romanzi: Sono ateo e ti amo (Elliot 2010, Laurana 2022); Esercizi di sevizia e seduzione (Mondadori 2013), vincitore del Premio Mondello Opera Italiana e del Premio Mondello Giovani; Non cercare l’uomo capra (Laurana 2016); Fiore d'agave, fiore di scimmia (Laurana 2020).
Un racconto di Antonio Vangone
Numero di battute: 2462
Fu deciso in gran fretta. Vivevamo già da anni in enormi città senza nome, rampe di partenza tirate su da un mese all’altro, nessun puntino sulle mappe, solo numeri. 44. 56. Ogni tre o quattro mesi mandavo una lettera alla mia famiglia, saluti e baci e un nuovo numero a cui spedire la posta. 71. Solo quello, poche parole e un numero, ogni comunicazione con l’esterno era sottoposta a controlli rigidissimi, non ci era permesso rivelare nulla sulla natura del nostro operato.
Ma a parte questi piccoli disagi mi piaceva quella vita, la sensazione di essere un ingranaggio ben oliato in un sistema perfettamente funzionale, prima i geologi, gli architetti, gli astrofisici, poi gli operai e i tecnici come me, quelli che le manovelle dovevano girarle. A lavoro concluso ad alcuni di noi, in genere i più anziani, veniva proposto di stabilirsi lì con i soldati e il personale di supporto e riunirsi ai loro cari. A me non è mai successo. Non c’è stato il tempo.
87, l’ultimo numero. Il piano di evacuazione fu reso pubblico non appena le navi furono cariche, le ultime bombole approntate. Noi lo sapevamo da tempo che il pianeta era perduto, che non poteva più sostenerci tutti. Noi, i minuscoli membri del misero due per cento che sarebbe rimasto a terra, salutammo con mestizia la gente che piangeva e ci chiamava eroi.
«Noi lo sapevamo da tempo
che il pianeta
era perduto.»
Erano anni che immaginavamo lo sciame di aerei provenienti da ogni parte del mondo e le facce atterrite di quelli che la verità la sapevano da tre giorni, ci era stato ordinato di sorridere e ci provammo, ma anche a noi veniva da piangere a guardarli, a pensare che non sapevano proprio niente e le valvole del gas soporifero presto si sarebbero aperte con un soffio cattivo e un messaggio rassicurante. C’ero, quando fu registrato, sintetizzato da un computer con voce di donna in tutte le lingue: sarebbe stato sussurrato loro di riposare bene, perché il viaggio era lungo e la partenza dura e invece non si sarebbero più svegliati e le navi interstellari avrebbero vagato in eterno nello spazio, cariche di cadaveri tristi e speranzosi.
Molte in realtà non lasciarono mai l’atmosfera, il tempo era poco e i costi alti, si tagliava dove si poteva. Così prima di tornare alle nostre vite, alle città dei nostri ricordi ora vuote, dovemmo seppellire i morti, decine per ciascuno di noi, miliardi di corpi carbonizzati tra l’acciaio e il tungsteno, raccolti con cura e fasciati in bare bianche biodegradabili. Tra milioni di anni, petrolio.
Antonio Vangone (1995) vive alle pendici del Vesuvio e spera per il meglio. Studia per diventare odontoiatra, legge e scrive quanto può. Finalista al Premio Raduga 2017,
suoi racconti sono apparsi su Firmamento, Ammatula e altre riviste letterarie.
Un racconto di Chiara Araldi
Numero di battute: 2500
Nel centro di Mantova c’è un piccolo bar, con i tavolini di ferro che come un ingranaggio spanato si spampanano sui ciottoli della piazza Broletto. Questo bar – gestito da sempre dalla famiglia Lasagna – ha ospitato tante storie, alcune familiari, altre comunitarie, altre ancora di stranieri che a volte ci si son trovati come a casa. Quasi nessuna, però, è mia da raccontare.
Quello che mi spetta dire è che il vecchio Lasagna Attilio di mestiere faceva il pugile, quando ancora c’era il duce, con risultati eccellenti. Di questa attività restano: i ricordi negli occhi di chi è ancora vivo, un attestato rilasciato in occasione della vittoria del titolo di campione nazionale e ovviamente il famoso drink, perfetto in ogni occasione nel suo essere perfettamente imbevibile.
Ma forse è che a me non piace il vermouth.
In ogni caso, come memoriale del compianto Lasagna Attilio, le autorità hanno installato sui vecchi ciottoli della piazza antistante il bar un ring di misura regolamentare, e tutte le persone si son coagulate a riempire gli spazi per guardare giovani uomini ferirsi ripetutamente e saltellare, respirando forte.
«Io non capisco la boxe, ma dicono che ci sia della poesia dentro.»
Io non capisco la boxe, ma dicono che ci sia della poesia dentro, così sono rimasta appoggiata alla ringhiera e pur facendo fatica ho continuato a guardare, come i bambini davanti ai film di paura, incasellata, mentre i sostenitori di Piero, il contendente locale, gli urlavano dagli angoli di portare il pisano alle corde, non farlo legare e molte altre cose di grande importanza che tuttavia non posso ricordare, non avendone colto pienamente il senso. Tra una ripresa e l’altra camminava sul tappeto una ragazza in costume e tacchi veramente molto alti, miss Melissa o Melania, probabilmente miss presso se stessa. In ogni caso bella, s’è detto.
Alla fine Piero ha perso ai punti, ma se n’è andato comunque tra gli applausi, anche perché il pisano era decisamente più tonico, e aveva una spalla tatuata con un tribale, quindi credo che a lui e a tutti gli altri sia anche andata bene così.
Ho dunque archiviato la boxe tra le cose che non posso approfondire, e ho pensato che ci sono tante altre cose che non posso approfondire, perché mi tribolano il cuore o mi rifuggono, tra le quali ovviamente ci sei tu, l’attività comunicazionale di Matteo Renzi e il procedimento di distillazione del Pugile.
Ma in fondo, quello che non ha senso per me è poesia per qualcuno. Ed è sempre opportuno affacciarsi alla vita insieme a chi trova poesia in ciò che per noi non ce l’ha.
Chiara Araldi (1983) vive nella piccola città di Mantova, dove è nata il giorno del suo onomastico. Dice sempre di volersene andare, ma non si sa bene dove. È un poeta, un genitore, un avvocato. Ha pubblicato la raccolta di poesie P.I.N.D. Poetry is not dead (diversamente dal punk. A quello occorre dire addio) (La Gru, 2018).
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