Un racconto di Luca Pollara
Numero di battute: 2091
Stanotte il cielo era carico di elettricità, lo potevano sentire tutti ma nessuno c’ha fatto caso. Era bianco come quelle lanterne che si fanno volare con dentro una fiamma accesa. Le nuvole sembravano incandescenti.
Ora ne parlano tutti, ma le avevamo già studiate a scuola, quelle nuvole. Il prof era arrivato e aveva detto quest’anno faremo delle ricerche, vi insegnerò a reperire le giuste informazioni e sapere cosa succede, e facevamo queste ricerche tra documenti in inglese.
Uno diceva questo: “Il pyrocumulonembo è una formazione di tipo temporalesco implicata nell’insorgere o aumentare di incendi, nelle sue manifestazioni estreme inietta grandi quantità di fumo e altre emissioni legate alla combustione di biomasse nei livelli più bassi della stratosfera” [Fromm, 2010].
«Era una notte bellissima.»
Vedere quelle nuvole vecchie di trent’anni in cielo era qualcosa cui essere abituati, come la sigaretta prima di entrare a scuola o la sega di Mirella. E poi c’è stato un lampo, una bomba, è esplosa in cielo e poi in terra. Mi sono affacciato alla finestra sperando di vederne altri, il bosco ha preso una luce da notte di capodanno, esplodeva tra i rami, ci sono stati altri due lampi e le fiamme sono cresciute arrivando fino agli alberi abbattuti davanti casa.
Era una notte bellissima. Sono sceso in cucina e ho visto mio padre tagliare vecchi documenti plastificati e bruciarli nel camino. Faceva caldo, forse anche in cucina. Se le fiamme fossero arrivate abbastanza vicine avrei potuto anche fondare una mia religione come Manson o come Hubbard. Quel lampo era un segno che chiedeva solo di essere interpretato. Mi bastava un segno sulla pelle.
Gli occhi di mio padre si sono posati su di me, ha afferrato il taglierino e ha fatto scattare la lama, clic, ancora avanti, clic clic. Negli occhi gli vedevo bruciare la carta, gli alberi, la nostra casa. Clic. Mi ha fatto segno di avvicinarmi, mi ha passato una mano tra i capelli, l’ho sentita afferrarli e tirarli. La lama riverberava delle fiamme.
«Hai avuto paura dei fulmini, vero? Non ti preoccupare, torna a letto e dormi. Domattina sarà tutto finito.»
Luca Pollara (1986) insegna italiano, storia e geografia. Ha pubblicato racconti su A few words e 404: file not found. Si nutre di libri, scrittura e serie tv. Ama Parigi.
Un racconto di Laura Marinelli
Numero di battute: 2486
Quando infastidivo Ninù, lei urlava. Quando non infastidivo Ninù, lei urlava. Ninù aveva dodici anni e urlava sempre.
«Vai a cambiarle il bavaglino» mi dicevano, e io andavo. A nove anni avevo più paura dei suoi movimenti improvvisi che del buio nel rifugio. Davanti alla finestra, coi suoi occhi impolverati, Ninù guardava fuori. Cosa l’attraeva? mi domandavo. Il gatto si leccava il pelo sopra una maceria, la vecchietta sulla sedia diceva il rosario. Le case avevano i segni dei bombardamenti: i muri, più bassi più alti, segnavano contorni di punte che bucavano il cielo. Dopo la Grande Guerra eccone un’altra, ancora più grande. Per noi invece ogni cosa s’era fatta più piccola: lo stomaco prima e poi il corpo, incurvato dalla paura degli spazi vuoti che il conflitto aveva creato, nella testa, nel cuore e per le strade.
Trafficavo coi lacci del bavaglino cercando di fare il prima possibile: non volevo che Ninù si accorgesse di me. Con lo sguardo andavo a finire sempre lì, ai lati della sua bocca dove il rivolo di saliva scendeva fino al collo.
«Ninù aveva dodici anni e urlava sempre.»
Dopo averle messo la pezza nuova, a volte non ci pensavo e alzavo la voce per farmi sentire da mamma. «Sta bene!» gridavo, disturbando così la quiete di mia sorella.
Ninù allora urlava e mi afferrava il braccio. Divincolarsi dalla sua presa non era difficile, liberarsi dai suoi occhi invece sì: satinati di nero oltre il nero mi restavano dentro anche dopo ch’ero scappato via.
La sera che uccisero Ninù, mamma piangeva.
Al rifugio tutto era buio e Ninù odiava il buio. Nello stanzone, i nostri corpi tremanti sembravano echi ai boati di fuori. Anche il silenzio spaventava, come le bombe; e Ninù era entrambe le cose. Nel buio era l’animale in agguato che gridava all’improvviso.
«Pazza» diceva chi saltava sulle sedie più degli altri.
Quando dopo il rumore dei passi e dei sospiri strozzati, seguì un lungo silenzio, tutti nel rifugio avevano capito cos’era accaduto. Anche mia madre.
La sirena che segnava la ripresa della vita normale riportò la luce nella stanza. Ninù col bavaglino troppo stretto intorno al collo non urlava più. A urlare era rimasta solo mamma, china sul suo cadavere. Saranno le ultime grida, queste? Ringraziavo chi, approfittando del buio, aveva compiuto il crimine. Vergognandomi del mio pensiero raggiunsi mamma. Quando le donne intorno smisero di consolarla e restammo soli, l’abbracciai; poi per suo volere baciai Ninù. La bava sulla sua guancia era gelida, e io mi pulii la bocca senza farmi vedere.
Laura Marinelli (1978) vive a Roma. Dopo la laurea in Giurisprudenza e un master in Marketing lavora nella grande distribuzione. Il marito e i figli sono contenti quando la vedono scrivere: una donna soddisfatta non rompe le scatole. Ha pubblicato per Narrandom e Historica Edizioni, a breve uscirà su Malgrado le mosche e Split. Altri suoi racconti sono in giro per il web.
Un racconto di Maurizio Minetto
Numero di battute: 2474
«Ho giocato a poker coi cannibali. Per fortuna ho perso solo una mano.»
Me la raccontò appena ci conoscemmo, mostrandomi il moncherino. Poi scoprii che ne sapeva parecchie, tutte allegre come la sua faccia, immobile, lunga, emaciata. Sembrava che non ci fossero abbastanza muscoli per le espressioni.
Forse era di quelli che ridono con gli occhi. Sempre se ti andava di cercargli il sorriso negli occhi dopo un’uscita del genere. Io stesso li avrò incrociati una decina di volte al massimo e non credo di avercelo mai trovato, un sorriso vero e proprio. Tipo quando lo vidi fissare sul giornale la foto di un campo di prigionia israeliano, Umm Khalid mi pare, e c’erano uomini e ragazzi nudi in fila, con le guardie armate intorno, e un virgolettato diceva “adulti e bambini venivano dal kibbutz a guardarci nudi e ridevano”.
Spiccava una ragazzina che rideva di un coetaneo palestinese. E lui sospirò e disse: «Be’, a volte da cosa nasce cosa». E mi rivolse la sua faccia smorta, e uno sguardo che era tutto il contrario. Sbalordito direi. Come quello di un bambino che ha visto un trucco di carte. Non capii se era così che guardava la gente, o se lo fece apposta: ebbi l’impressione che mi scimmiottasse.
«Be’, a volte
da cosa
nasce cosa.»
Quando fui assunto, non so perché scelsi una delle scrivanie vuote accanto alla sua.
Vestiva sempre di nero, aveva sessant’anni, niente famiglia eccetto «un’ex moglie e un ex fratello», così disse, ma risaliva a prima della guerra; aveva perso la mano trent’anni prima in Francia, nel campo di concentramento di Natzweiler (e non ha mai aggiunto più di questo, né gli ho mai domandato altro), comunque era «singolarmente abile a scrivere a macchina», come diceva lui (ed era vero); soffriva di reflusso gastrico, fumava un pacchetto al giorno di sigari Ambasciator Italico alla liquirizia, e amava i libri di Ring Lardner. Me ne prestò pure uno: Prima di sposarti ero molto più in forma. Ce l’ho ancora.
Alle spalle, i colleghi lo chiamavano in diversi modi. Uno era “Allegria”. E non è che avessero tutti i torti. Il giorno che andò in pensione stappò una bottiglia di Franciacorta e raccontò questa: «Un comico ebreo sopravvissuto ai campi di concentramento muore di vecchiaia e va in paradiso, e appena incontra Dio, gli racconta una barzelletta sull’Olocausto. Dio lo rimprovera: “Non c’è niente da ridere”. E l’ebreo risponde: “Dovevi esserci”».
Ecco, se fosse stato un clown sarebbe stato uno di quelli tristi. Al funerale nessuno si fece avanti per dire due parole.
Maurizio Minetto è nato a Roma nel 1978. Ha pubblicato racconti sulla rivista inutile e sulle antologie di alcuni concorsi letterari, tra cui il Premio Giovane Holden 2017. Nel 2019 ha vinto il Premio Zeno nella sezione racconti lunghi.
Un racconto di Matteo Candeliere
Numero di battute: 2497
Quando suo marito uscì di casa sbattendo la porta, Atalia non alzò neppure lo sguardo.
Lo sentì vestirsi, prendere le scarpe e la maschera antigas, ma non fece niente per fermarlo. Prodigio invece, da buon ficcanaso, smise di leccarsi il pelo e seguì i movimenti dell’uomo con i grandi occhi gialli. Con un balzo fu in camera da letto, alla finestra che dava sul viale. Tentò di acchiappare con una zampetta una delle gocce di pioggia che ne rigavano il vetro, poi lo vide salire in macchina.
Atalia si svegliò a notte fonda. La stanza era avvolta dall’oscurità e lei aveva i piedi freddi e le formiche a un braccio. Non aveva modo di sapere che ore fossero, ma suo marito non era ancora tornato.
Poggiò una mano sulla pancia di Prodigio e la sentì alzarsi e abbassarsi al ritmo regolare del sonno.
«Ehi» gli disse. «Svegliati un po’. Dobbiamo cercare papà.»
«Ehi, svegliati
un po’. Dobbiamo cercare papà.»
Indossò la maschera soltanto perché l’aveva presa anche lui. Non le piaceva respirarci attraverso: puzzava di plastica e le riempiva la testa di brutti pensieri. Cercò le chiavi a tentoni così come aveva fatto per le scarpe e la giacca, mentre Prodigio miagolava forte e le si strusciava sulle gambe.
«E smettila di miagolare, che già fare le cose al buio è un casino. Cos’è, vuoi venire anche tu?»
Ancora un miagolio e una strusciatina.
Voleva essere della partita.
Fuori faceva un gran freddo. Prodigio le camminava di fianco come un soldatino, con il pelo già tutto bagnato. Fu coraggioso, quella notte. Quando lei gli chiese se volesse essere preso in braccio, lui non si voltò neppure a guardarla. Era un po’ preoccupata, Atalia: gli animali sono resistenti, ma girare per troppo tempo senza maschera non è una buona idea. C’è un motivo per cui nessuno porta più il cane a spasso. C’è un motivo per cui tutti preferiscono i gatti.
Procedettero fino alle acque limacciose del fiume. Suo marito poteva essere soltanto lì.
L’auto era parcheggiata sotto gli alberi, tra i giunchi e i rifiuti.
Atalia aprì la portiera e si sedette con Prodigio sul sedile del passeggero. L’abitacolo sapeva di fumo e di vecchi vestiti bagnati. Cercò lo sguardo di suo marito dietro la maschera antigas, oltre il velo della disperazione, ma non trovò nulla.
«Hai visto? C’è anche Prodigio. È stato coraggioso. Povero, non ha neanche la maschera lui.»
Per un tempo che sembrò a entrambi lunghissimo restarono zitti, poi Atalia udì dei singhiozzi provenire da dentro il bocchettone della maschera di suo marito, attraverso la plastica e il ferro.
Prodigio faceva le fusa.
Matteo Candeliere è nato a Torino nel 1990. Si è laureato in psicologia e suona la chitarra in una band che si chiama Gli Alberi.
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