Un racconto di Gianfranco Martana
Numero di battute: 2468
Ogni giorno Michela entrava nella settecentesca chiesa della Madonna del Grano e saliva in cima a un trabattello per restaurare l’affresco che ricopriva parte del soffitto. Era finita in quel paesone in pieno agosto, e nella pensioncina dove soggiornava si crepava di caldo, così aveva preso l’abitudine di andare al lavoro molto presto per godersi il fresco di quelle antiche pietre.
Un mattino, verso le otto, era già sul ponteggio quando sentì dei passi, poi la voce concitata di un uomo che in dialetto diceva: «Madonna mia, tu me la devi levare di torno!». Parlava alla statua che in quella zona godeva di una speciale devozione, e lo faceva senza freni, convinto di essere solo. «Hai capito? Mi sta rovinando la vita! Non ne posso più, fai qualcosa!»
Michela pensò che solo un cafone poteva rivolgersi in quel modo a una signora, tanto più che le stava chiedendo un favore, ma preferì non immischiarsi e restò ferma e zitta fino a quando l’uomo non fu uscito.
«Fuori
dalla mia chiesa!»
Il giorno dopo l’uomo tornò a ripetere la sua sfuriata, e ancora una volta Michela ascoltò in silenzio le sue richieste blasfeme, ma al terzo giorno non ne poté più: badando a non fare rumore arrotolò un foglio di cartoncino a mo’ di megafono, lo accostò alla bocca puntandolo verso il basso, e con voce cupa e severa urlò: «Delinquente! Fuori dalla mia chiesa!». Sentì un’invocazione strozzata, poi una specie di rantolo, poi dei passi precipitosi verso l’uscita.
L’uomo non tornò più, e già Michela si vantava di quell’impresa al telefono con le amiche, ma dopo qualche giorno vide avvicinarsi alla statua una donnina anziana, che posando una mano sull’orlo della veste di legno verniciato, con voce accorata disse: «Madonnina bella, perché non vuoi fare la grazia a mio figlio? Non è un delinquente, è un bravo ragazzo».
Michela non poteva credere che la madre di quell’uomo fosse venuta a sfidare l’ira divina, ma poi capì che quella voce dall’alto era stata la conferma che la Madonna era lì, agiva, decideva. Si trattava solo di farle cambiare idea, e fra mamme ci s’intende meglio, magari usando parole più cortesi, argomenti più convincenti, attitudine al compromesso. Per carità, era giusto scusarsi se suo figlio le aveva mancato di rispetto, ma bisogna anche capire che il pover’uomo non era più in sé da quando quella disgraziata si era messa a tormentarlo. E non si può tacere che perfino Gesù aveva rovesciato i banchi nel Tempio, quella volta che gli fecero andare il sangue al cervello.
Gianfranco Martana è nato e vissuto a Salerno prima di trasferirsi a Brighton e poi a Valencia, dove insegna italiano e inglese. Suoi racconti sono stati pubblicati su numerose riviste, tra cui Toilet, Squadernauti, Settepagine. Ha pubblicato in ebook un romanzo, Un’opera di bene (Ellera, 2015) e ne sta ultimando un altro, Mammaliturchi!, dalla sua omonima sceneggiatura finalista al Premio Solinas 2004.
Un racconto di Jacopo Milani
Numero di battute: 2433
Quando avevo otto anni mio padre mi portò a pescare. Non avevo mai tenuto in mano una canna da pesca prima di quel giorno, né avevo idea di quali pesci vivessero nel lago poco lontano da casa nostra. I miei genitori, mi disse mia madre qualche anno più tardi, stavano attraversando una crisi. Ai tempi sapevo soltanto che lui se ne sarebbe andato a lavorare in Lombardia per qualche mese.
Mi svegliò che era ancora buio, dicendomi che saremmo andati a pesca. Facemmo colazione tutti insieme. Non succedeva spesso, lui lavorava tutta la settimana e quando era a casa rimaneva a letto fino a tardi. Mangiammo fette biscottate con burro e marmellata, poi mi disse di prepararmi e si alzò. Rimanemmo soli, io e mia madre, a guardarci. Non parlava.
Salimmo in macchina poco dopo. Mio padre aveva un fuoristrada Suzuki. Appeso allo specchietto, penzolava sempre un profumatore a forma d’albero che emanava una fragranza stomachevole di pino silvestre. Ancora oggi associo quell’odore a lui e alla sua Suzuki; gli rimaneva attaccato ai vestiti, alla pelle, lo seguiva ovunque.
Il percorso era breve, e in una ventina di minuti arrivammo al lago del Turano. La Suzuki imboccò il sentiero sterrato e da lì proseguimmo a piedi. Ci sistemammo su una parte di prato rialzata. Mio padre piazzò le sedie pieghevoli e mi porse una canna da pesca. Estrasse un thermos rosso dalla borsa che portava in spalla.
«La lingua dei bambini non era fatta per il caffè.»
«Vuoi un po’ di caffè?» disse.
«Mamma non vuole.»
Svitò il tappo e lo riempì come una tazzina. Me lo porse.
«Da oggi puoi.»
Bevvi. Era la prima volta che assaggiavo il caffè. Era amaro, forte. Mia madre diceva sempre che la lingua dei bambini non era fatta per il caffè; e aveva ragione.
Mio padre mi mostrò come gettare l’amo in acqua, ma la canna era troppo pesante.
«Devi imparare» disse.
Provai: l’amo passò vicino al suo volto e finì in acqua.
«Scusa» dissi.
«Tranquillo» rispose.
«E tu?» chiesi.
«Spaventeremo i pesci con due ami, meglio uno solo» disse.
Rimasi per qualche minuto a fissare il piccolo galleggiante rosso immerso nell’acqua. Poi sentii tirare la lenza.
«Papà!» gridai.
«Non spaventarlo» disse. «Tira, poi riavvolgi il mulinello». E io provai, ma il pesce era pesante. Vidi la lenza annegare nell’acqua, e terminare in una macchia scura e rilucente.
«Tira!» ripeté lui. M’impegnai, ma la lenza si spezzò e caddi all’indietro. Guardai mio padre, aveva gli occhi tristi.
«Imparerai» disse.
Jacopo Milani (1996) è nato a Roma e vive a Torino. Frequenta la Scuola Holden e da un paio d’anni gestisce il lit-blog Leggo.libri. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati sulla rivista Narrandom.
Giovanna Taverni nasce a Salerno nel 1983.
È cofondatrice e direttrice editoriale del magazine
di cultura e musica «L’indiependente».
Un racconto di Camilla Caraffini
Numero di battute: 2477
Il riverbero del sole sul mare gli fece socchiudere gli occhi. Che meraviglia il mare d’inverno, pensò, ma non era un’idea originale, l’aveva pensato molte volte, e adesso gli sembrava che le lame di luce che perforavano la coltre di nubi e si abbattevano spietate su quella tavola di acciaio rappresentassero l’espressione più pura di ciò che gli era appena balenato in mente.
Una nave portacontainer pareva in equilibrio sul filo dell’orizzonte. Che profumo, quell’odore di erbe aromatiche e salsedine, che si inerpicava per le sue narici!
La passeggiata sul litorale era quasi terminata, una cittadina di quelle che si spengono in un muto letargo invernale per poi risvegliarsi con le ondate vocianti di turisti affamati di sole estivo si delineò dopo l’ultima curva.
Tutto taceva, perfino i gabbiani, che fino a poco prima cavalcavano la brezza schiamazzando e contendendosi alcuni resti di picnic sbrigativi interrotti da temporali improvvisi, si erano momentaneamente zittiti. Alcuni di loro zampettavano sulla spiaggia grigia, tra ciottoli rotondeggianti, pezzi di legno trasformati dall’acqua e dal sale e rifiuti di ogni genere.
«Te lo ricordi quando cercavamo i vetrini?»
La voce di Giorgia lo fece voltare di scatto, si era dimenticato di non essere solo. La solitudine per lui era un’abitudine rodata, confortevole.
«Tutto taceva, perfino i gabbiani.»
«Certo che mi ricordo» rispose poi con un tono più grave di quanto volesse, ma la verità era che non se lo ricordava per niente. Sapeva però che una risposta diversa le avrebbe dato dispiacere.
«Stai mentendo» gli sorrise lei, poi si accese una sigaretta e gli porse il pacchetto. Diana blu. Ne prese una.
Giorgia aveva i suoi stessi occhi, grigi e un po’ tristi, ma il suo viso paffuto le faceva avere un’aria gioviale e la sua bocca sempre incline al sorriso metteva gli altri a loro agio.
«No… È che mi viene difficile pensare alla Terra, a quello che abbiamo perso…»
Ciò che era realmente difficile, pensava, era cercare di farsi una nuova vita quando tutti intorno a lui si aggrappavano ai ricordi come naufraghi in balia di una tempesta. E non capivano, perfino sua sorella non capiva, che per lasciarsi qualcosa alle spalle bisognava infliggersi una violenza indicibile, era necessario raschiare la propria coscienza con il coltello.
«Non lo so se abbiamo fatto bene, Roman» disse lei guardando verso il cielo, un’altra aeronave stava per atterrare. «A partire, dico; volevo andarmene, ma mai come adesso sono stata aggrappata alle mie radici.»
Camilla Caraffini (1987) nasce a Genova. Da allora ha abitato in molti luoghi e, dal giugno del 2018, vive in camper in compagnia umana, canina e avicola. Ha pubblicato un racconto sulla rivista Storie bizzarre. Il suo blog è infondoalrettilineo.wordpress.com.
Un racconto di Federico Zagni
Numero di battute: 2185
Dalla strada sembra assopito, mezzo floscio sul tavolino opaco di intemperie. A dire il vero, pare svenuto. Poi si riscuote. L’unico testimone, appostato alla finestra di fronte, racconterà di averlo osservato accendere il sigaro e insieme piazzare una sigaretta accesa nel piatto della cena avanzata. A Francesco Testa piace sentire il fumo delle Gauloises, mentre abbocca il suo mezzo toscano. Il testimone dirà anche di aver visto l’anziano scomparire al di là della portafinestra del balcone, per poi uscire pochi minuti dopo con un arco nudo tra le mani.
Testa è stato due volte campione italiano di tiro con l’arco, e ha partecipato addirittura alle Olimpiadi di Mosca, nell’80, in piena Guerra fredda. Quell’anno con lui c’era già Valeria, ancora coi capelli lunghi.
Il testimone dichiarerà che Testa “barcollava” mentre si appoggiava alla ringhiera, come se avesse bevuto. E che dalla sua casa usciva quella musica ad alto volume che si sentiva in tutta la strada. Questa ricostruzione non combacerà con l’asserzione di Testa, secondo il quale era necessario aspettare il crepuscolo, perché ci doveva essere quasi buio. «Non troppa luce per non farsi notare, ma abbastanza da vederla bene.»
Poi Testa inizia a tendere la corda dell’arco. È a questo punto che il testimone allerta le forze dell’ordine, anche se con esitazione. Pare che Testa miri al piccolo spiazzo vuoto e incolto a fianco del palazzo, vero, ma un’arma è sempre un’arma, anche se sportiva.
«Un’arma
è sempre un’arma, anche se sportiva.»
Dirà Testa che il pezzo che andava sullo stereo era “una delle loro canzoni”. L’appuntato in trascrizione storpierà il nome, facendolo diventare Dont Fill the Riper, nonostante Testa lo ripeta più e più volte.
Infine in un delirio affabulatorio ammetterà anche, di sua iniziativa, che non sapeva cosa gli fosse preso, ma che quelle due anatre stavano sempre a starnazzare, e che Valeria aveva sempre voluto assaggiare l’anatra all’arancia, ma per un motivo o per l’altro non era mai capitato. Glielo aveva detto una volta in ospedale, sorridendo di finto rimpianto, ma poi lui non aveva fatto in tempo a portargliela nemmeno lì. Dichiarerà che prima che la freccia colpisse l’uccello, era già dispiaciuto di averla tirata.
Mentre la polizia lo interroga, quello che non era un’anatra ma un germano reale si rialza in un volo sbilenco, e se ne va col blu dei lampeggianti che gli accendono le ali, seguito a stretto giro dalla compagna marrone. A Francesco Testa scappa un sorriso di sollievo.
Federico Zagni è nato in un piccolo paese emiliano nei primi anni Ottanta e vive a Modena. Ha pubblicato alcuni racconti per gli editori Fernandel e Giulio Perrone, altri sono apparsi sulle riviste ReaderForBlind, L’Irrequieto, Verde. Un suo romanzo è stato finalista al premio letterario ilmioesordio.
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