Un racconto di Giulio Papadia
Numero di battute: 2415
Lungo il fiume, tra due ponti, in una lingua di terra in continuo e incessante modificarsi, la quintessenza della città. Secoli fa vi sorgevano gli argini per contenere le piene, oggi l’area è stata riqualificata concedendo permessi per l’apertura di locali. È il luogo più frequentato dai giovani, nei weekend le notti sono infestate da diecimila anime chiassose. Di giorno, la calma apparente.
Chi ci arriva si aspetta ancora la vecchia città industriale, invece una superficiale opera di bonifica l’ha resa un gioiellino chic: il centro aristocratico s’è fatto il lifting, le periferie sono state spinte sempre più fuori da un immaginario pomerio della decenza.
Nessuna faccia amica nel raggio di chilometri, destinato a non socializzare con nessuno in quella ostile terra straniera spruzzata di torpore decadente. Ero perso fra viuzze insignificanti e vialoni alberati. Pioveva, m’ero riparato sotto un portico annerito dall’umidità.
«Noi giovani,
e avrà avuto il doppio della mia età.»
Mentre me ne stavo per i fatti miei, mi si avvicinò un tale, chiedendomi indicazioni.
«Non sono di qui» latrai.
Il tale, anziché spostarsi altrove, mi strinse la mano, mi ringraziò e attaccò a parlare. Era del Sud come me, diceva, non era abituato a quella babilonia di grande città.
L’uomo, i capelli unticci e gli occhi verdognoli, iniziò a guardarsi indietro. «Hai visto chi c’è seduto al tavolino?» mi fece, indicando il caffè alle nostre spalle. Era l’allenatore della squadra campione d’Italia. Parlava fitto al telefono, mantenendo un tono basso.
«Ragazzo mio, che merda di tempo. Sono arrivato ieri e sto diventando pazzo. Qua sono tutti sciroccati, brutta aria per noi giovani, vattene e non tornare.»
“Noi giovani”, e avrà avuto il doppio della mia età. Saltava da un argomento all’altro, lanciandosi su immaginarie liane di parole. Tutte quelle ciarle mi avevano colpito come un jab di Ali, lasciandomi rintronato. Decisi di troncare lì, e lo salutai col calore che si può riservare a uno sconosciuto.
Mi allontanai, poi quel botto.
Un camion aveva spiaccicato il mio amico, lo aveva travolto e scaraventato lontano quindici metri, più che un cristiano ormai sembrava un sacco dell’immondizia pieno di scarti da macelleria. Avea le cervella a l’aura sparse.
L’allenatore, anziché accorrere sul luogo del sinistro, continuava a sbraitare al telefono. Voleva un’ala destra e un centravanti di manovra, altrimenti si sarebbe dimesso a inizio agosto, all’acme del ritiro estivo.
Giulio Papadia (1994) è salentino. Redattore di Mangialibri, collabora con La Balena Bianca. Ha pubblicato recensioni e saggi su riviste accademiche come Oblio e Sinestesieonline, ma anche su Il Rifugio dell’Ircocervo. Suoi racconti sono apparsi su Spore, Blam, Coye, altri usciranno su Malgrado le mosche e Specularia. Ha fondato la rivista letteraria Salmace.
Un racconto di Matteo Quaglia
Numero di battute: 2212
Senti, sta succedendo davvero.
Ogni mattina mi sveglio dieci minuti prima di quanto desideri per versare il latte a Milli. Milli è la gatta che Samanta non si è portata dietro, sebbene le avesse giurato amore eterno. Io e Milli ci capiamo, sotto questo aspetto, così non mi è mai seccato lottare contro pigrizia e piumone e soddisfare la sete di quella palla di pelo arancione.
Ieri mattina mi accingevo al solito rituale. La sveglia ha vibrato sotto il guanciale (sì, lo so che le radiazioni e via dicendo, ma, per come la vedo ora, le conseguenze di questa brutta abitudine non sarebbero nemmeno il peggio che mi potrebbe capitare. E lo so che si manifesterebbero solo tra qualche anno, quando il Momentaccio sarà auspicabilmente concluso, ma è di adesso che sto parlando), mi sono alzata e, dopo uno sbadiglio, mi sono diretta in cucina.
Non appena ho aperto la porta, Milli mi è saltata sugli stinchi. Lo faceva anche con Samanta, a volte, e secondo la mia ex era il suo modo di dimostrare affetto (io ero solita guardare Samanta, alzare il sopracciglio con fare teatrale e ricordarle che i gatti non nutrono certi sentimenti).
«Senti,
sta succedendo davvero.»
Soltanto che, ieri mattina, Milli non si è limitata a un agguato affettuoso. Il suo è stato, piuttosto, la dichiarazione di una pretesa territoriale. È rimbalzata sui miei stinchi e poi contro il muro e poi di nuovo sui miei stinchi, con tanto di artigli sguainati e soffi graffianti.
Avevo sentito una storia sulla territorialità dei gatti, ma l’unica cosa a cui Milli era sembrata interessata, da quando Samanta ci ha lasciate, era un vecchio pupazzo di pezza, senza occhi. Ogni volta che provavi a toglierle il pupazzo dalla lettiera, Milli gonfiava il pelo sfoderando le unghie. Ecco, ieri mattina è stato come se l’intera casa fosse diventata quel pupazzo.
Non ho avuto molta scelta. Milli ha continuato ad aggredirmi, e visto che non sono mai stata capace di sferrare calci ad alcunché, è da quel momento che sono trincerata in camera, l’orecchio sulla porta. Prima o poi Milli si addormenterà. Quando accadrà, ti avviserò. Sarebbe gentile, da parte tua, se chiamassi per me Samanta e le chiedessi di passare di qui, a casa mia, a versare un po’ di latte alla sua gatta, grazie.
Matteo Quaglia è nato nel 1988 in un piccolo paese del Nordest d’Italia. Ha scritto diversi racconti brevi. Alcuni sono stati o saranno pubblicati su Nazione Indiana, Risme, Narrandom e Bomarscé. Attualmente sta lavorando a una raccolta di racconti.
Un racconto di Paolo Marco Durante
Numero di battute: 2493
Ho tanti rimorsi. Di bene ne ho fatto poco e quel poco l’ho fatto male. Di male ne ho fatto abbastanza e anche quello l’ho fatto male, stupidamente, senza motivo. Da piccoli, al paese, pescavamo le scàrdoe, gli cavavamo gli occhi e le ributtavamo nel lago. Con le lamette tagliuzzavamo le lucertole, ma piano, per farle campare il più possibile. Catturavamo i passeri e li seppellivamo vivi. Uccidevamo i gatti a sassate. Una volta rubai a mia madre la scatola degli spilli e ne infilammo una cinquantina su una rana che in confronto San Sebastiano pareva che godesse.
Siamo belve.
Belve feroci coscienti della nostra incoscienza.
«Siamo belve.»
Al paese c’era lo scemo, come in tutti i paesi. Un vecchio, Antonio era il nome ma lo chiamavano el Tóc. Quando suonavano le campane dovunque fosse si metteva a ballare, poi, quando i rintocchi cessavano, si sedeva in un angolo a piangere, in silenzio, gli usciva solo una frase, piano, sempre la stessa: «Mama, no la smeta de cantar, la prego!». Non beveva, non dava fastidio a nessuno. Ogni giorno andava in piazza alla fermata della corriera, ad aspettare se stesso, diceva, se stesso che era andato a comprar senno.
Un giorno eravamo in tre sul ponticello dietro il canneto, avevamo catturato un vecchio gatto e con un pezzo di corda lo stavamo impiccando. D’improvviso compare el Tóc, capisce subito il nostro gioco e ci strilla di lasciarlo stare quel disgraziato, che «anca elo ’l xe ’n fiòl de Cristo!». E ci tira un sasso. Noi lasciamo cadere la corda, il gatto ormai è immobile, raccogliamo alcune pietre e gliele lanciamo. Lo colpiamo tre volte in testa, siamo bravi a quei giochi.
El Tóc si spaventa, cerca di ripararsi, poi è un attimo, scavalca il parapetto del ponticello e si getta in acqua. Noi ci sporgiamo a vederlo annaspare. Gli gridiamo: «Eh, Tóc, devi noàr, dài! Fa’ el pesse pèrsego!». Dopo tre minuti anche quel gioco finisce. L’acqua è di nuovo immobile. Raccogliamo la corda, diamo un calcio al gatto e ce ne andiamo.
Lo avevano ritrovato dopo più di un mese. Nessuno si era stupito che el Tóc fosse morto affogato, così stupidamente. Non ci furono inchieste. Fine della storia.
Salvo il fatto che io non sono riuscito a dimenticare. Per trovare pace mi illudo che un giorno sia arrivata la corriera, lui abbia incontrato quel se stesso che era riuscito finalmente a comprare un po’ di senno. Allora el Tóc se lo è messo in testa, quel senno, ed è diventato uno come noi, uno dei tanti, non più distinguibile, nascosto tra le belve feroci.
(il corsivo è da un verso di Giorgio Caproni.)
Paolo Marco Durante lavora in città ma vive in campagna. Si occupa di arte contemporanea: gallerie, mostre, cataloghi, testi, ecc. Negli anni è diventato un tipo un po’ solitario e quindi scrive per inventarsi da sé le compagnie che più gli aggradano.
Un racconto di Alberto Ravasio
Numero di battute: 2500
Un pomeriggio di pioggia senza ombrello andai a rifugiarmi in una storica biblioteca del centro, e già che c’ero, in mezzo a tutte quelle inquietanti cassettine cartacee, piccoli feretri di sapienza morta ma illustre, mi venne la voglia, un po’ sconcia, di provare a rispondere a quella famosa domanda ultima che l’uomo si pone da quando era ancora Adamo o una scimmia depilata:
Quel è il senso della vita nell’universo?
Con la tecnica della lettura olfattiva, una sfogliata e via, lessi i greci, sessualmente controversi, lessi i medievali, i primi a dirsi ultimi, e lessi i moderni, anche se a giudicare da certe parrucche a me parevano un po’ datati.
Non erano d’accordo su nulla, ma una cosa era certa: sembravano tutti così convinti, così autisticamente compulsivi nel ripetere il loro algoritmo, e allora, esausto, m’inventai un crampo metafisico e andai in bagno, a far finta di farla, ma solo per guardare le ragazze umanistiche, occhialate e salvifiche.
«Quel è il senso della vita nell’universo?»
E in quel momento, guardando loro che guardavano lui che le importunava, vidi per la prima volta il Fecis, animale mitologico della biblioteca, quarantenne bambino gigante, abbandonato dai suoi proprio lì, nel regno dei libri, perché, incapace di leggere e scrivere, sarebbe stato ulteriormente sabotato nel suo tentativo di ritorno a casa.
Fecis nella vita aveva un obiettivo, quello d’inviare una mail alla sua mamma, una mail che cominciava così: «Ciao mamma sono il Fecis», ma nonostante avesse segnato su un foglietto i due indirizzi mail, dalla mattina alla sera davanti al pc di servizio, col muso concentrato e paonazzo, commetteva sempre lo stesso errore capitale: confondeva l’indirizzo mail con l’indirizzo internet e lo scriveva, una lettera al minuto, nel motore di ricerca. Si cercava sul web e non si trovava, restava deluso e chiedeva aiuto alle ragazze, perché dei ragazzi aveva paura, loro gli spiegavano dove sbagliava, lui faceva sì con la testa vuota, ma sbagliava ancora, ogni giorno così, per il resto della sua sisifea vita d’infortunato mentale.
E pensai, mentre uscivo dalla biblioteca, perché ormai aveva smesso di piovere, che la vita di Fecis era una perfetta rappresentazione dell’uomo nell’universo. L’universo o dio o quello che è, guarda a noi come noi guardiamo al Fecis, pensando che sì, in effetti siamo abbastanza vicini al senso delle cose, ma alla fine moriremo senza aver capito nulla, e per quanto ci sforziamo, ogni nostro cricetesco tentativo è soltanto comico, anche se non sta bene riderne.
Alberto Ravasio (1990) si è laureato in Scienze filosofiche all’università degli studi di Milano. I suoi testi Pornogonia e Le vite sessuali sono stati segnalati al Premio Calvino 2018 e 2020. Suoi lavori in prosa sono apparsi su La Balena Bianca, La Nuova Verde, la nuova carne, L’Indice dei libri del mese, la Domenica del Sole 24 Ore. Non è lui Elena Ferrante.
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