Un racconto di Giuseppe Tursi
Numero di battute: 2158
Entrai al bar Delfi con mia moglie una mattina d’inverno. All’interno c’era poca gente, mentre lei si accomodava al solito posto, di fianco alla finestra, io ordinai due caffè e la raggiunsi.
Mia moglie prese il giornale appoggiato sul tavolo e iniziò a sfogliarlo. Io guardavo fuori, verso la strada. Fiocchi di neve volteggiavano come piume e iniziavano a ricoprire la superficie dell’asfalto. Mia moglie commentava ad alta voce le notizie più importanti della giornata. C’era stato un incidente non so dove, e qualcuno doveva essere stato arrestato per un motivo che non mi degnai di ascoltare.
La porta dietro le mie spalle si aprì. Una ventata di aria gelida mi colpì il collo poi ridiscese verso il basso, facendomi rabbrividire. Il ticchettio delle scarpe si allontanò dalla porta che si richiuse. La scia di profumo, che seguì la persona appena entrata, mi ricordò Letizia.
«Hai ragione, amore.»
Mi voltai. Dalla mia posizione riuscivo a vedere solo le sue spalle. Dai lineamenti sottili poteva essere lei, ma non ero certo. La donna ordinò qualcosa, la sua voce fu inghiottita dal tintinnare delle tazze e dal vociare delle persone.
Il barista, prima di servire la donna, ci portò la nostra ordinazione. Mia moglie spostò il giornale, e sciolse lo zucchero nel caffè. Io mi voltai un’altra volta, la donna aveva la testa rivolta verso il basso, sul cellulare.
«Guarda che se aspetti si raffredda» disse mia moglie.
«Hai ragione, amore» risposi.
Erano tre anni che non vedevo Letizia. Me la sognavo ancora di notte. Volevo vedere i suoi occhi, le sue labbra e dirle che non ero più lo stupido di un tempo, quello che si era lasciato scappare l’amore della sua vita.
Mia moglie mi parlava, ma la sua voce perdeva di consistenza. Avevo aguzzato i miei sensi per cercare di captare dei movimenti familiari della donna. Sentii che cercava delle monete nel portafoglio, poi salutò e si avviò verso l’uscita. Era il momento giusto per vederle il viso, ma proprio quando mi stavo per voltare, mia moglie mi afferrò la mano e l’appoggiò sul suo ventre. «Senti come si muove» disse.
La porta alle mie spalle si aprì e, mentre la scia di profumo mi inebriò, sentii mio figlio scalciare.
Giuseppe Tursi (1988) è nato a Bari ma è cresciuto a Bologna. Nella vita fa l’operaio, le sue passioni sono la lettura e la scrittura. Ha pubblicato un racconto sulla rivista Blam e collabora con il sito Thrillernord.it
Un racconto di Ottavia Marchiori
Numero di battute: 2495
Fuori dal consultorio il buio precoce da orario solare ha già consumato i bordi del pomeriggio fondendosi con gli strati di caligine accumulata sui palazzi, sulle auto parcheggiate lungo il viale, sui tigli strozzati dallo smog. Il freddo non è d’aiuto, anzi. Avrei fatto meglio a usare i bagni dell’ambulatorio appena finita la visita ma non volevo rimanerci un minuto di più, là dentro. Tutto quello che voglio è andare a casa.
Alla pensilina dei bus c’è una donna di mezza età, i capelli color mandarino, aggrappata al suo trolley per la spesa. Urla parole piene di consonanti dentro al suo cellulare mentre il pannello alle sue spalle dice che il sette arriva tra tre minuti.
«Tutto quello
che voglio
è andare a casa.»
La vescica mi si tende in uno stimolo continuo da giorni. È normale nelle prime settimane, ha detto il dottore. Sposto il peso del corpo prima su una gamba poi sull’altra, in una danza sbilenca e propiziatoria per non farmela addosso, le suole delle Dr. Martens che scrocchiano sul catrame. Sono quelle che mi hai regalato tu. A mia madre ho detto che me le ha prestate Cecilia, una che fa l’ultimo anno al liceo ma in un’altra sezione. Cecilia, da un po’ di tempo a questa parte, mi presta un sacco di cose senza saperlo.
La sagoma del sette si avvicina, si ferma a inghiottire me e la signora col carrellino poi torna a riallinearsi alla scia luminosa del traffico. Mi lascio cadere su uno dei sedili in fondo, guardo fuori ma il vetro mi restituisce solo il mio riflesso. A quest’ora sarai ancora in ufficio. Ti mando un WhatsApp, dimmi quando posso chiamarti. Avrei bisogno di un tuo abbraccio, adesso, ma con te è sempre per favore, permesso, è tutto un calibrare tempistiche, cesellare equilibri. Saper aspettare, saper stare al mio posto, inventare balle per far sega a scuola. Dopo le otto di sera, niente messaggi per carità, che non si sa mai. Ci vediamo solo alla luce del giorno, che ironia. Anche se poi rimane trattenuta dalle tende di una camera di qualche motel fuori città.
Il bus sa di gomma bruciata, conto le fermate che mancano e quando non ne manca più nessuna, mi metto a correre verso casa. Mia madre non è ancora rientrata, meglio così. Mi chiudo in bagno, piscio vetro e chiodi ma poi provo un enorme sollievo. Il cellulare vibra sul lavandino, sei tu che scrivi scusa, stasera non ho proprio tempo, ho una cena dai miei suoceri. Sergio Ufficio Acquisti ti risponde: chiamami per favore domani, appena puoi, dobbiamo parlare. Visualizzi e tutto quello a cui ho diritto è un pollice in su.
Ottavia Marchiori è nata a Broni (PV) nel 1980. Vive a Parma dove si è laureata in Lingue e Letterature straniere. È stata ideatrice e curatrice di un blog letterario dedicato a Jean-Claude Izzo. Suoi racconti sono inclusi nelle raccolte Una giornata di Hemingway in val Trebbia e Incontri ravvicinati di un diverso tipo (Officine Gutenberg) e Cinquantatré vedute del Giappone (Idrovolante). Altri racconti sono pubblicati o saranno pubblicati su Il Timoniere, Cedro Mag e Rivista Blam. Alcuni suoi componimenti sono stati pubblicati nelle antologie Haiku tra meridiani e paralleli – V stagione (FusibiliaLibri) e Poesie di Strada (Idrovolante). È collagista e alcune sue opere sono ospitate su Verde.
Un racconto di Martin Hofer
Numero di battute: 2407
Uno di noi guida nella notte con un braccio fuori dal finestrino, l’altro non ha mai preso la patente. Uno di noi accelera quando scatta l’arancione, l’altro si aggrappa forte alla maniglia. Uno di noi cerca le sigarette rovistando alla cieca nel cruscotto, l’altro sta cercando di smettere. Uno di noi si fa la barba da un pezzo, l’altro è glabro. Uno di noi copre la bocca quando ride, l’altro mastica sempre a bocca aperta. Uno di noi evita il contatto visivo, l’altro non chiede mai permesso.
Uno di noi accende l’aria condizionata, l’altro fa notare che con il finestrino abbassato non serve a niente. Uno di noi ha scelto il dove, l’altro il chi. Uno di noi afferma di avere le prove che Dio non esiste, l’altro preferisce non approfondire. Uno di noi porta l’apparecchio mobile, l’altro lo ha chiuso anni fa in un cassetto che non ha mai più riaperto. Uno di noi accosta vicino al marciapiede, l’altro gira la manovella e abbassa il finestrino. Uno di noi ha perso il padre quando era piccolo, l’altro il cellulare nuovo una sera che era sbronzo. Uno di noi continua a guardare la strada come se stesse ancora guidando, l’altro sporge il collo fuori dal finestrino.
Uno di noi crede nel Destino, l’altro nella sfortuna. Uno di noi ha un canino scheggiato, l’altro un’unghia incarnita.
«Uno di noi
crede nel Destino.»
Uno di noi ha piagnucolato questa sera, l’altro ha respirato forte dal naso. Uno di noi ha detto Che abbiamo fatto? Cosa hai fatto?, l’altro ha lasciato partire un bel ceffone.
Uno di noi ha inserito la retromarcia, l’altro ha aiutato a fare manovra. Uno di noi ha alzato a tutto spiano l’autoradio, l’altro l’ha abbassata con un gesto categorico. Uno di noi ha bofonchiato Ecco, è la fine, l’altro ha pensato Ma se abbiamo appena cominciato. Uno di noi ha riacceso l’autoradio e ha cantato la canzone che stavano trasmettendo inventando le parole, l’altro è scoppiato a ridere.
Uno di noi ha ammesso Mi è venuta un po’ fame, l’altro ha buttato lì una proposta. Uno di noi ha accostato di fronte al furgoncino dei panini, l’altro ha cercato il portafoglio nello zaino.
Uno di noi ha tirato dritto, l’altro si è girato per un istante verso il bagagliaio. Uno di noi ha ordinato, l’altro ha occupato il tavolo. Uno di noi ha preso un panino con la salsiccia senza cipolle, l’altro pure. Uno di noi ha fatto canestro con la cartaccia unta del panino e ha detto Così va meglio, l’altro ha annuito, poi ha mancato il secchio.
Martin Hofer (1986) è nato a Firenze e vive a Torino. È stato finalista a Esor-dire (2012) e ha partecipato a tre edizioni di 8x8 (2015, 2017, 2018). Suoi racconti sono apparsi sulle riviste Colla, Cadillac, Flanerì, Verde, inutile, Pastrengo e Friscospeaks. Lavora come ufficio stampa in ambito editoriale. Ha fondato e dirige insieme a Bernardo Anichini L’Inquieto, rivista online di racconti illustrati.
Un racconto di Irene Bonino
Numero di battute: 2391
L’ultimo giorno d’estate il cielo continuava a cambiare forma dietro le persiane mentre un vento metallico alzava le foglie da terra e le gettava contro gli alberi e sulla strada. Tutto quello che fino a poco prima splendeva nel sole adesso era nudo nella luce grigia, le case coi muri vecchi, le macchie di cespugli nella valle, la terra bianca che si ammucchiava contro il cancello.
Da qualche mattina l’aria era fredda e il tramonto si spegneva prima dietro le montagne.
La valigia chiusa accanto alla porta le lasciava il tempo di preparare un caffè – quello per lui lo coprì col piattino della tazza per non farlo raffreddare – e di versare gli occhi sullo schermo del telefono. Cancellò due settimane di fotografie cominciando dalla sua preferita, quella di loro due in Vespa. Lei lo abbracciava da dietro e nel cielo ancora chiaro brillava già una piccola luna bianca.
Ne aveva scattate tante perché le piaceva, in quei pochi giorni, guardarle facendo finta che fosse la sua vera vita: d’altra parte erano le sue foto, e l’uomo che stava facendo la doccia prima di accompagnarla in stazione era stato, in tutte le immagini, accanto a lei, mai più distante di un braccio.
«Tra poco, invece, sarebbe stato lontanissimo.»
Tra poco, invece, sarebbe stato lontanissimo: lui e la sua casa a metà di una collina, la loro piccola confidenza. Così lontano che in certi giorni di novembre, davanti al computer o sulla strada per il supermercato, le sarebbe sembrato vagamente irreale. La storia che aveva inventato per stare via di casa, con i dettagli, le coincidenze e gli aneddoti che la rendevano credibile, sarebbe diventata familiare come le cose ripetute molte volte e, alla fine, abbastanza vera.
Il treno partiva alle dieci e qualcosa, e anche il resto era prevedibile: i saluti fuori dalla stazione, una schiena che si allontana, il peso improvviso della valigia nella mano. Ma, pure dentro quel senso di fine di tutto, sarebbe rimasta una donna composta: avrebbe letto un libro seduta dritta e guardato dal finestrino la campagna che diventava città. In certi momenti il vetro le avrebbe restituito il riflesso della sua faccia e lei l’avrebbe usato per aggiustare l’espressione di chi ha lavorato molto e finalmente torna a casa. Sapeva, mentre finiva il caffè, che sulla banchina avrebbe cercato la testa chiara di suo marito in mezzo alla gente. Stava per cominciare l’autunno, e lei avrebbe preso fiato, e sarebbe scesa sorridendo.
Irene Bonino è nata ad Asti nel 1983 e vive a Milano. Laureata in Giurisprudenza, giornalista, ha collaborato con diverse testate e ora si sta dedicando a un romanzo.
Le piace scrivere da quando ha imparato a farlo.
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