Un racconto di Susanna Verni
Numero di battute: 2500
Era stata una pessima settimana per D., e doveva ricordare a se stesso di essere fortunato.
Per D. il cinema horror era un’enciclopedia di disgrazie che non gli erano mai capitate. I film di paura gli facevano ritrovare un rinnovato senso di gratitudine per la sua vita e lo rassicuravano come un abbraccio inaspettato dopo una lite.
A cena ne parlò con Marta, che nonostante detestasse la paura amava D. più di ogni altra cosa, e non sopportava di vederlo con quel suo umore indecente. Marta e D. si amavano da molti anni e condividevano un’empatia soprannaturale, che li costringeva a desiderare l’uno la serenità dell’altro, costi quel che costi.
«Era stata
una pessima
settimana per D.»
Solitamente D. sceglieva il film in base alle sue esigenze, ma quella sera la sua mente era troppo annebbiata per poter decifrare la giusta trama per il suo cruccio. Da quando aveva scoperto il benefico effetto dei film dell’orrore, era riuscito a individuare quali macabre sventure meglio risolvevano un particolare malessere. A corto d’idee, decise di ripescare un classico dal suo archivio, l’intramontabile storia di un killer seriale che trucida persone innocenti.
Dopo cena Marta e D. si spostarono in salotto. Le finestre che di giorno registravano la cronaca del giardino, al buio trasmettevano la replica sbiadita delle loro serate; tuttavia quando guardavano quei film, Marta ordinava a D. di chiudere le tende e serrare quel portale di suggestioni che l’avrebbe tormentata fino alla camera da letto.
La tensione architettata dal regista molestava la sensibilità di entrambi, e se Marta si concentrava su dettagli insignificanti pur di smorzare l’inquietudine, D. iniziava ad avere buoni motivi per sentirsi meglio. Era sollevato che la sua macchina non si fosse mai guastata mentre percorreva un bosco di notte, ed era sollevato che non avesse mai dovuto alloggiare in un albergo semideserto, di cui i giornali riportavano misteriosi omicidi da oltre un decennio. Finora la sua esistenza era riuscita a sorpassare le oscenità del caso, senza mai inciampare in quel terribile scenario.
Dopo settantasei minuti il film raggiunse lo zenit. Marta soffocò il viso in un cuscino, isolandosi in una dimensione di piume e attesa. D. guardò la lama dell’assassino affondare nella carne di quell’innocente, e da ogni ferita inflitta uscivano lapilli di sangue. Si sentì improvvisamente debole, ingoiò saliva dal sapore ferroso. Marta gli chiese se fosse tutto finito, D. si voltò a guardarla.
Era così contento di vedere che si era salvata anche lei.
Susanna Verni è nata a Cattolica nel 1988, e dopo aver provato a vivere a diverse latitudini europee, nel 2017 ha scelto Bologna come casa. Lavora come ufficio stampa, prova a scrivere per il cinema.
Un racconto di Mattia Cecchini
Numero di battute: 2140
Dalle nuvole grigie, a forma di pugno, piovevano grosse gocce fredde. La terra era fradicia, un tappeto di fango trapuntato di pozzanghere. Il cortile era circondato da basse staccionate sbilenche, e in fondo, crivellato dai proiettili, svettava come un gigante il muro delle esecuzioni.
L’impiegato Panne teneva la fronte schiacciata contro il muro e le mani, legate dietro la schiena, erano gelide e senza unghie. Si voltò piano da una parte, in fila accanto a lui c’erano vecchi, donne, bambini; si voltò dall’altra parte, e c’erano storpi, uomini, disertori.
Il vento soffiava freddo contro i condannati, gli gonfiava le casacche zuppe e poi gliele appiccicava al corpo. Alle loro spalle arrivò il plotone d’esecuzione, accompagnato dai latrati dei cani lupo al guinzaglio. I soldati si posizionarono un metro l’uno dall’altro e sferragliarono con i fucili. Erano quasi pronti a sparare.
Dal fondo della fila dei condannati, il generale Zaniero marciava verso la cima. Era chiamato la Bestia del Diavolo.
Appoggiava il frustino sulla spalla di uno: «Lui sì», passava a quello successivo: «Lui no», poi quella dopo: «Lei sì, lui no, lui sì». Indicava uno per uno chi doveva essere fucilato.
«Era chiamato
la Bestia del Diavolo.»
Il generale Zaniero si avvicinava all’impiegato Panne, e giunto alle sue spalle disse: «Lui no», passò allo storpio accanto: «Lui sì, lui no», e ancora: «Lui sì, lui no, lui sì».
Raggiunta la cima dei condannati, il generale Zaniero infilò il frustino nella cintura, si piantò dritto alla sinistra dei suoi soldati e urlò:
«Puntate! Mirate!».
Il plotone scoppiò a ridere, una grassa risata cariata.
L’impiegato Panne si era pisciato addosso, ma forse non ridevano di lui. Allo storpio accanto, troppo smagrito, erano caduti i larghi pantaloni, e mostrava a tutto il plotone il culo flaccido e raggrinzito.
Il generale ammutolì i suoi soldati, gli bastò un cenno della mano, e comandò a uno di tirare su i pantaloni allo storpio. Quello eseguì di corsa, e quando stava per tornare al suo posto il generale aggiunse:
«Fai in modo che non caschino più».
Allora il soldato legò una corda attorno ai fianchi dello storpio, e tornò in posizione. Pronto a sparare.
Mattia Cecchini (1992) si trasferisce a Berlino nel 2017. Lavora in un ospedale vicino allo zoo e partecipa a vari laboratori di scrittura creativa. Nel 2020 un suo racconto è stato selezionato tra i vincitori del Concorso letterario Racconti Umbri, e nel 2021 sono apparsi altri suoi racconti su Rivista Blam e Split. Nella sua libreria ci sono (quasi) tutte le opere di Dostoevskij, D.F. Wallace e Pontiggia.
Un racconto di Federica Di Gloria
Numero di battute: 2481
Prendo le sigarette, dice, e con uno scatto del pollice aziona la freccia. Vedo il riverbero giallo sul guardrail di destra mentre la scritta “Dorno Est” mi schizza accanto. Imbocchiamo la rampa senza quasi rallentare, e il paesaggio lunare del parcheggio ci risucchia come una navicella di ritorno dallo spazio. Attendo uno schianto che non arriva.
Paolo scende e sbatte lo sportello, lo guardo sparire nell’edificio. Sembra una freccia, Paolo, una punta acuminata lanciata una volta per tutte contro un solo bersaglio. Un’unica traiettoria possibile, dritta, senza deviazioni né pentimenti.
Ora ad esempio sarei scesa con lui, se me l’avesse chiesto. Le coppie fanno così, scendono insieme in autogrill, entrano al bar e scelgono ciambelle di plastica dai nomi americani come se avessero nostalgia dell’Oklahoma, e c’è sempre uno dei due che tiene la mano tra le scapole dell’altro come una fiaccola nella giungla.
Paolo no, non mi chiede mai di scendere in autogrill. Che fare soste non gli piace, dice, che l’autogrill è roba da fessi. A cosa credi che servano tutte quelle caramelle, quei pacchi giganti di qualunque cosa? È così che ti fregano, dice.
«Le coppie
fanno così.»
A me piace, invece. E poi ho fame, e in autogrill fanno il Camogli, che solo a pensarci mi viene voglia di andare. Io poi neanche lo sapevo, che Camogli fosse un posto vero, che fosse un castello sul mare e che quel mare si chiamasse Paradiso, e quando l’ho scoperto ero già al liceo e mi sono sentita un’idiota. Ma quando sei ancora figlio non ti servono mappe e cartine geografiche.
Ci venivamo senza motivo, in autogrill, come si va a passeggio sul lungolago, a guardare lo spettacolo del mondo che passa. Mio padre mi lasciava curiosare da sola tra gli espositori, con la mia borsetta a tracolla, poi fingevamo di incontrarci per caso davanti al bar dove mi dava del lei ridendo e mi offriva il pranzo. Un Camogli per la signorina, per favore. Lo mangiavo in piedi, la fronte schiacciata contro la vetrata del ponte, a guardare le auto scivolare come biglie sotto le nostre suole, masticando sapore di altrove.
Paolo torna in auto e mette in moto senza guardarmi. Vorrei ricordarmi ancora la sua voce, ogni tanto. Telefonargli, magari. “Un giro a Camogli, papà?” E portarlo ancora qui, a Dorno Est, a contare biglie. E farmela spiegare bene, stavolta, quella storia assurda di uscite sbagliate, inversioni e vicoli ciechi.
Paolo accelera, io fisso lo specchietto retrovisore: l’autogrill ci si squaglia dentro in un secondo.
Federica Di Gloria (1974) è nata a Palermo, dove si è laureata in Lettere Moderne. Giornalista, nei suoi primi quarant’anni di vita si è divisa tra cronaca e letteratura. Oggi insegna Lettere in un liceo di Mantova, coordina una webradio studentesca, si occupa di libri e gruppi di lettura a scuola. Ha all’attivo due esperienze di scrittura collettiva: È la stampa, bellezze! (Leima, 2019) e Tina. Storie della grande estinzione (Aguaplano, 2020). Con un suo racconto ha vinto una borsa di studio per un corso della scuola Belleville. Nel tempo libero legge, scrive e ascolta metal.
Un racconto di Francesco Ferrara
Numero di battute: 2500
«Il disegno che hai fatto» dice la maestra, «cosa rappresenta?»
La bambina guarda i cartelloni appesi alle pareti, tamburella con le dita sui braccioli della sedia.
«Sei tu il topolino giallo al centro del disegno?»
«Sì.»
«E cosa fa il topolino giallo?»
La bambina alza le spalle.
«Non lo sai?»
«No.»
«Sta dormendo?»
«No.»
«Si nasconde?»
«Ehm… sì.»
«Dove si nasconde?»
«Qui.»
«Qui, sotto l’albero?»
«Mmm.»
«Perché il topolino si nasconde sotto l’albero?»
La bambina si guarda le unghie. Fa un lungo sibilo con le labbra strette.
«La tua mamma» chiede la maestra, «è il maialino blu?»
La bambina indica il foglio sulla scrivania. «No, questo è il mio papà.»
«È il tuo papà?»
«Mmm.»
«E cosa fa
il topolino giallo?»
«E cosa fa il maialino blu?»
La bambina scuote piano la testa.
«Lo hai disegnato tu, dovresti saperlo. Cosa sono queste?»
«Boh.»
«Boh non è una risposta ammessa.»
«Non lo so, maestra.»
«D’accordo.»
La maestra si volta a guardare l’orologio sulla parete. «Il maialino blu sta forse piangendo?» chiede.
«Sì.»
«Perché piange il maialino blu?»
La bambina si gratta la crosticina sul gomito fino a farla sanguinare.
«Piange spesso il maialino blu?»
«Ehm… sì.»
«Quando il maialino piange, il topolino va a nascondersi?»
La bambina fa di sì con la testa.
«Perché ha paura?»
«No.»
«Perché è arrabbiato?»
«No.»
«E allora perché?»
La bambina guarda in basso, incrocia i piedi, la punta delle scarpe sfiora il pavimento.
«L’uccello grande e nero, qui in alto, è la mamma?»
«Mmm.»
«Cosa sta facendo l’uccello nero?»
«Niente.»
«Niente?»
«Niente.»
«Sei sicura?»
«Sì.»
«Non sta sgridando il topolino giallo?»
La bambina fa di no con la testa.
«Sgrida il maialino blu?»
«No no.»
«Ho capito.»
La maestra si appoggia allo schienale della sedia, tira fuori dal cassetto l’astuccio con i colori. «Disegnare ti piace, non è vero?»
«Mmm.»
«Ti va di fare un altro disegno?»
«No.»
«Non vuoi?»
La bambina arriccia un po’ il naso.
«Vuoi farne uno a casa, me lo porti domani?»
«No, non voglio disegnare più.»
«Come vuoi.»
La maestra rimette l’astuccio nel cassetto. La madre della bambina si affaccia sulla porta, la maestra le fa segno di aspettare fuori.
«Allora non vuoi dirmi cosa fa l’uccello nero?»
«No.»
La maestra fa oscillare la penna tra il pollice e l’indice. «Avvicinati, per favore.»
La bambina si sporge in avanti.
«Se hai qualcosa da raccontarmi, io sono qui, ti ascolto, capisci cosa voglio dire?»
«Ehm… sì.»
La maestra annuisce, lenta.
«Maestra…»
«Dimmi, che c’è?»
«Posso uscire adesso?»
«Sì, certo, la mamma è lì che ti aspetta.»
La bambina salta in piedi. Corre al banco a prendere lo zaino. «A domani, maestra.»
«A domani.»
Francesco Ferrara (1985) tempra il suo carattere nella provincia napoletana più cupa e opprimente. Dopo la laurea in Filologia Moderna, inizia a scrivere per il teatro. Tra i suoi spettacoli Ritratto di uno di noi (2018) e Fog (2020). Ha fondato il collettivo Mind the step. Alcuni suoi racconti sono apparsi su Tre Racconti, Carie, Narrandom.
Francesco Bolognesi è nato in provincia di Ferrara nel 1994. Diplomato alla Scuola Holden e alla Civica Scuola di Cinema Luchino Visconti, lavora come regista. Vive tra Milano e Consandolo (FE).
Ha scritto articoli e racconti apparsi su varie riviste («Undici», «Rivista Studio», «inutile», «Tre racconti») e sull’antologia Questo libro si può anche leggere (Autori Riuniti 2016). Ha esordito con il romanzo Dimenticare nostro padre (66thAnd2nd 2020), finalista alla XXXII edizione del Premio Calvino.
Un racconto di Anna Paola Lacatena
Numero di battute: 2474
16.30.
Quadrifogli, monete, cornetti, dollari. Suona la sveglia.
Vinci.
Giallo, verde. Verde intenso.
Vinci.
Biglietti, piccoli e grandi.
Gioca.
Venghino signori venghino! Divertimento assicurato!
Un biglietto, due, tre. Coccinelle, staffe, mazzette, soldi.
Bonus, premi, regalo.
Gioca.
Gratta.
Vinci.
La recita della bambina. Devo andare. Non iniziano mai in orario. Ce la faccio. Un tesoro, un viaggio, fortuna, miliardi.
50, 100, 1000.
Vinci.
Gratta.
È per sempre l’isola. Donne. Solo donne belle.
Gioca.
Vinci.
Gratta.
Cinque, dieci, venti euro. Verde intenso.
Vinci.
Gioca.
Slot. Videolottery. La leva, i soldi. Tanti. Li devo trovare per vincere. Sono le 17 e 27. Non mi guardare. O giochi o te ne vai! Non me ne frega niente di te. Non me ne frega niente di me.
Gioco.
«Gioca.
Vinci.
Gratta.»
Venghino signori venghino! Divertimento assicurato!
Altro giro. Limoni, ciliegie, prugne e campanelle. 7,7,7.
Vinci.
Scendono le monete. Suonano. Devo andare. La bambina aspetta. Lei è così bella. La recita. Gioco ancora. Solo un altro po’. Schiaccia lo start. Fragole, mele, uva. Fa bene la frutta.
BAR, BAR, BAR.
Ho vinto!
Gioco solo questo. Magari appena un altro po’... Il Jackpot. Dammi il Jackpot.
Basta. Una sola partita. La bambina. Mi cerca in platea. Le dico che ho trovato traffico. Se vinco le faccio un regalo. Sono solo le 18 e 20. Metti altri soldi.
Venghino signori venghino! Divertimento assicurato!
Solo questi.
Gioco.
Non vinco.
Scalda la mano. Conta fino a otto.
Aspetta. Adesso! Schiaccia lo start. Nooo! Non era otto.
Riprovo.
Con la mano sinistra. Metti la moneta ma prima baciala. Dopo questa me ne vado. L’ultima. Decido io. Lei recita, io fingo. Mi trovo giusto per il finale. Applaudo forte. La mia bambina è stata brava. Mi cerca. Sono le 19 e 13. Non è l’ultima partita. Decido io quando. Non ora. Mi porta bene. È nata il 13.
Gioco.
Voglio giocare. Non posso farne a meno.
Perdo.
Perdo e perdo ancora.
Cavolo, solo per un numero. Ci sono andato vicino. Non fa niente se non vinco. Vinco se gioco. Se gioco perdo. Mi sento vivo se vinco o se perdo. Vivo e mi sembra di vincere. Vinco me stesso nel momento in cui perdo. Perdo me stesso nel momento in cui gioco.
Gioco me stesso.
Divertimento assicurato!
Sono le 20 e 11. La mia bambina è a casa. Ho lavorato. Non mi hanno fatto uscire prima. C’ero ma lei non mi ha visto. Bugie. Sono bravo a raccontarle.
Ho vinto ma non ho più soldi.
Sono le 20 e 50.
Vado a cercare altri soldi.
La mia bambina.
Venghino signori venghino!
Anna Paola Lacatena è sociologa e giornalista pubblicista. È autrice dei libri Resto umano. Storia vera di un uomo che non si è mai sentito donna (Chinaski, 2014); Reclusi. Il carcere raccontato alle donne e agli uomini liberi (con Giovanni Lamarca, Carocci, 2017; vincitore del Premio Fortuna e secondo classificato al Premio Nabokov per la saggistica); Il rischio del piacere. Le sostanze psicotrope dall’uso alla patologia (Carocci, 2019). Ha vinto numerosi premi letterari, è stata la più bugiarda d’Italia nel 2014 e nel 2018 (Campionato Italiano della Bugia, sezione letteraria).
Commenti recenti