Un racconto di Manuela Antonucci
Numero di battute: 2486
«Spegni la luce» ti dice.
Alzi il braccio per cercare con la mano l’interruttore ma non c’è verso, ti manca la memoria dell’abitudine. Tu sai che non è colpa tua, in questa casa mica ci vivi. Nel frattempo, la rete del divano letto sta facendo un rumore che ti innervosisce, una specie di cric cric inopportuno.
Tu pensi subito: “Smettila, alzi sempre la voce, i miei ti potrebbero sentire”. Lo dice lui tutte le volte che parlate. Intanto la coperta – quella con i riquadri scuciti, polverosa, che sa di morte – è caduta per terra. L’hai vista scivolare qualche istante prima di premere il pulsante. Il clic ti ha fatto pensare agli ultimi minuti della corsa – quella che fai lungo il fiume – il sudore sulla canotta, i muscoli tesi di acido lattico, buio spesso, la fine delle cose.
“Pensa, pensa, pensa” ti dici e sembra quasi che tu lo stia facendo ad alta voce. Provi a trovare la trama adatta ma il conto dei giorni interrompe l’immaginazione; infatti giureresti che oggi sia lunedì, anche se non ne sei sicura. Però se fosse il caso, se fosse lunedì per davvero, allora sarebbero cinquanta giorni che sei bloccata in questo posto. “Pensa, pensa, pensa” ti ripeti. Di solito, quando sei sola funziona sempre: un’idea si accomoda per bene nella testa e le cose si srotolano con una velocità impressionante.
«Stai bene?» ti chiede lui e sai che la domanda è il messaggio che stavi aspettando dall’inizio. Devi sbrigarti, rispettare la soglia di tolleranza.
«Oggi sei strana.»
«Sì, sì» rispondi veloce perché anche tu vorresti che tutto finisse subito, un taglio netto e poi la notte.
Ora che gli occhi si sono abituati alle tonalità del chiaroscuro, nel buio vedi il suo corpo segnare il destino dell’orizzonte. Scosse improvvise sollevano la coperta coprendo a fasi alterne la spia rossa della televisione, quella piccola a schermo piatto che non accendete mai. Basta poco e il nero intenso del suo viso copre l’intera visuale.
«Oggi sei strana» ti dice con l’affanno nella bocca.
Poi si schianta contro il tuo corpo, vuoto come un carapace. Il cric cric della rete si è fatto sottile come rumore di onda che si arriccia in alto mare.
«Mi dispiace» continua lui, tu gli dici: «Non fa niente», lui procede con l’ultimo affondo e allora senti quel rumore di qualcosa che si rompe, la fessura nel carapace che si apre.
Ti aggrappi alla sua spalla. Sul soffitto le ombre degli alberi sembrano una premonizione spaventosa, sono lunghe come questo tempo che subisci, muta, senza ambizioni, esausta nell’attesa.
Manuela Antonucci (1983), è nata e cresciuta nella provincia di Lecce, ma ha vissuto (e amato) diverse città: Roma, Lisbona, San Paolo e Barcellona. Laureata in Editoria e Scrittura, negli ultimi nove anni si è occupata soprattutto di narrazioni audiovisive lavorando come sceneggiatrice e regista per Aedo Social Films, una piccola casa di produzione con sede a Barcellona.
Cristò (1976, Bari) è scrittore, musicista e libraio. Suoi contributi sono apparsi sui blog «minimaemoralia», «Artribune» e «Vita da Editor», sul quotidiano «la Repubblica» e sul periodico «Alfabeta2».
Ha pubblicato i romanzi Come pescare, cucinare e suonare la trota (Florestano 2007), L’orizzonte degli eventi (Il grillo 2011), That’s (im)possible (caratterimobili 2013; Intermezzi 2016), La carne (Intermezzi 2016; Neo 2020), Restiamo così quando ve ne andate (TerraRossa 2017).
Il suo ultimo romanzo è La meravigliosa lampada di Paolo Lunare (TerraRossa 2019), libro del giorno Fahrenheit, al quinto posto delle Classifiche di Qualità relative al quadrimestre ottobre 2019-gennaio 2020, tradotto in Cile, Argentina (Edicola Ediciones) e Francia, Svizzera, Belgio (Editions Le Soupirail).
Il suo esordio nella narrativa per l'infanzia è L'estate in cui sparirono i cani (Giunti 2023).
Un racconto di Antonio Fidel Mereu
Numero di battute: 2464
La storia della vita di Artaserse era una delle più comuni e, come tale, una delle più tristi.
Artaserse ebbe una madre e, prima di perderlo, ebbe un padre. Artaserse non era figlio di nobili, ma proveniva da una famiglia agiata. Fin da giovane Artaserse amò e fu amato; cercò e fu trovato; ebbe e perse. Il villaggio in cui Artaserse era nato e cresciuto, nei pressi di Eleusi, era attraversato da un unico fiume perenne e tragico, tumultuoso come Achille o Dario I di Persia. Adolescente, viaggia da un capo all’altro dell’Anatolia più colpita dalla guerra; durante un soggiorno a Efeso entra in contatto con Eraclito e si dice suo seguace. Tornato a casa, Artaserse non poté lavarsi al fiume, né gli riuscì negli anni a venire.
Lo chiamavano “il pastore errante”; tal volta, con sdegno, “il passeggiatore”. Il popolo si teneva alla larga da Artaserse; girava voce, all’assemblea, che il giovane fosse un portatore di malaugurio o l’uomo che avrebbe segnato la fine del regno. Solo, si avventurava nella sterminata solitudine della radura, e riposava un attimo all’ombra del mattino, sotto i rami pre-sofisti dei pochi alberi sparpagliati nella steppa.
«Lo chiamavano
il pastore errante.»
Morto Cimone e sconfitti i Persiani, la guerra finì, ma la lega non si sciolse. Il popolo era preoccupato. L’assemblea concordò in ultimo di esiliare Artaserse, per il benessere e l’igiene dei cittadini. Artaserse fu solo come non lo era mai stato prima. Di lui si perse ogni traccia.
Si ritiene abbia trovato riparo tra le terre spartane, ma non vi è alcuna certezza a riguardo. In un frammento, Tucidide riporta che le peregrinazioni di Artaserse sul suolo ateniese siano una delle possibili cause della peste durante la guerra.
Alcuni sostengono che Artaserse non sia mai esistito e fosse solo una leggenda, chiamato in causa di volta in volta per tenere a bada i bambini, come la madre del sole o il Babau del dopo pranzo, o per mostrar loro le conseguenze di una trascurata pulizia del corpo. Ancora, c’è chi reputa Artaserse antenato di Israele e chi invece è convinto sia ancora in vita, e tutt’oggi cerchi casa, senza darsi pace, senza mai trovarla. Una minor parte considera Artaserse l’archetipo dell’uomo moderno. Un’altra, più timida e realista, ammette che Artaserse sia esistito, senza infamia e senza lode, e che fosse solo un uomo come molti altri lo erano stati prima di lui, esiliati in una terra chiamata mondo e costretti all’eterna ricerca. Ai più non importa, né farebbe alcuna differenza.
Antonio Fidel Mereu nasce in Sardegna nel 1998. Entrato a far parte di un’attività ricettiva turistica, studia arte, logica matematica e filosofia nel tempo libero. Scrive quotidianamente.
Un racconto di Martin Hofer
Numero di battute: 2335
Dice di aver fatto caso alla notifica di arrivo della mail, ma di non averla aperta subito, la mail, perché stava guidando. Era domenica. Il lunedì ricorda di aver lavorato fino a tardi, e poi di essersi trattenuto con un collega nel bar di fronte all’ufficio, tempo di un bicchiere. Non ha cenato, si è addormentato vestito.
Martedì ha tentato di fare spazio nel computer: un messaggio lo informava che la memoria era quasi esaurita. Ha passato in rassegna i documenti salvati, le foto, i video, indeciso su cosa conservare e cosa eliminare. Gran parte del materiale, a suo dire, gli è parso sacrificabile, eppure non è riuscito a trarne una gerarchia, un criterio dal quale far derivare il diritto alla sopravvivenza o all’oblio. Alla fine ha lasciato tutto com’era, ha spento il computer.
Il mercoledì e il giovedì afferma di faticare a distinguerli, a distanza di tutto questo tempo. Ha cenato con dei surgelati, ha bevuto vino, ha promesso a se stesso che a partire dalla settimana successiva avrebbe dato un taglio alle sigarette, ha guardato il secondo tempo di una partita di Premier League trasmessa in replica.
«Fatto sta
che i giorni
sono passati.»
Adesso non saprebbe stabilire con esattezza cosa tra il vino, i buoni propositi sul fumo e la partita sia avvenuto di mercoledì e cosa sia avvenuto di giovedì. Ricorda soltanto una grande stanchezza, una pesantezza mentale, così la definisce, e che in entrambi i casi ci sono stati i surgelati, di questo è sicuro.
Venerdì ha fatto di nuovo tardi in ufficio, ma prima di andare a letto dice di essersi ripromesso di leggere la mail, la mail di Giovanni, e di rispondere, a quella mail del suo vecchio amico Giovanni che non sentiva da così tanto tempo. Per quale motivo non lo abbia fatto, adesso non è in grado di ricostruirlo.
Fatto sta che i giorni sono passati, e non in modo poi tanto dissimile dai precedenti. Una sequenza talmente esatta da prevedere gli stessi rituali, le stesse ore di straordinario, gli stessi surgelati, le stesse sigarette, gli stessi buoni propositi di smettere, le stesse dimenticanze. Soltanto la memoria del suo computer ha continuato a riempirsi. Lui di quella mail, la mail di Giovanni, si era proprio scordato, almeno fino a quando, una mattina – era ancora domenica – non ha acceso la radio. È stato allora, assicura lui, solo e soltanto allora che dice di aver pensato: Giovanni.
Martin Hofer (1986) è nato a Firenze e vive a Torino. È stato finalista a Esor-dire (2012) e ha partecipato a tre edizioni di 8x8, un concorso letterario dove si sente la voce (2015, 2017, 2018). Suoi racconti sono apparsi sulle riviste Colla, Cadillac, Flanerì, Verde e inutile. Lavora come ufficio stampa in ambito editoriale. Ha fondato e dirige insieme a Bernardo Anichini L’Inquieto, rivista online di racconti illustrati.
Un racconto di Carlo Paolo Cattaneo
Numero di battute: 2463
Trovarono la prima carcassa tra la vegetazione sulla riva del canale artificiale che attraversava la proprietà a nordovest.
Pope esaminò il corpicino bruno coperto di polvere.
«Morto?»
«Sì» disse Pope.
«Ottimo.»
«Può avvicinarsi. Ancora non puzza.»
«Vedo bene anche da qua.»
Pope infilò la carne morta nel sacco di juta. Guardò la polvere biancastra sparsa sul terreno dal vento e poi guardò il canale. Il canale era in secca. «Andiamo.»
«È sicuro lasciare tutto in quello stato?»
«L’esca?»
«Eh.»
«Se la porta via la pioggia» disse Pope. «L’unica cosa di cui preoccuparsi è la carcassa. Quella attira le bestie.»
Pope uscì dall’avvallamento dove scorreva il canale e raggiunse l’uomo.
«Dice che ne troveremo altri?»
«Sicuro. Non ci sarà da camminare troppo.»
«Benissimo.»
A venti metri trovarono una seconda carcassa. Pope la infilò nel sacco e continuarono.
«Quanti pensa che ne troveremo?»
«Difficile a dirsi.»
«Una decina?»
«Magari anche di più.»
«Non saranno mai abbastanza. Quei bastardi si riproducono di continuo.»
«Quei bastardi
si riproducono di continuo.»
«Eccone un altro.»
«Creature schifose.»
«Tenga aperto il sacco» disse Pope.
«Dio, come puzza.»
«Guardi, si sono mangiati un po’ di budella. Dev’essere stato un gatto selvatico.»
«Lo metta via.»
«Hanno lasciato fegato e polmoni.»
«Dio santo.»
«Dopo il primo morso avranno sentito che c’era qualcosa di strano e hanno lasciato perdere.»
«Gatti, dice?»
«Probabile.»
«Peccato, mi piacciono i gatti.»
«Oh, non moriranno. Non ne hanno mangiato abbastanza per morire.»
«Meglio.»
«Avranno le budella arrotolate per un giorno o due, quello sì.»
Arrivarono al casale prima di mezzogiorno e i cani cominciarono a latrare. Sentivano l’odore di carne morta.
«Cosa ne fa delle carcasse?»
«Legna e benzina.»
«Bene.»
«Ci sono un paio di esemplari niente male» disse Pope. «Bisogna vedere in che stato è la coda. Se la coda è rimasta bella e gonfia, allora si possono impagliare.»
«Non so chi vorrebbe una cosa del genere.»
«Oh, ma un sacco di gente. Sono delle belle creature da arredo.»
«Sono animali schifosi. Pantegane glorificate.»
«Uno con una buona coda si vende al prezzo di una settimana di lavoro.»
«Non mi interessa.»
«Buona giornata, allora. Tenga i cani lontani dal canale fino alla prima pioggia.»
«Torna domani?»
«Sì.»
«Ne troveremo come oggi?»
«No. Sono creature che imparano alla svelta. Ne troveremo la metà. Il giorno dopo solo un paio. Poi le esche saranno inutili.»
«Come ci liberiamo degli altri?»
«Vedremo» disse Pope e si incamminò verso casa. Sulla strada comprò gesso e filo da cucire.
Carlo Paolo Cattaneo (Milano, 1994). Laureato in Economia Aziendale, consegue un master in Marketing. Vive a Milano. Scrive.
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