Un racconto di Matteo Giordano
Numero di battute: 2500
Non ho mai avuto un cane, né da piccolo né tantomeno ora, forse perché è sempre rimasto indelebile in me il ricordo di quello di zio Ettore.
Aveva un pastore tedesco, anzi, lui lo spacciava per cane di razza anche se in realtà si trattava di meticcio sfigato, pauroso e con scatti imprevedibili, come quando mi azzannò il polpaccio fino a farmi sanguinare.
Era certamente il cane più rincoglionito d’Europa, ma questo non poteva giustificare il comportamento di zio Ettore che, stufo di averlo tra i piedi già dopo poche settimane, aveva deciso di segregarlo nel capanno degli attrezzi dietro casa, incatenato nella penombra, con un pasto al giorno e mezz’ora d’aria per pisciare.
Julius si chiamava. Zio Ettore lo aveva chiamato come Evola, e non mancava di sottolinearlo a ogni occasione utile.
Più del cane, con quella sua aria malaticcia, aveva attirato la mia attenzione la scelta del nome. Avevo tredici anni e in quel periodo sceglievo i gruppi da ascoltare in base a come si chiamavano: Green Day, Bad Religion, Alice in Chains; anche Julius Evola suonava bene come nome di una rock band.
«Zio Ettore lo aveva chiamato come Evola.»
Per tutta l’estate tentai di leggere Cavalcare la tigre in una edizione intonsa che zio Ettore aveva in casa e che doveva avere soltanto sfogliato come quasi tutti i volumi che possedeva.
Non capii molto di quel testo, anche perché ero passato a Evola direttamente da Salgari, ma come per i Pearl Jam che non ho mai compreso del tutto nonostante abbia comprato i loro album per anni salvo poi non ascoltarli mai, tentai di farmi piacere anche Evola. Troppo per un adolescente degli anni Novanta.
Feci in tempo, una notte senza luna, ad andare a liberare Julius: in fondo un cane con quel nome non si meritava una vita così. Lo feci uscire trascinandolo al guinzaglio fino all’argine del fiume: da lì in poi avrebbe dovuto cavarsela da solo.
Scoprii qualche giorno dopo che Julius era tornato subito a casa; mio zio trovandolo che dormiva con la porta del capanno aperta aveva esultato pensando che avesse messo in fuga qualche ladruncolo. Lo aveva addirittura portato a passeggiare con ritrovata fierezza. Julius però aveva pensato bene di pisciare dal salumiere, giocandosi subito la libertà provvisoria.
Zio Ettore lo richiuse di nuovo nel capanno, smettendo pure di chiamarlo Julius e passando a un dispregiativo Gianfranco.
Poco dopo conobbi Michi e considerai concluso il Kali Yuga.
I cani continuarono a non interessarmi, mentre scoprii in fretta che le ragazze mi divertivano molto più degli spiritualisti.
Matteo Giordano (1981) è nato a Sondrio, dove vive attualmente dopo aver passato quasi dieci anni a Londra. Ha pubblicato il romanzo Novantaquattro (Nativi Digitali Edizioni 2016) e ne sta per pubblicare un secondo. Suoi racconti sono usciti per la rivista Verde e per il collettivo di scrittura Spazinclusi.
Un racconto di Lyuba Centrone
Numero di battute: 2471
Ci sono un uomo e una donna al centro di un piccolo ufficio. Tra loro c’è una scrivania di mogano. Ci sono due fotocopiatrici e c’è una tessera sanitaria sulla piastra dello scanner. L’uomo è seduto dalla parte di coloro che sono ricevuti, la donna dalla parte di coloro che ricevono e sulla testa di lei c’è un certificato di laurea in psicologia. Ci sono due agenti che aspettano fuori dalla porta. Nel corridoio, poco distante dai due agenti, c’è un distributore di bevande fuori servizio. Il dispenser per l’acqua, invece, funziona.
C’è un sole rovente fuori dalla finestra che si apre nel cortile interno del palazzo. All’esterno dell’edificio dalla facciata scorticata, in una via troppo stretta, c’è l’interprete in ritardo che sta affannosamente cercando di parcheggiare. C’è un grande portone da aprire, ci sono tre rampe di scale da percorrere, c’è il corridoio da attraversare, gli agenti da salutare, l’ufficio nel quale entrare e chiedere scusa.
Intanto, al centro del piccolo ufficio ci sono l’uomo e la donna. Tra loro c’è una scrivania di mogano sulla quale l’uomo ha posato una busta di plastica trasparente. Dentro c’è una copia smunta del Corano. Il volto di lui è imbarazzato. Lei è emozionata. A pagina 100 ci sono, nell’ordine: una foto di loro due abbracciati e una lettera scritta a mano. La lettera ha una grafia imprecisa, ci sono almeno sei vistose cancellature. Lei la legge ad alta voce. Sorride.
«Ci sono due agenti che aspettano fuori dalla porta.»
Poi il cellulare dell’uomo squilla. C’è sua sorella che vorrebbe fare una videochiamata, ma adesso non si può. C’è una donna che legge una lettera d’amore al centro di un piccolo ufficio. Lui le sta di fronte. C’è bisogno di ascoltarla. Ci sono due agenti che aspettano fuori dalla porta e non devono sapere. La voce di lei percorre le parole a singhiozzi. Il tempo scorre lentamente e quasi non c’è più. Poco prima dell’epilogo la donna si ferma. Alla fine della lettera c’è una domanda alla quale non può rispondere di sì: lei è già sposata e c’è un bambino di tre anni che le assomiglia parecchio. Le speranze si frantumano. Le fotocopie sono pronte.
All’improvviso la porta si apre. La donna fa in tempo a rimettere la lettera e la foto nel Corano. C’è un gran caldo che si insinua dappertutto. Il meteo parla di una tempesta africana. Ci sono un uomo e una donna al centro di un piccolo ufficio. Nel loro petto ci sono due cuori infranti che si ricuciono mischiandosi in fretta mentre l’interprete entra e saluta la donna chiedendole scusa.
Lyuba Centrone (1991) è nata a Milano ma ha vissuto gran parte della sua vita in Puglia. È laureata in Lettere moderne, ha recitato in teatro, nel 2015 ha fondato la testata giornalistica free press La Primavera Gioia. Insegna italiano ai richiedenti asilo. Un suo racconto è apparso sulla rivista Colla.
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Francesco Mila (1996) è nato a Roma e vive al lago di Vico. Suoi racconti sono apparsi sulle riviste «Colla», «Verde» e «Yawp».
Il suo romanzo d’esordio è Piperita (Fandango, 2021), vincitore del Premio Procida - Isola d'Arturo - Elsa Morante 2021.
Il suo nuovo romanzo uscirà per Fandango nel corso del 2024.
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Siti internet, brochure, campagne stampa, affissioni, spot radiofonici: qualsiasi pubblicità nasce dalle giuste parole. E ogni testo ha bisogno di conoscenze specifiche e differenziate. Copywriting significa proprio questo: selezionare le parole più adatte per il messaggio che vuoi trasmettere.
Come
Lavoriamo a stretto contatto con il cliente, seguendo le sue indicazioni e confrontandoci con il suo team di creativi. Ci occupiamo di:
Brand naming: immaginiamo il nome giusto per un nuovo prodotto, una nuova società, una nuova attività commerciale.
Scrittura seo oriented: scriviamo testi web ottimizzati per i motori di ricerca e revisioniamo quelli già esistenti.
Blogging: creiamo i contenuti più adatti per il tuo blog, con aggiornamenti periodici e puntuali.
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Un racconto di Gioacchino Lonobile
Numero di battute: 2467
Venni a conoscenza dell’esistenza del labirinto da un antiquario che aveva il suo negozio nella via che i turchi chiamavano Al-kasar, ed era solito vendermi vecchi libri usati spacciandoli per antichi.
La struttura al centro di una valle aveva una grande porta ad arco, le mura alte più di un uomo avevano lo stesso colore della terracotta, il vento e la pioggia le avevano modellate. Non sembrava essere una costruzione umana, come se non avesse origine, ma fosse stata lì da sempre, dall’inizio dei tempi, come i sassi e le montagne che la circondavano. Il labirinto faceva parte del luogo che l’ospitava e con esso condivideva lo stesso spirito.
Su un muro lessi i nomi che chi mi aveva preceduto aveva inciso per testimoniare il proprio passaggio, quando varcai la grande porta iniziai il percorso inverso a quello che aveva condotto l’uomo al mondo. Camminai per un tempo che avrei quantificato in giorni, anche se la luce non abbandonò mai il mio viaggio. Non provai né fame né sete, non mi sentivo stanco, nonostante non avessi mai dormito.
«La morte arriva nel momento
in cui si pensa
di essersi smarriti.»
Percorrendo quegli anfratti, quelle pieghe e quelle spirali che copiavano le forme delle onde, le pensai senza fine, imperiture, perpetue, pensai a Uruk, un uomo normale che non era in grado di morire; ricordai Gilgamesh, suo padre e tutti quelli che avevano visitato il regno dei morti e la leggenda aveva consacrato come immortali. Qual era la concezione del tempo allora, quando tali miti nacquero? Se la vita durava all’incirca trent’anni, vivere fino a ottant’anni o a novanta, tre volte il tempo di una esistenza media, si poteva già considerare immortalità?
Arrivai al centro del labirinto, nella parte più intima delle sue viscere che era anche quella situata più in alto. Fu in quel momento che mi tornarono in mente le parole dell’antiquario: «Non bisogna mai darsi per vinti, mai cedere allo sconforto e perdere la speranza. La morte arriva nel momento in cui si pensa di essersi smarriti. Si giunge all’uscita camminando abbastanza a lungo». Anche un solo dubbio avrebbe decretato la mia disfatta e quel luogo sarebbe diventato la mia tomba.
Superai la durata di più giorni di cammino e il cielo s’imbrunì appena. La salita si mutò in lieve discesa, la curva in rettilineo. Passò ancora diverso tempo prima che si spegnesse la luce e facesse del tutto notte. Dormii un sonno senza sogni, senza riposo né ristoro, quando mi svegliai, ripresi il viaggio in quella notte che aspettò l’alba per migliaia di passi.
Gioacchino Lonobile (1979) nasce a Toulon ed è dottore di ricerca in Neuroscienze. Ideatore del festival letterario FAIR – Farm in reading – presso Farm Cultural Park. Ha pubblicato Espadrillas Gialle per 18:30 edizioni (2008) e altri racconti per le riviste Atti Impuri, Prospektiva, Nazione Indiana, TerraNullius e Nuova Prosa. I giorni della vampa (il Palindromo 2016) è il suo primo romanzo.
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