Un racconto di Elena Marinelli
Numero di battute: 2414
«Ma ce lo facciamo un bagno?» le domandavo quando ero certa che fosse a buon punto.
«Non oggi» mi rispondeva, come se fossimo ancora nel tempo esausto.
L’indomani sarebbe stata una nuova stagione, ma il primo giorno d’estate cominciava con noi due da sole che guardavamo in faccia l’est a pieni occhi, ma, mentre lei li chiudeva distesa e con il sorriso, io mi coprivo con il palmo.
«L’indomani
sarebbe stata
una nuova stagione.»
Mia mamma non aveva paura del sole; le bastava assaggiare l’aria salmastra delle sette, per far finta che quel giorno preparatorio fosse un giusto prezzo da pagare. Di colpo, quando li riapriva, passava al giro di ricognizione: faceva i conti con la salsedine di un anno, controllava lo stato dei mobili e dei materassi e dopo o si rilassava o si accigliava di più, mentre trascinava in casa tre bacinelle di prodotti per pulire ogni sorta di superficie, e sulla spalla lo zaino per me.
Dal terrazzino, annotavo i movimenti ogni anno uguali, ascoltando il silenzio arrivare dall’orizzonte che poi diventava rumore delle onde e infine ritmava il pomeriggio con più forza, infrangendosi nella sera. Dal terrazzino, sapevo che a un certo movimento corrispondeva una porzione di casa bonificata, in cui potevo sostare se avevo voglia, su cui potevo stendermi se avevo bisogno.
La osservavo dal tavolo tondo con le scanalature, mentre facevo i compiti delle vacanze e lei grattava, ingaggiando la lotta ripetitiva contro le necessità del mare: la salsedine, l’acqua, il sole, tutto ciò che faceva di quella casa il posto eletto delle vacanze estive era per mia madre il nemico da eliminare: combatteva con l’idea del mare ogni primo giorno d’estate.
Osservando il sudore e la fatica, i compiti mi parevano di colpo facili, veloci, passavo da matematica agli esercizi di lettura e anche se il punto era che dovessero durare fino a settembre, la maestra si raccomandava, io sposavo l’idea di finire il prima possibile: lei con le faccende, io con la scuola.
Non ci meritavamo di passare l’estate sotto i doveri; dovevano finire al massimo in un giorno, il primo, era la nostra impresa prediletta, per potercene poi dimenticare e goderci il resto: il sole, i bagni, gli amici, le sbucciature curate con la tintura di iodio. Mi fomentava per finire tutto entro metà giugno, e il primo giorno d’estate era sempre l’ultimo dell’inverno, del freddo e della neve. Della vita chiusa, il purgatorio che raggiungeva l’apice il primo giorno d’estate.
Elena Marinelli è nata in Molise vicino a un passaggio a livello, ma da diversi anni vive a Milano. Legge i libri degli altri per ilLibraio.it e scrive di tennis femminile su L’Ultimo Uomo. Ha scritto Il terzo incomodo (Baldini+Castoldi, 2015) e Steffi Graf. Passione e perfezione (66thand2nd, 2020). (La sua versione in bianco e nero è opera di Eleonora Festari.)
Un racconto di Matteo Ruffini
Numero di battute: 2456
Teresa mi guardò, immersa nel silenzio del salone di casa sua. Sedeva non troppo lontano da me e, senza mai alzare il capo, beveva piccoli sorsi di caffè, facendo attenzione a non ustionarsi la lingua. Non poteva dirsi anziana; credo che avesse poco più di sessant’anni. Eppure, quell’appartamento era intriso dell’odore delle case dei vecchi, del brodo di carne che tutti i giorni sobbolliva sul fornello della cucina.
«Roberta arriverà a momenti» disse, guardando l’orologio.
Io le sorrisi con un filo di imbarazzo, senza trovare parole che potessero riempire il silenzio. Poi, per ingannare l’attesa, mescolai rumorosamente il caffè, facendo schioccare il cucchiaio contro la porcellana. L’orologio segnava le nove.
«Lo avete venduto?»
Teresa mi guardò senza capire.
«Il pappagallino» precisai, indicando la gabbia per uccelli che giaceva sul pavimento ricoperta da un lenzuolo pesante.
«No, non l’abbiamo venduto» rispose. Poi, dopo aver abbassato lo sguardo, riprese: «È ancora lì dentro, ma non canta più».
«E non soffre,
sotto il lenzuolo?»
«Al buio?»
Teresa annuì.
«E non soffre, sotto il lenzuolo?»
«Abbiamo sofferto tutti, è giusto che soffra anche lui un poco» disse, guardando di sbieco la gabbia. Poi, si levò in piedi e si versò una seconda tazza di caffè. «Ne vuoi ancora? Roberta dovrebbe arrivare a momenti.»
Comprare quel pappagallo era stata un’idea di Mario, suo marito, il padre di Roberta. L’aveva portato a casa un giorno d’estate, meno di un anno prima. Poi, una settimana dopo, si era schiantato con l’automobile in autostrada; era morto sul colpo.
«Ora non vola nemmeno più. Si è strappato tutte le penne delle ali» riprese Teresa.
«Forse perché sta al buio.»
«Può darsi. Hai detto che non vuoi un altro caffè? Roberta dovrebbe arrivare a momenti.»
Aspettammo ancora qualche minuto; di quando in quando, i sospiri di Teresa interrompevano il silenzio. Poi, senza cercare di intavolare alcun discorso, riprendeva a sorbire il caffè.
«Potreste pensare di venderlo.»
«Il pappagallino?»
«O di liberarlo.»
«Morirebbe presto. È un ricordo, ci sono affezionata.» Poi, ancora silenzio. «Ora ha perso pure le penne delle ali, non vola più.»
«Forse perché sta al buio.»
«Può darsi. Ecco, arriva Roberta.»
E con il capo indicò finalmente la figlia, pronta per uscire. Io, come sempre, mi congedai con sollievo. Uscendo di casa, presi la mano di Roberta e passammo accanto alla gabbia. Avrebbero fatto meglio a venderlo, pensai; o a liberarlo; sarebbe morto presto comunque, in un caso o nell’altro.
Matteo Ruffini è nato a Milano, ha trentadue anni e vive a Berlino. Laureato in Matematica, lavora come ricercatore nel campo dell’intelligenza artificiale.
Questo è il suo primo racconto.
Un racconto di Barbara Marunti
Numero di battute: 2441
Il vecchio Kobayashi ha messo su Donny Hathaway.
Due americani fanno caciara e Kobayashi li caccia in malo modo. Suo il locale, sue le regole.
La prima regola è: non si fa caciara quando sul giradischi c’è Donny Hathaway.
«Non avrei mai immaginato di poterti rivedere a Shibuya.»
«A dire la verità, è la terza volta che torno. Ho pensato di chiamarti, ma devo aver perso il tuo numero qualche telefono fa.»
«Se fossi vanitoso ti chiederei se sei tornata al Soul Club per me.»
Il Soul Club Shibuya funziona così da quarant’anni: sali le scale, suoni il campanello, metti cinquecento yen sul bancone e Kobayashi ti versa in fretta un po’ di Jameson per ritornare al suo giradischi, mugolando a occhi chiusi i suoi blues storpi.
«Se fossi vanitoso ti chiederei se sei tornata al Soul Club per me.»
«Io sono venuto qui tutte le sere, come allora. E il vecchio continua a essere stronzo come allora.»
«La gente viene apposta per farsi trattare male da Kobayashi. Anch’io sono tornata per nostalgia dei suoi rimbrotti.»
«Ti ricordi quando venivamo qui di nascosto dopo la scuola e il vecchio non ci voleva dare da bere?»
I ventimila vinili di Kobayashi, nelle loro foderine di plastica, luccicano in ordine alfabetico da ogni angolo del bar, belli della bellezza greve degli oggetti.
Kobayashi ancora accumula dischi, incurante dell’età, come se gli fosse rimasto tempo per ascoltarli.
«A volte mi chiedo se Kobayashi sappia a chi lasciare tutto quando creperà. Se non ha già fatto testamento, mi propongo io come suo erede.»
«Così ti ritroveresti tu col problema di decidere a chi lasciare tutto, quando avrai l’età di Kobayashi.»
«Dai per scontato che non avrò un erede a cui lasciare le mie cose. D’altronde, è finita proprio per questo, no?»
«Scusami.»
«Non ti scusare. Un musicista non è un buon partito.»
«Era bello suonare insieme. Purtroppo il mondo funziona diversamente. Se suonerai a Ōsaka, comunque, verrò a vederti.»
«Non sono ancora così bravo perché mi chiamino fin da Ōsaka. Ma vorrei tanto suonare di nuovo per te. Come allora.»
Kobayashi sguscia un altro disco. Gli terrà compagnia per le prossime due ore.
«Questi dischi alle pareti mi angosciano. Pensavo che rivedere i vecchi dischi di quando eravamo ragazzi mi avrebbe messo allegria, come allora. Invece sono solo vecchi dischi, e domani saranno spazzatura da robivecchi. Dopo una certa età gli oggetti sono zavorre. Sanno solo rimproverarci le strade che non abbiamo preso.»
«Già così malinconica senza aver ancora bevuto?»
«Non posso bere. Sono al terzo mese.»
Barbara Marunti (1989) vive e lavora nel senese. Laureata in Chimica e Tecnologia farmaceutiche, nelle pause dal lavoro studia Mediazione linguistica (cinese, giapponese) all’università per stranieri di Siena e Canto lirico al conservatorio di Firenze. Suoi racconti sono stati pubblicati su inutile, L’Ircocervo, Bomarscé, Rivista Blam e Narrandom.
Un racconto di Alessandro Mascia
Numero di battute: 2455
Per anni avevo frequentato da solo il divano davanti al televisore. D’inverno con una coperta sulle gambe, il gatto sopra. D’estate senza coperta, il gatto sopra. Quando è arrivato il piccolo Michele le abitudini di famiglia si sono rimescolate. Dormiva poco la notte, di giorno giocava continuamente con una pallina. Ma il tempo per spegnermi davanti al televisore lo trovavo quasi tutte le sere.
Michele aveva trovato posto sul divano accanto a me, guardava partite di calcio, una di seguito all’altra. Frequentava tutti i giorni un gruppo di giovani calciatori scalmanati in un campo vicino casa. Si era iscritto a una squadretta locale, tornava rosso in viso.
Un giorno mi dissero che aveva talento. Lo avevano soprannominato Agonia per una partita in cui aveva fatto così tanti tiri in porta da mandare il portiere nel pallone.
«Un giorno mi dissero che aveva talento.»
Sopra il televisore c’era un pensile che conteneva una serie di libri colorati. La prima coppa l’aveva sistemata davanti a quei libri, la seconda pure. Dopo qualche anno, sopra il televisore c’era un pensile e una serie di coppe.
Le domeniche filavano via senza di lui, non raccontava niente delle sue imprese, ne parlavano gli altri. Io e mia moglie non sapevamo se andarne fieri o far finta di nulla come sempre. Forse la sua forza era legata proprio alla nostra distanza dal mondo del calcio. Il giorno che aveva portato una proposta di contratto volevamo opporci. Ma siccome non eravamo stati noi i responsabili dei suoi esordi, non volevamo esserlo nemmeno di una sua interruzione.
L’aereo partiva all’alba. L’incertezza gravava sopra i nostri volti assonnati. Il ragazzo aveva chiuso tutta la sua vita in un borsone. Agonia ha preso il volo per dare calci a un pallone lontano da casa.
Incontravamo i genitori dei suoi ex compagni di squadra. Ci dicevano grandi cose. Dovevamo essere felici. Che invidia, un figlio scelto, farà carriera. Eravamo rimasti in agonia - sembra il destino di un soprannome - a cercare di infilare di nuovo il filo dentro la cruna dell’ago per ricucire gli strappi esistenziali.
Agonia era stato intervistato da un giornalista sportivo. L’avevamo visto per caso guardando il telegiornale. Aveva una maglia rossa e una barbetta accennata. Com’era diventato grande. Dovevamo andarne fieri. Invece ci sentivamo soli senza la sua agitata compagnia.
Avevo ricominciato a spegnermi davanti al televisore. D’inverno con una coperta sulle gambe, il gatto sopra. D’estate senza coperta, il gatto sopra.
Alessandro Mascia nasce a Cagliari nel 1976. Si è laureato in Chimica, ma non avrebbe mai pensato di legare la sua vita professionale solo all’elemento numero 16: lo zolfo. Ne produce, è il caso di dirlo, in quantità industriali. Tuttavia ha il tempo per leggere tanta narrativa in varie formulazioni. E per scrivere racconti, alcuni dei quali sono stati pubblicati. C’è chi li ha letti su un quotidiano, chi su una rivista, chi su un libro.
Commenti recenti