Un racconto di Antiniska Pozzi
Numero di battute: 2498
L’aveva desiderata per mesi, forse anni, forse era già passata di moda, che ne sa un bambino qual è l’esatta dimensione del tempo? Dovevano essere anni, perché aveva sentito dire che, quando un desiderio dura a lungo, la misura corretta sono come minimo gli anni.
L’aveva vista a casa della vicina, ma anche in qualche pubblicità: le colonne lunghe e sottili che tenevano uniti i tre pavimenti di cartonato erano color panna, e la maggior parte dei mobili era disegnata sullo sfondo. Incastonato nel mezzo, appeso a uno spago, il vero oggetto del desiderio. Un ascensore rosa, semiaperto come una cappella per matrimoni di campagna, rigorosamente in plastica, con un cuore che bucava sul nulla il traforo frontale.
La casa di Barbie, coi piani talmente bassi che la bambola sfiorava il soffitto con la coda di cavallo, ma non importava perché il gioco non era stare in casa ma prendere l’ascensore, tirare la cordicella, andare su, scendere giù.
«L’aveva desiderata
per mesi, forse anni.»
Costava parecchi soldi, quella casa, ed era per questo che Luigi aveva dovuto attendere a lungo: i suoi genitori, padre operaio e madre casalinga, avevano aspettato che qualcuno se ne disfacesse, che pagarla a prezzo pieno non era possibile, e per un maschio poi. Ora campeggiava in corridoio, finto semicondominio dentro un condominio vero, entrambi ammaccati sugli angoli a ogni piano, lui rosa, bellissimo, sembrava un tempio.
Luigi prese tutte le Barbie che aveva, ovvero due – una aveva i capelli tagliati in diagonale –, anche quelle di seconda mano, e le mise all’ingresso. Si era immaginato che avrebbero vissuto chissà quali storie, glielo aveva sussurrato, forse promesso, non è così che succede quando sei adulto? Prendi un ascensore e succedono cose. Ma i giorni passavano e la Town House rimaneva immersa nel silenzio coi suoi pochi arredi di plastica.
Le due Barbie salivano e scendevano, tutt’al più si sedevano sullo scomodo divano bianco, e restavano a guardare Luigi con quegli occhi fissi assurdamente sempre felici. Lui ricambiava lo sguardo, interdetto dalla propria incapacità di creare trame. Aveva dei personaggi, aveva un’ambientazione e un orizzonte temporale, aveva un sospetto, ma non aveva una storia.
Era il 1986, passavano i giorni e le sventurate salivano e scendevano al suono sordo della cordicella tirata pianissimo, per far durare il tragitto più a lungo. Forse anche lui non sarebbe andato mai da nessuna parte. L’ascensore comunque era bellissimo. Tutto rosa, con un cuore che bucava sul nulla il traforo frontale.
Antiniska Pozzi (1978) è nata e vive a Milano. Dopo la laurea in Lettere, ha lavorato come traduttrice d’incunaboli, redattrice e giornalista. Ha pubblicato il monologo teatrale L’insalata di pomodori (premio Per voce sola 2008), il romanzo Dove vanno le iguane quando piove (Cabila 2009) e la silloge Amavo (una volta) un comunista (Lietocolle 2018, Premio Beppe Salvia). Suoi racconti sono apparsi su diverse riviste, tra cui Cadillac, Monolith Volume, Bomarscè. Traduce testi di poeti inediti in Italia, pubblicati su riviste e litblog.
Un racconto di Stefano Ficagna
Numero di battute: 2487
L’avevano ribattezzato l’albero della conta, ed era il simbolo del suo regno. Una vecchia quercia, proprio dietro il muro di cinta del cimitero, con la corteccia fragile e la linfa che fuoriusciva dalle crepe. Attirava le formiche quel liquido denso, e chi stava a braccia conserte a fare il conto alla rovescia contro il tronco finiva per trovarsele dappertutto. Sulle braccia, nei vestiti, persino tra i capelli.
A lui non succedeva mai. Era il più bravo a nascondersi, quindi la fase della ricerca spettava sempre agli altri. Aveva imposto quella regola, e gli altri l’avevano accettata.
Era stato sempre lui a scegliere quell’albero come tana, per via dei due fori che risaltavano appena sopra le loro teste. Suo nonno gliene aveva raccontato la storia, una sera che il vino e la malinconia l’avevano reso loquace.
Lui lo chiamava l’albero del boia.
«Disposero i prigionieri lungo il muro. Erano quelli che non si erano arresi, che avevano combattuto fino all’ultimo. Bisognava dare un segnale forte.»
«Lui lo chiamava l’albero del boia.»
Suo padre non voleva che gli raccontasse quelle storie, e col senno di poi tanta violenza a dieci anni la si può assimilare più che capire.
«Ce n’erano troppi, così uno lo legarono all’albero. Qualcuno piangeva, ma lui se ne stava a testa alta. Sembrava ci sfidasse.» Il nonno fece una pausa, gli occhi umidi.
«Perché piangi?»
Il nonno gli rivolse un sorriso. «Eravamo amici. Prima, quando le cose non erano così complicate.»
Lui non capiva. Elaborò quel pensiero solo col tempo, ma già allora sentiva che nel gioco e in battaglia la storia la fanno i vincitori. Non c’è pietà per gli sconfitti.
Lo dimostrò il giorno dopo, quando un amico lo accusò di barare a nascondino. Prima gli diede una spinta, poi lo tenne a terra mettendogli un piede in testa. Non gli bastarono le scuse, lo liberò solo dopo che le formiche avevano già preso a camminargli sul volto.
Passarono gli anni, il nonno morì, nuove lotte si stagliarono all’orizzonte. Il ragazzino crebbe, affinò le sue abilità, divenne così bravo da nascondersi persino a sé stesso. Si illuse di lottare per un ideale, e non per la sensazione che gli procurava avere una pistola in mano.
All’uomo adulto che si ritrovò di fronte quel tronco coi due fori come monito, una notte in cui le grida e i latrati lo inseguivano, non rimase che sperare d’esser bravo come allora a sparire. O che a dargli la caccia ci fosse almeno un uomo buono come il nonno, capace di spargere lacrime per chi, persa l’innocenza, ha compiuto le scelte sbagliate.
Stefano Ficagna (1979) è nato a Novara e vive a Milano. Si è diplomato come perito elettrotecnico, lavora in una fabbrica di bottoni, ma le sue vere passioni sono musica e scrittura, che cerca di coniugare qui. Ha pubblicato racconti sulle riviste Alibi, Bomarscé, Split e Cedro.mag, ma va soprattutto fiero di quello scritto a quattro mani nel disco Tl;Dl della band sperimentale romana Vonneumann. Ha da poco terminato una raccolta di racconti.
Un racconto di Eva Luna Mascolino
Numero di battute: 1840
Il problema è che era nata per prima. In ospedale e in tutto il Paese. Al telegiornale l’avrebbero detto per forza, si sa come vanno le cose.
«Se fosse stato un maschio» disse suo padre, «gli avremmo dato il nome di un re.»
«Ah» sibilò sua madre, «quindi a una femmina…»
«Di una principessa» provò a difendersi l’altro.
«Come se il mondo non avesse regine.»
Lui allargò le braccia. «Un’imperatrice, se vuoi.»
«Ti prego.»
«Ho capito, niente mani imbrattate.»
«Appunto. Piuttosto una dea.»
«Come se fossero esenti da tutti i peccati.»
«Un’attrice? Un’artista?»
«Perché non un’attivista.»
«Non vorrai mica chiamarla Betty.»
«Magari Simone…»
«Fai il serio, ti prego» disse lei, risentita.
Lui per poco non perse la flemma. «Inventiamoci un nome» propose. «Oppure due o tre, poi lei si sceglie il più bello.»
«Non è mica il mercato del pesce.»
«Ma nemmeno la gogna.»
«Rimandiamo a domani?»
«Alla stampa servirà per le otto.»
«Il problema è che era nata per prima.
In ospedale
e in tutto il Paese.»
«Va bene, scegliamo una santa.»
«Neanche per sogno.»
«Un’amica?»
«Una nonna?»
«Una stella!»
«Meglio: uno Stato.»
«Uno Stato?»
«O un’isola, tipo. Itaca, Creta…»
«Perché non Argilla?»
Allora lui, per la prima volta, sbuffò. «Sai che c’è» le disse, «se ci tieni tanto, fai tu. Io mi prendo un caffè.»
«Non ci pensare proprio, tra mezz’ora l’infermiera la riporta.»
«E quindi?»
«Sandro, sono così stanca…»
«D’accordo. Dimmi a che stavi pensando.»
«E tu?»
«Sabrina, Giovanna. Lavinia.»
«Più corto?»
«Chiara, Luisa.»
«Sono tutti così…»
«Ovvi?»
«Sbagliati.»
«Sbagliati in che senso?»
«La prenderanno in giro per forza.»
«Sennò c’è Alessia.»
«Torniamo alle dive.»
«O alle muse?»
«Un’eroina!»
«Di un libro?»
«Ma no, di un Paese…»
«Altrimenti Asia.»
«O un aggettivo?»
«Serena? Celeste?»
«Detesto le mode. E il primo dell’anno.»
Andò avanti così per mezz’ora. Poi tornò l’infermiera. «Allora» esordì, «che avete deciso?»
«Guardi, in realtà…»
«Dite pure.»
«Per farla adottare come funziona?»
Eva Luna Mascolino (1995) edita, traduce, recensisce, insegna e scrive storie. Vincitrice del Campiello Giovani nel 2015, si è specializzata alla SSLMIT di Trieste e frequenta ora il master in editoria di Fondazione Mondadori. Sui racconti sono apparsi su Fillide, Crack, Risme, Narrandom, Sulla quarta corda, Malgrado le mosche e Il Loggione Letterario.
Un racconto di Gabriele Esposito
Numero di battute: 2500
Cammina e la guardo camminare. Carnaio mattutino in corso: la lana dei doppiopetti passa da un capo all’altro strusciando nella folla, a produrre un miele millefiori da nulla.
Sorride e la guardo sorridere. Priva di rimmel china il capo al passaggio d’ogni quadro in cravatta. In cambio un gesto identico, poi di nuovo il calpestare continuo del marciapiede. Mocassini perduti nei propri pensieri.
Saluta, la guardo salutare. Lui si ferma e subito è sedotto dalla camicetta bianca, l’espressione pulita: raggio di luna.
Vanno via mano nella mano. Li guardo andar via, mano nella mano. Buio.
Sono le otto del mattino, alba pendolare del domani. Lei è sempre lì: cammina e la guardo camminare.
Le passo davanti nel mio completo blu, la sento dire ti amo, mi fermo; anch’io ti amo.
Veste da collegiale, la gonnellina: brilliamo. Andiamo via mano nella mano.
«Andiamo via
mano nella mano.»
Vuole cento euro, valgono le dodici ore della giornata: noto che c’è inflazione, malgrado gli interessi della banca centrale immobili da mesi: il mutuo è sempre quello, mangio la stessa roba ogni sera, continuo a pagare le serie TV il loro prezzo, lo stesso da anni. Eppure su di Lei non tratto. Cinque pezzi da venti, il taglio preferito: rettangoli dall’altezza contenuta, abbastanza per entrare nel suo piccolo portafoglio.
Io guardo avanti, Lei guarda me. Sorride. Giro la testa verso di Lei, la guardo sorridere. Camminiamo alla cieca perduti l’uno nell’espressione dell’altra. Ti amo. Anch’io ti amo.
La porto a fare colazione alla tavola comune: il caffè è caldo e amaro, i pani al cioccolato sono francesi. Sediamo al centro: alla mia destra un cinquantenne con il laptop, alla sinistra una ragazza e i suoi appunti. Lo stesso, per simmetria, vicino a Lei.
Mi fissa. La guardo fissarmi.
Il suo palmo solletica il mio mentre beve il caffè in due sorsi: niente macchie di rossetto sulla tazza. Le labbra di Lei sono rosa color pelle.
Le parlo di me. Mi ascolta.
Mi parla di lei. Chiudo gli occhi, la ascolto.
Lou Reed canta una giornata allo zoo, una serata al cinema: così facciamo noi e poi sì: la riaccompagno a casa. Davvero, un giorno perfetto. Sulla porta mi sorride un’ultima volta. La guardo sorridere l’ultima volta, schioccano le guance. Buonanotte amore mio. Buonanotte.
Prendo il bus e torno a casa. Gioco con l’iPhone, apro Tinder: faccio un bel match con una nuova: Katia. Gran pere, madonna. Madonna che pere. Domani accetta di vedermi: vedermi nudo, vedermi addosso, vedermi gratis. Per il resto devo pagare, e per fortuna c’è Lei.
Gabriele Esposito (1983) ha un dottorato in Economia ma anche un diploma da cineasta. Si diletta con l’animazione a passo uno e la plastilina. Il suo romanzo Giocattolosa è apparso a puntate sulla rivista Malgrado le mosche. Suoi racconti sono o saranno pubblicati da Malgrado le mosche, Sulla quarta corda, Altri Animali, Micorrize, Risme, efemera, Narrandom e Bomarscé.
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