Un racconto di Giulia Scialpi
Numero di battute: 2408
La mano di un dio maligno ci ha torto il polso e ha gelato il tempo. Il giorno prima, con uno scatto dei tuoi, mi hai comprato guanti bianchi per toccare le cose. Dicevi: «Può essere anche divertente», ma non è divertente.
Il giorno uno mi hai detto: «Lo sapevo», ci siamo guardati sconvolti, e poi abbiamo sistemato i piatti nella credenza. Il giorno due abbiamo litigato. Hai trovato in camera mia un cd, un vecchio regalo, e hai voluto farmelo buttare. Colpa mia. Il giorno tre ho messo in ordine la libreria, finalmente, come la volevo. È venuta bella. Ho pensato a quante cose lette e volute in questi anni e a quanto volevo che questi anni non finissero mai.
Il giorno quattro sei andato a fare la spesa e sono rimasta ad aspettarti. Il giorno cinque ho incontrato qualcuno per le scale, dopo sono rientrata e sono rimasta in ascolto delle voci dal pianerottolo.
«Il giorno dieci ho visto il mio quartiere vuoto.»
Il giorno sei il collegio si è svuotato. Qualcuno dei rimasti ha fatto ancora in tempo a tornarsene. È stato il giorno che abbiamo fatto il bucato, rimesso in ordine tutto. Abbiamo scoperto che hai un accendino per ogni tasca di ogni tuo cappotto e ci ha fatto ridere; pure se era un po’ triste. Il giorno sette ho iniziato a scrivere la tesi, senza sapere bene dove volevo andare, ma solo per andare. Il giorno otto ho contato le persone che vedevo in giro per strada, io dalla finestra, e le ho invidiate. Ho chiuso la finestra e ho pensato che è un pugno nello stomaco provare invidia per le cose normali.
Il giorno dieci, andando al supermercato, ho visto il mio quartiere vuoto. Era proprio mio, ancora mio, ma stavolta sembrava finto, inerte. Il giorno dopo ho perso il conto, ho usato le dita, poi ti ho detto: «Due settimane!», e pensato che il giorno che arriverà l’evento che non succede avremo di nuovo otto anni e sarà il giorno di Natale.
Oggi mi sono svegliata e la tua voce mi ha detto: «Questo tempo ci impone intimità». Sono scesa in cortile a pensarci. Mi sono immaginata le case intorno, tutte piene di respiri; me le sono sentite addosso. Mi ha dato gioia il silenzio, e guardare un muro d’edera. Non ho pensato che ero sola, pure se il gatto è sparito dal giardino, lasciando delle impronte nella terra secca. Il pulviscolo molleggiava nei fasci di sole. Ho stretto un po’ gli occhi, poi reclinato la testa e pensato che ho bisogno di diventare docile. E che in silenzio, anche questo tempo, come un gatto, se ne andrà.
Giulia Scialpi (1997) è nata a Taranto. Studia Italianistica alla Scuola Normale di Pisa, dove si è laureata nel 2018. Spesso scrive. Un suo racconto è di prossima pubblicazione su narrandom.it.
Un racconto di Giuseppe Marrone
Numero di battute: 2469
La prima volta che incontrai mio fratello, mi disse che il mondo sarebbe finito. Lo avevano appena cavato fuori dall’incubatrice.
Nell’inquietudine suscitata dall’annuncio, ben visibile sul volto di tutti, il medico di turno volle tranquillizzarci. La precocità linguistica del piccolo sconfinava nel paranormale, ma a conti fatti non c’erano motivi per allarmarsi.
«E la fine del mondo?» domandò papà. «Le sembra normale che ne parli?»
Non ricevette risposta.
Lo chiamarono Luca.
Un’occasione sprecata. Poteva essere il primo caso al mondo di neonato che sceglie il proprio nome.
«E la fine del mondo?»
Seguirono lunghi, strani anni. Più strani che lunghi, a esser sinceri. E non furono anni felici.
Per quanto lo pregassimo di smetterla, Luca condiva con dispettoso compiacimento ogni giornata con le sue apocalittiche profezie. Una tragedia svegliarsi la mattina e aggiungere al pensiero della scuola la sua vocina già più matura della mia che mi ricordava la fine imminente.
E poi le profezie quotidiane… Non per forza tragiche, ma fastidiose, da manicomio.
Cominciò coi Mondiali 2010.
«Ultimi nel girone» annunciò.
Io e papà protestammo. Eravamo campioni in carica, diamine!
Da quel momento fu un continuo.
Quando scoprii il mondo delle scommesse, pensai di aver fatto centro. Ma, come poteva prevedere i risultati delle partite, Luca poteva prevedere anche che avrei speculato sul suo dono, e si divertì sei mesi a fornirmi gli esiti sbagliati, finché non seppe che mi ero arreso.
Come regalo per i miei quindici anni, cominciai a vedere uno psicologo.
Come regalo per i suoi sette, Luca cominciò a vedere un prete. Si sperava di fargli sputar fuori il diavolo o il santo che portava in corpo. Ma sapeva recitar bene, tanto che alla fine il prete consigliò a mamma e papà di farsi pure loro un giro dal mio psicologo.
Raccolsero il consiglio.
Un pomeriggio che ci lasciarono soli, lo inchiodai in un angolo con l’intenzione di dargliele di santa ragione.
«La devi finire» gli urlai. «Non è vero che prevedi. Tu non prevedi niente.»
Luca mi fissava.
«Hai presente gli elastici?» mi domandò.
«Gli elastici?»
«Il tempo è come un elastico. Si tira e si stinge, può sembrar lungo, può sembrar corto. Eppure, sempre dello stesso elastico si tratta. Io non prevedo. Vedo l’elastico nella sua interezza, so che un giorno si spezzerà.»
Mi prese la mano chiusa a pugno.
«Se ti concentri» mi disse, «puoi vederlo anche tu, il tempo.»
E lo vidi davvero, come un elastico che si tira e si stringe, che prima o poi si spezza.
Giuseppe Marrone (Sorrento, 1996) studia Filologia Moderna all’Università degli Studi di Napoli Federico II. Ha partecipato alla traduzione dal latino del Regimen Sanitatis Salernitanum, poi pubblicata in Naturalmente sani. Il nuovo Regimen della Scuola Medica Salernitana (EUTòPIA, 2017). Ha pubblicato le raccolte di poesie Sulla riva (Oèdipus, 2018) e Gesta barbarorum (Ensemble, 2019).
Un racconto di Costanza Ghezzi
Numero di battute: 2430
Dopo la festa quello che sarebbe stato il mio futuro marito mi portò a casa sua. Avevo bevuto molto, anche lui credo. Non ricordo quasi nulla.
Fine anni Settanta. Credevamo nella rivoluzione, indossavamo l’eskimo come reduci.
Io lo dovevo condividere con mio fratello, la taglia era la sua.
Il prof di Filosofia, in un mattino grigio di marzo arrivò in classe con la notizia del rapimento di Moro.
Il mio compagno mi guardò incredulo, esultammo dal penultimo banco: pieno sostegno alle BR. Non sapevamo di essere stati fregati.
Ascoltavamo musica, scazzavamo di politica.
I ragazzi facevano gli spiritosi.
Le ragazze bevevano forte e finivano con tutti.
Vomitavamo a turno.
Noi, gli invincibili, sulle note di Vedi Cara.
Sarei rimasta a dormire nel casino. Lui si oppose perché non si fidava.
Una casa ricca, una casa calda anche di notte.
Estrasse il letto dal cassettone. La stanza era piccola, e ci si muoveva a fatica. Sopra la mensola c’era un sax di ottone ossidato. Suonava: chitarra, armonica, flauto. Pensava di essere bravo ma io non ero in grado di giudicare.
Mettemmo il piumone dentro il sacco profumato di ammorbidente, mia madre lavava ancora con il sapone di Marsiglia.
«Ascoltavamo musica, scazzavamo
di politica.»
Era la prima volta che vedevo un piumone: una nuvola caldissima fatta di leggerezza. Sua madre era tedesca.
A casa mia dormivo con le coperte abruzzesi, pesanti e ruvide, color merda di mucca a fiori bianchi. Entravo nel letto gelato, mi svegliavo ancora più infreddolita e indolenzita. Mamma le aveva comprate all’Aquila, credeva di avere fatto l’affare della vita.
Il piumone fu una scoperta.
Mi addormentai.
All’una fui svegliata. Lui parlava nel corridoio con la madre: «Letizia è rimasta a dormire da noi. Era tardi e non ho potuto avvertire…».
Sembrava incazzata.
Faticavo a svegliarmi: il caldo mi avvolgeva. Quando rientrò gli dissi che volevo andare via, non volevo incontrare i suoi.
Mi accompagnò a casa con la Diane rossa; l’unico del gruppo ad avere una macchina di proprietà.
Avevo in bocca lo strano sapore dell’alcol.
In bagno trovai le mutande sporche di sangue. Avevo avuto il mio primo rapporto. O forse qualcosa di simile. Non con lui. Doveva essere stato con quello che aveva la barba alla Che, i denti bianchissimi. In più si sbronzava con classe.
Dopo pranzo giocai a tombola.
Lo sposai, quello del piumone, tre anni dopo. Mi ero innamorata del piumone e del caldo di casa sua.
Andò male.
Non basta un piumone a sostenere l’amore.
Costanza Ghezzi vive, legge, scrive e lavora ad Albinia, nella Maremma toscana. Lettrice insaziabile e editor, collabora con autori e autrici locali. Ha fondato un’agenzia letteraria, Thàlia, dando voce a un sogno. Crede nei Diritti umani ed è impegnata nel Centro antiviolenza della Provincia.
Un racconto di Adriano Giotti
Numero di battute: 2497
Mentre camminiamo, lo zaino inizia a pesarmi sulla schiena, ma lui non fa cenno di prendermelo. Nessuno nel quartiere osa alzare lo sguardo su di lui. Il mio amico Michele l’altro giorno mi ha detto che mio padre è l’invidia di tutti, non ce l’ha nessuno un padre figo come il mio. Non gli ho risposto che spesso non ce l’ho neanche io, un padre come il mio. Mentre camminiamo sento che gli squilla il cercapersone. Succede sempre quando stiamo assieme, ma stavolta non risponde. Mi carezza la testa e mi spinge dentro un bar.
Prendi quello che vuoi, mi dice.
Ci sediamo al bancone, c’è odore di pastarelle. Io prendo un tramezzino tonno e uovo, lui una Peroni da 66. Mi guarda mangiare, mentre beve la sua birra. Il cercapersone gli squilla di nuovo. Persino il barista glielo fa notare, ma mio padre dice che non fa niente.
Mi porta allo spiazzo. Quello dietro l’Aniene, vicino a dove fa la curva. È il suo posto preferito. Non c’è niente, solo erba e palazzi in lontananza. Una volta mi aveva raccontato che c’era una roulotte, ci viveva un pazzo dentro. E un giorno morì bruciato perché si addormentò con la sigaretta accesa.
Togliti lo zaino, mi dice.
Lo tolgo, lo butto sull’erba.
Togliti anche il giubbotto, mi dice.
Ubbidisco.
Spicciati, vieni qua, mi dice.
«Adesso colpiscimi.»
Mi fa vedere come mettermi in posizione, la gamba sinistra sempre più avanti della destra per poter colpire con il destro. Mi insegna il gioco di equilibrio. L’uno di fianco all’altro, mi sento la sua copia in miniatura, mi chiedo se diventerò mai forte quanto lui. Il suo bicipite è grosso quasi come la mia testa.
Adesso colpiscimi, mi dice.
Lo colpisco dove arrivo. Alla bocca dello stomaco. Mi faccio male alla mano.
Riprovaci, mi dice.
Gli viene da ridere mentre lo colpisco di nuovo. Mi fanno male le nocche, mentre mi ripete di colpirlo. Poi mi prende la faccia con la mano e mi allontana. Mi ripete di colpirlo, ma le mie braccia mulinano senza andare a segno, non c’arrivo, è troppo lungo il suo braccio. La sua mano sa di ferro e di sporco. Provo a morderla, lui la solleva all’improvviso e io perdo l’equilibrio e cado a terra.
Alzati, mi dice. Spicciati.
Mentre mi rialzo, mi scaglio contro di lui, che si sposta, ci riprovo, ma si sposta di nuovo.
Concentrati cazzo, mi dice, sto qua davanti a te.
Mi afferra di nuovo per la testa. Stringe. Sento le sue unghie cacciarmisi dentro la pelle. Urlo. Ma lui non la smette. Gli vedo gli occhi, lo sguardo lontano, freddo.
Fino a quando il cercapersone squilla di nuovo. E lui molla la presa.
Adriano Giotti (1984) è nato a Firenze ma vive a Roma. Laureato in Teoria della comunicazione e Master in Scrittura alla Scuola Holden. Il suo cortometraggio Mostri è stato selezionato nella cinquina dei David di Donatello 2017. Il suo primo lungometraggio Sex Cowboys ha vinto il premio come Miglior Film Italiano al RIFF – Rome Independent Film Festival. Sta finendo di scrivere la sua prima raccolta di racconti, storie che al cinema non gli farebbero mai girare.
Un racconto di Maurizio Ferriteno
Numero di battute: 2481
«Non c’è altra scelta, andranno ammazzati tutti.»
Tu fissi la buccia di mandarino sulla tovaglia. Ti sorprendi a considerare il sottile confine tra la peluria bianca dell’interno e l’arancio lunare della buccia. Le parole di tuo padre ti giungono lontane, liminali. Sei ancora concentrato sul tuo satellite di buccia quando un ululato ti raggiunge inesorabile.
«Uuu! Guarda là, guarda tutta quella gente là.»
Tuo padre mastica la centesima noce, tra le dita residui di gusci, il gomito puntato sul tavolo, la tovaglia raggrumata respinta dal suo addome gonfio. La tv è stata accesa alle tue spalle, tu avevi chiesto ancora una volta di non farlo, sullo schermo donne, bambini, uomini, persone, liberati dal fango, scavano per liberarne altri, si guardano, piangono, parlano, gesticolano verso una telecamera che fatica a mettere a fuoco il viso grandangolare di una donna e sembra volerle sfuggire ma poi ritorna e la riprende da un’altra angolazione.
Tuo padre mastica come stesse masticando le immagini; sei sicuro di aver visto tra un dente e l’altro la donna di prima che veniva risucchiata tra i detriti di noce, spazzata via da una lingua ruvida e scura.
«Andranno ammazzati tutti.»
Tuo padre la spegne, la tv. «Be’ hai sempre detto che ti dà fastidio.» Alza le spalle, lo vedi rimpicciolire, smettere di ruminare e ordinare davanti a sé in uno schema semplice ma regolare frammenti e schegge di gusci.
Tu torni alla tua buccia bicolore. È stato un errore tornare.
«Per Dio!» Tuo padre batte il pugno sul tavolo sconvolgendo l’ordine dei frammenti, solleva la mano destra ed estrae dalla carne un triangolo non euclideo di noce. «È per questo, porco quel maledetto, che saremo costretti a farlo!»
Tu osservi la sua faccia, la sua mano e il simbolo triangolare rimasto inciso nella pelle. Tua madre, eccola, compare dall’oscurità del corridoio portando un caffè.
«Quando si muoveranno» il braccio di tuo padre rotea davanti al tuo naso, «e credimi si stanno già muovendo, tutti questi vorranno venire qui da noi. E noi che faremo? Muri? Credi a me, non ci rimarrà altro da fare.»
Tuo padre spazzola e ordina a ranghi più serrati le schegge, tua madre ti sottrae la buccia, tu fai appena un gesto e apri le labbra senza emettere suoni.
«Nient’altro se non sparare. Sopravvivenza, sì. Sarà meglio per tutti.»
Sei solo, senza buccia, tua madre è tornata e ora posa una mano sulla spalla di tuo padre, annuisce, la testa minuta, il collo sottile dalla pelle scolorita e scollata. È la notte della vigilia di Natale.
Maurizio Ferriteno nasce a Roma nel 1972. Cresce con una passione per la fisica, diventa ingegnere e ora insegna quello che ha studiato e imparato appena al di là del confine. Ha scoperto di non poter fare a meno di una cosa: scrivere.
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