Pastrengo Agenzia Letteraria

Monthly Archives: Novembre 2019


racconto stefano morleschi

l’ attesa

Un racconto di Stefano Morleschi
Numero di battute: 2048

Bazzicando a vela il Mediterraneo ero capitato su un’isola dove la gente, forse per sfuggire il sole martellante, trascorre le giornate dentro il proprio garage, sovente trasformato in vera abitazione, o magari bottega. In ogni caso una sorta di osservatorio, affacciato sul piccolo mondo costituito da uno scorcio di strada. Nel complesso una popolazione chiusa, diffidente.

Soltanto con due anziani, anche loro intenti a sbirciare l’esterno seduti nell’ombra del garage, ero riuscito a scambiare qualche parola. Il più vicino alla strada era un uomo corpulento, sulla settantina, l’altro, accovacciato sopra uno sgabello in penombra sul fondo del box, sembrava più asciutto, forse un po’ meno attempato. Una specie di calzino nero gli rivestiva quel che restava di una delle mani.

Il loro garage, piccolo, quasi interamente occupato da una Vauxhall scarlatta – probabile residuo della dominazione britannica – per metà ricoperta da un telo, pareva l’unico destinato alla sua vera funzione.

«Ma voi qui
che cosa fate?»

Quello che colpiva lì dentro, però, erano le pareti, tappezzate a perdita d’occhio di fotografie di volti, perlopiù in bianco e nero, formato tessera. Alcune ricordavano certi annunci funebri.

«Chi sono?»
Mi rispose l’uomo corpulento, con uno sguardo ilare: «Sono tutti morti!».
Anche il monco, annuì divertito.
«Tutta gente dell’isola? Vostri parenti?»
L’omone annuì, poi scosse la testa: «Non solo…» allargando le braccia in un gesto che pareva includere una generosa porzione dell’umanità defunta.

A campione, mi indicò alcuni di quei volti. Si andava dai semplici cittadini a Adolf Hitler, passando per Stalin, Churchill o la Thatcher. Fra i trapassati, oltre a politici e isolani, riconobbi un pilota di Formula 1, attori, e qualche celebre cantante del passato.

«Ma voi qui che cosa fate?»
«Aspettiamo.»
«Aspettate cosa?»
Giù una risata.
Accennarono alla parete, appuntando gli sguardi che fino a un attimo prima, nella penombra del garage, circolavano a vuoto, sull’unico spazio rimasto libero sui muri.
E giù un’altra risata.
Lì, in effetti, c’era posto per due.

stefano morleschi foto

Stefano Morleschi (1954) è nato a Genova. Ha pubblicato la raccolta Rue de l’Aiguillerie (Moby Dick, 2013), suoi racconti compaiono nell’antologia Mangia, Scrivi, Eataly (Eataly, 2015), curata dalla scuola Holden, e in Rivista Letteraria n.4-5. È autore anche di aforismi pubblicati con gli editori Josef Weiss e Pulcinoelefante.

alberto lucchini racconto

il sogno di nullità

Un racconto di Alberto Lucchini
Numero di battute: 2345

Il pazzo del paese se ne stava al bar come tutti i giorni. Fuori il tempo non prometteva sole, ma lui era seduto sulla sua sedia e di fronte teneva un bicchiere di bianco. Se ne stava a osservare la poca vita attorno a lui, e nient’altro. Lo si vedeva sempre in giro e chiedeva di accendere. Si chiamava Nullità. Quando mi capitava di passare per il paese era una presenza fissa, con la sua faccia persa e incisa dagli anni.

Un giorno, era l’inizio di aprile se non sbaglio, mi fermai con il mio furgone di fronte a un negozio. Nullità mi passò vicino e mi chiese se avessi da accendere. Non parlava, sussurrava, come se la sua presenza al mondo andasse giustificata.

«Ce ne andiamo
a spasso.»

«Ce ne andiamo a spasso» gli dissi. Nullità non disse nulla e salì.

Partimmo e arrivammo a Lugano. Parcheggiai vicino al lago, con le montagne in lontananza a fare da cornice. Nullità osservava tutto come una bestia impaurita e chiedeva di accendere. Quando ripresi il furgone ci dirigemmo verso Nord. A Düsseldorf ci mettemmo lungo il Reno a bere birra sotto un sole tiepido e Nullità era affascinato dalle grosse navi merci che battevano il fiume.

Il giorno dopo virammo verso Amsterdam. A Nullità piacevano molto i ponti sull’Amstel e la gente sfrecciare in bicicletta. Vidi che era meno spaventato e annusava l’aria con curiosità. La sera in piazza Dam ci fermammo in un ristornate argentino. Nullità si fece portare due porzioni di patate arrosto e una bistecca. Digerito il tutto riprendemmo il furgone e cambiammo rotta, verso Sud. Tornammo sui nostri passi e arrivammo a Praga e poi verso l’infinita costa francese e arrivammo a Barcellona. Lasciammo l’auto sul lungo mare e ci buttammo sulle Ramblas. Ci fermammo a mangiare in una trattoria molto piccola. Ordinammo due enormi porzioni di paella, una con il nero di seppia. Le mangiammo irrorandole con il limone e Nullità per la prima volta sorrise alla vita.

La mattina dopo Nullità cominciava a essere stanco, lo notai fissando quella sua faccia estranea al presente. Guidai ininterrottamente e senza pause e arrivammo al paese mentre le campane della chiesa suonavano per la messa. Lasciai Nullità di fronte al solito bar. Scese dal furgone e si girò verso di me chiedendomi di accendere. Come al solito gli allungai la mano con l’accendino e lui dopo aver aspirato il fumo della sigaretta mi disse soltanto:
«Grazie».

Alberto Lucchini bio

Alberto Lucchini è nato a Pavia nel 1983. Dopo la laurea ha deciso di fare l’impiegato come hobby, spaziando dal politetrafluoroetilene microporoso ai bagni mobili fino alla microincapsulazione. Ha pubblicato un racconto sulla rivista Grado zero.

racconto donata cucchi

ho perso il cane

Un racconto di Donata Cucchi
Numero di battute: 2436

«Ho perso il cane.» Lo disse d’un fiato, con coraggio, mentre guidava. Lo disse con coraggio e forse sfida, nell’odore umido di novembre che entrava dal finestrino un po’ abbassato, le foglie malate, la sua voce incrinata, il profumo della sigaretta. Fuma quando è in difficoltà, quando qualcosa si sposta dall’asse che lei faticosamente tiene centrata, ogni giorno con sforzo, ogni momento potrei dire, mentre i suoi occhi dilatati, verdi e d’oro si muovono nel turbine delle parole, nella provvidenza della sua intelligenza – che sempre la salva – sempre o quasi – o forse mai – in quella lotta che è la sua vita, un travaglio multiforme di inquietudine, paura, debolezze improvvise, angoscia che arriva imprevista e prevedibile a cena, di notte, al mattino nel disordine della nostra casa dove lei in vestaglia di lana cammina spettinata e bellissima tra il bricco del tè, il computer acceso, gli appuntamenti con i pazienti che riceve nella stanza azzurra dove anch’io sono stato.

Era stata la mia psicologa, ci credereste, c’eravamo conosciuti così, andavo da lei due volte a settimana. La prima cosa era il suo sorriso sulla porta, la seconda il soggiorno con i resti del pranzo, la tovaglia sul tavolo per metà, i giochi della gatta sparsi su un parquet di rovere.

«Poi, di nuovo,
il mondo cambiava.»

Mi irritava allora che il mio cane non potesse entrare. Era un bassotto insolitamente mite, molto piccolo e leggero. Non avrebbe ringhiato alla gatta, la strega sottile che scivolava verso l’alto su mobili e scaffali, avrei potuto tenerlo in braccio, che fastidio le dava. Invece il mio cane restava fuori e la gatta scorrazzava dentro, io guardavo la parete slavata del suo studio e pensavo che la mia vita doveva essere diventata proprio patetica se avevo scelto di fare affidamento su una così. Poi, di nuovo, il mondo cambiava. Era il modo in cui nel parlare lei sfilava all’improvviso l’elastico dai capelli scuri, era il suo mutare in creatura temibile e veggente.

«Ma tu perché me l’hai affidato?» Questo invece lo disse con rammarico e crudeltà, a un semaforo, mentre frenava. Si voltò nel suono della domanda, difficile individuare su quale parola, sulla curva del punto interrogativo potrei dire. Era una jazzista in tutta la sua pazzia. Certo, una jazzista, lo capii in quel momento. Sapeva i tempi. Prendeva quello che c’è – non solo le note felici, liquide e magnifiche, ma tutto, la sua fatica, la mia miseria, l’ambiguità di quella perdita – e rilanciava.

Donata Cucchi bio

Donata Cucchi (1974) è laureata in filosofia e lavora per Zanichelli dal 2005. Ha collaborato con diverse case editrici e scrive articoli di arte e cultura per «La Ricerca», di Loescher. Da alcuni anni si dedica alla fotografia e alla pratica teatrale. Vive a Bologna.

racconto matteo gravina

drink

Un racconto di Matteo Gravina
Numero di battute: 2491

Se avesse potuto osservare la scena dall’esterno, l’avrebbe definita triste. Nessuno che non abbia sbagliato un numero incalcolabile di scelte nella vita se ne sta fermo a un tavolo di un bar a fissare il drink mezzo vuoto con lo sguardo vuoto per davvero. Avrebbe voluto ricominciare di nuovo, e lo voleva perché era proprio a quel tavolo che era iniziato, quando lei aveva sorriso.

E lei sorrise ancora, comparendo da dietro l’angolo della sala e camminando verso il suo tavolo. Era bella come il primo giorno.

«Che bevi?» chiese appena seduta.
«Gin e soda. Un Tom Collins» disse assaggiandolo. «Ricordi questo posto?»
Lei, senza chiedere permesso, gli rubò un po’ di drink. «Ci siamo conosciuti qui.»
«Quattro anni fa. Mancava poco a Capodanno.» 
Lei annuì con forza. «Sarebbe più corretto dire che ci siamo conosciuti alla tua festa.»
«Ma così diventa una storia banale.»
«Che storia?»
«La nostra.»

Lei decise di prendere un altro sorso del suo drink. «Scrivi ancora quindi?» chiese.
«No, non più. Non ho più molti pensieri per la testa.»
«È un bene o un male?»
«Non so. Servono, anche se è una cosa che mi hai sempre rimproverato.»

«Vuoi sapere
una cosa strana?»

«Sei qui per recriminare?» chiese lei guardandolo di traverso.
«No» rispose convinto. «Volevo solo evocare un nostro ricordo. Ho come l’impressione che avremmo potuto averne di più» rifletté lui.
«Abbiamo fatto molte cene romantiche però» gli fece notare e bevve. «Una anche qui, in effetti.»

Lui sorrise e si riprese il bicchiere con più ghiaccio che liquido. «Vuoi sapere una cosa strana?»
Annuì con gli occhi aperti come quelli di una bambina a cui si sta per raccontare qualcosa di incredibile.
«Non mi è mai piaciuto il gin. Né la soda. Non berrei né l’uno né l’altra. Però questo mi piace.»
«Pensi stiano bene insieme?»
Lui prese una profonda sorsata, quasi a finirlo. Ma ne rimase ancora un po’ sul fondo. «Non sono ingredienti facili, però magari possono trovare il loro equilibrio.»

Lei sorrise dolcemente. Gli accarezzò le dita che tenevano il bicchiere e glielo rubò dalle mani. Lui riconobbe lo sguardo della sfida. Strinse il vetro tra le labbra con forza, esitando. Poi mandò giù il Tom Collins fino all’ultima goccia. «E ora che farai?»

Sapeva la risposta a questa domanda nel preciso momento in cui lei si era seduta. «Credo proprio che me ne prenderò un altro. Lo vuoi?»
Lei girò la testa di lato, sorridendo e abbassando il mento così da mostrare il profilo e le linee del sorriso sulla guancia.
La guardò a lungo, e senza distrarsi fece un cenno al cameriere.

gravina matteo bio

Matteo Gravina (1996) è nato a Bassano del Grappa ed è da sempre appassionato di storia antica. Ha frequentato il biennio di Storytelling e Perfoming Arts alla Scuola Holden e attualmente studia Scienze Politiche all’Università degli Studi di Padova.