Un racconto di Giacomo Zibardi
Numero di battute: 2400
Purtroppo dopo quel giorno ci perdemmo di vista. Il primo appuntamento con L fu anche l’ultimo. Dopo un’aranciata al bar passeggiavamo senza meta. Q è una città enorme e misera e non c’è molto da fare. Devo farti vedere una cosa, disse L senza voltarsi. Allungò la mano e io la strinsi, lasciandomi guidare come un cieco. Riassumere il percorso di quella passeggiata è, oggi, impossibile.
Lei cominciò a correre. Ricordo il suo caschetto biondo, la sua camicia bianca e poco altro. Forse abbiamo attraversato il quartiere gotico, la città vecchia e piazza dell’unità. Il ricordo prosegue confuso. Lei si volta e sorride. Cammina un metro davanti. Sa dove andare. Ci infiliamo, credo, in un dedalo di vicoli scuri, e sento, per un attimo, l’odore salato del fiume. Arriviamo davanti a un palazzo decrepito, sembra abbandonato da sempre. Lei non punta al palazzo, ma al muro lì di fianco. Un muro anonimo dove c’è una piccola porta. La apre. Vieni, dice.
È una stanza buia e polverosa, dimenticata. Ci sono delle scale. Scendiamo i gradini, starnutisco, non vedo bene. C’è un’altra porta. Altre scale. Apriamo porte e scendiamo scale. Forse siamo nelle fogne o forse in un sogno folle. Scendiamo sottoterra.
«È bellissimo, dico, perché ho paura.»
È bellissimo, dico, perché ho paura. Davvero, risponde lei. Siamo in una stanza buia. Il silenzio è definitivo. Sento il suo respiro. Sento il mio respiro. Sento dei sussulti lontani. Lei accende la torcia del cellulare. L’ultima porta è di metallo. Siamo su un balconcino. Intorno pareti di cemento. Il suono è inconfondibile. È il suono di un battito amplificato. L punta la torcia giù in basso. E poi lo vedo. È un cuore. Un cuore enorme, così vero da sembrare finto.
È il cuore della città, dice lei. Non so cosa rispondere, né cosa farmene di un cuore enorme, anche se abito qui da trent’anni. Non riesco nemmeno a scattare una foto. Grazie, dico, credo, sovrastato dall’incredulità o dalla felicità. Ricordo che quella sera mi sembrò tutto strano e fastidioso: casa, i miei genitori, i bocconi della cena, come se il mondo avesse iniziato a scricchiolare. Il giorno dopo scrissi a L, ma non rispose. Non rispose più.
Presi l’abitudine di camminare per Q nella speranza di incontrarla di nuovo. Un giorno poi credetti di aver ritrovato la porta. La aprii. Nella piccola stanza un uomo anziano era chino su un tavolo da lavoro. Mi guardò come se ci conoscessimo da anni. Mi scusai e uscii.
Giacomo Zibardi (1993) è nato e vive a Milano. Allena una squadra di calcio. Altri suoi racconti si trovano su Nazione Indiana.
Un racconto di Gabriele Marturano
Numero di battute: 2091
C’era una spora, o qualche migliaio, sull’asciugamano. Ora è dentro di lei, impercettibile e sopita. Ne scoprirà il nome solo quando avrà già cominciato a ucciderla. Gliela presenterà un medico molto capace, che farà carriera mentre lei saponifica nel loculo, il quale ha compreso la lunga e affascinante quiescenza del patogeno e per spiegarglielo ha improvvisato un’interessante favoletta biologica, antropomorfizzando i personaggi.
Quella sera stessa, il futuro luminare nonché esopo col camice, sorseggiando dell’ottimo vino rosso, espone il caso a una sua amica, il cui inconscio l’ha invitata a cena per una accennata somiglianza con la paziente, il cui nome gli sfugge.
«La spora
è divenuta imponente.»
Intanto lei è nel letto dell’ospedale, consapevole che sarà l’ultimo letto in cui dormirà. È persino comodo. La spora è divenuta imponente, ben radicata, una sequoia. Tiene un diario, da quando ha intuito che non sarebbe uscita presto dal reparto. Tra quelle pagine, inizialmente adopera la biro come una piccola vanga, cercando, con lievi buche, di piantare i semi della speranza.
Dopo alcune settimane, la biro è l’accetta con cui prova disperatamente ad abbattere la foresta che un mattino l’ha circondata, intrappolandole il fiato. Infine, la biro diventa un aspersorio con cui tenta di rendere metaforica la spora, esorcizzandola col verderame del fatalismo.
Quando si accorge di stare morendo, la morte è tutt’altro che astratta, è, anzi, un affannoso svaporare; percepisce lucidamente la fatica di ritrovarsi nel mezzo di un passaggio di materia che la rende suscettibile a qualunque cosa, al punto che si commuove osservando la condensa sui vetri, gli spinaci esausti nel piatto, l’aggressione della candeggina sul lembo di un camice...
È mattina, prende la penna, la issa, e comincia minuziosamente a dissotterrare un ricordo, poi un altro e un altro ancora, per ore, finché lì sotto ritrova il nasino della madre e le guance sode del padre, che liberando dalla polvere scopre sereni, come quando li cercava le prime notti in cui dormiva da sola, attraversando l’oscurità pur di assopirsi in quell’abbraccio.
Gabriele Marturano nasce a Carate Brianza nel 1992, ma vive da sempre a Verano Brianza. Si è laureato in Lettere moderne all’Università degli Studi di Milano, ha insegnato materie umanistiche in una scuola secondaria di I grado della Brianza e ha scritto per una rivista internazionale di musica. Ha esordito con la raccolta di poesie L’anfibio (Fucine Editoriali 2020).
Amneris Magella è nata a Milano nel 1958 ed è medico legale. Ha sempre vissuto sul Lario.
È autrice, insieme a Giovanni Cocco, della fortunata serie poliziesca del Commissario Stefania Valenti, tradotta negli Stati Uniti e nei principali Paesi europei, di cui sono già apparsi: Ombre sul lago (2013), Omicidio alla stazione Centrale (2015), Morte a Bellagio (2018) e La sposa nel lago (2019), tutti nel catalogo Marsilio e, a partire dal 2020, nella collana UE Marsilio/Feltrinelli con il sottotitolo I delitti del lago di Como.
Il nuovo episodio dei Delitti del lago di Como uscirà per Marsilio nel corso del 2024.
Omicidio al faro
I delitti del lago di Como 6
Marsilio
giugno 2024
pp. 240
La ballata di un uomo solo
I delitti del lago di Como 2
Marsilio | Universale Economica
settembre 2019
pp. 320
Giovanni Cocco è nato a Como nel 1976 ed è un insegnante di lettere nella scuola secondaria.
Ha pubblicato la raccolta di racconti Angeli a perdere (No Reply, 2004), il romanzo postmoderno La caduta (Nutrimenti, 2013) con cui ha vinto il Premio Campiello Selezione Giuria dei Letterati nel 2013, la commedia Il bacio dell’Assunta (Feltrinelli, 2014), il non-fiction novel La promessa (Nutrimenti, 2015), arrivato nella long-list del Premio Viareggio 2016.
È autore, insieme ad Amneris Magella, della fortunata serie poliziesca del Commissario Stefania Valenti, tradotta negli Stati Uniti e nei principali Paesi europei, di cui sono già apparsi: Ombre sul lago (2013), Omicidio alla stazione Centrale (2015), Morte a Bellagio (2018) e La sposa nel lago (2019), tutti nel catalogo Marsilio e, a partire dal 2020, nella collana UE Marsilio/Feltrinelli con il sottotitolo I delitti del lago di Como.
Il nuovo episodio dei Delitti del lago di Como sarà pubblicato da Marsilio nel corso del 2024.
La ballata di un uomo solo
I delitti del lago di Como 2
Marsilio | Universale Economica
settembre 2019
pp. 320
Cristiano Brignola lavora nell'ambito della narrazione da diversi anni, dividendosi tra fumetti (Mambo Magicka Voodoo Child, Noise Press 2020; My Little Antichrist, Jundo 2021), saggistica (Evangelion for dummy(plugs), Dynit 2020), librogame e giochi di ruolo (Cryan), film e televisione (Il commissario Rex stagione 18, Letto numero 6).
All'età di quarantaquattro anni, le sue passioni non sono troppo diverse da quelle di quando ne aveva otto: pirati, magia, robot giganti e soprattutto mostri.
Il suo ultimo libro è L'estate in cui sono marcito (Moscabianca 2023).
Un racconto di Alessandra Rosati
Numero di battute: 2163
Lo aveva incontrato al teatro greco, in fila davanti all’entrata.
Era in ritardo, e non sarebbe riuscita a noleggiare il cuscino prima dell’inizio.
«Tieni, prendi il mio» aveva detto, «le panche sono davvero scomode.»
«Sei qui in vacanza?»
«Sì. E tu?»
«Anche, ma è l’ultimo giorno. Domani ho l’aereo da Catania.»
L’aveva rivisto all’uscita, avevano parlato dello spettacolo. Le aveva raccontato che amava le tragedie antiche per nostalgia del greco, che aveva dimenticato quasi del tutto. Lei aveva detto che Le Coefore non erano il suo genere e che era stato un po’ troppo lungo. Non aveva il coraggio di dirgli che a metà era uscita per andare al bar: per qualche ragione, che non sapeva spiegarsi, voleva piacergli.
Avevano camminato insieme fino a Ortigia, dove alloggiavano entrambi, e lui le aveva chiesto di fare colazione insieme il giorno dopo.
Al mattino si erano trovati allo stesso tavolo come dopo un sogno, due estranei che si sforzavano di comunicare. Ma l’attrazione dei corpi li spingeva l’uno verso l’altra, tenendoli avvinti. Poi l’aveva accompagnata a prendere l’autobus e lei gli aveva chiesto di abbracciarla.
«Verrò
a trovarti.»
«Verrò a trovarti» aveva detto lui mentre la stringeva.
«Non lo farai.»
«Sì invece. È poco più di un’ora da casa mia, e poi voglio andare al mare.»
Due settimane dopo l’aveva rivisto ancora. Era andato a trovarla al mare, ma l’aveva portata in collina. Si erano stesi sopra un tappeto di foglie gialle, dentro un boschetto, ad ascoltare il chiacchiericcio delle cicale e lo sciabordio del ruscello sottostante. Lui aveva appoggiato la testa sul suo ventre, premendo dolcemente verso il basso. In quel momento lei aveva sentito un calore intenso, sconosciuto, espandersi in ogni parte del suo corpo.
«Non possiamo più vederci» aveva detto lui, piano.
«Perché? Che c’è che non va?»
«Niente» aveva risposto staccandosi.
Si erano alzati, ma prima di separarsi lui le aveva detto di comprare dei racchettoni.
«La prossima volta andiamo al mare davvero.»
Il giorno dopo lei era andata a comprarli, ne aveva scelto un paio gialli, con una fantasia che richiamava motivi orientali. Desiderava che fossero almeno belli, visto che non li avrebbe mai usati.
Alessandra Rosati (1989) è nata e cresciuta nel Sud delle Marche, ma vive a Trento, dove lavora come redattrice per la Fondazione Kessler. Si è laureata in Lettere all’Università di Bologna e ha poi proseguito gli studi a Londra. Appassionata di lingue e culture straniere, nel tempo libero viaggia e, quando ci riesce, scrive. Il suo primo racconto è stato pubblicato nell'antologia #iostoacasa (Pendragon 2020).
Un racconto di Danilo Di Prinzio
Numero di battute: 2218
Come scriverebbero i polli se avessero la possibilità di farlo? E cosa? Io credo che si metterebbero in disparte nel pollaio e attendendo di diventare galline inizierebbero a beccare sulla terra con tutta la forza della propria narice affilata, nel tentativo di tramandare il racconto della propria vita. E allora inizierebbero con il dire di essere nati senza averne nessun ricordo e di essersi ritrovati in un pollaio a beccare mangime insieme ad altri pennuti e che in qualche sporadica circostanza hanno provato persino a librarsi in volo. Ma non è accaduto mai nulla, tranne starnazzare nella gabbia in presenza di figure enormi improvvisamente piombate nel perimetro di pertinenza.
Cazzo di vita assurda. Insomma, in momenti di quiete, hanno tentato di abbozzare qualche segno sulla terra, soprattutto di notte. Il silenzio della notte è un silenzio che irretisce chiunque, figurarsi i pennuti ignari della propria origine.
«Cazzo
di vita assurda.»
Gino il pollo una sera è sorvolato da un vago ricordo, ricorda di essere stato rinchiuso in uno stato embrionale all’interno di un carcere con le pareti a forma di globo. Tutto pulsava in frizioni andanti e ritornanti, continue e inspiegabili, tanto che all’improvviso nel rossore nucleico, luminoso e circondato da bianche maree pulsanti, Gino, preso da un caldo feroce, decise di rompere gli indugi e di frantumare l’essenza entro la quale immaginava fosse racchiuso tutto il significato dell’essere, per venire claudicante fuori, attraverso gli interstizi che lasciavano intravedere frecce di luce. A parte questi momenti di ricordo che avvengono a tratti e come lampi, non gli sovviene nient’altro.
Adesso nella notte stellata guarda in alto, cammina irrigidendo il collo e subito allentandolo e subito di nuovo irrigidendolo in un continuo andirivieni istintivo. Guarda il cielo, abbiamo detto. E dopo averlo guardato cerca di segnare con il becco alcuni tratti sulla terra. Alla mattina prima che inizi a cantare il gallo ha riempito l’intero spazio del recinto. Ma una pioggia improvvisa e feroce cancella ogni cosa sotto la melma.
Marius fa lo stesso e così Luco, Madia, Radianza e tutti gli altri.
Poi nel tempo imparano a dimenticare diventando galline o galli che dir si voglia.
Danilo Di Prinzio è nato nel 1972 a Guardiagrele, antico borgo alle pendici della Majella. Dice di aver bruciato una laurea in Filosofia prima di iniziare a lavorare per un’impresa di costruzioni, lavoro durante il quale approfitta delle pause per scrivere racconti e poesie. Amante della musica, di Scarface e di Modigliani, nei periodi travagliati legge Faulkner, in quelli quieti McCarthy e negli altri corre in moto.
Un racconto di Arianna Cislacchi
Numero di battute: 2249
Saper correre è molto importante.
Quando sono alle spalle, cominciamo la corsa contro la morte. I nostri passi, sono pioggia che esplode sui tetti. Siamo creature minuscole, schifate dagli sguardi del mondo.
Ci temono, ci esaminano, ci avvelenano. Aprono i nostri corpi con arnesi, ci studiano nei laboratori. Quando la lama preme, siamo ancora vivi. I nostri piccoli organi sono caldi.
Mentre ciò accade, noi fissiamo negli occhi gli uomini. E ci chiediamo cosa li rende speciali. Cosa li rende umani. Nel senso etico, dell’anima. L’aspetto è già uso antico di discriminazione.
Mentre fissiamo negli occhi gli uomini, loro non ricambiano.
Quando l’ago si fa strada e ci richiude, siamo già morti. I nostri piccoli organi si raffreddano velocemente. Ci domandiamo spesso per quale ragione l’uomo ha bisogno di noi. Perché subiamo questa sorte. Forse siamo facili bersagli. E all’uomo piace vincere facile.
«All’uomo piace vincere facile.»
Con la sola suola della scarpa potrebbe schiacciarci.
Ma l’uomo non si vuole sporcare.
Se uno di noi muore, dà la colpa alle trappole.
Al gatto.
Al cianuro.
Alla sovrappopolazione.
Alle malattie.
Le sue mani ne escono pulite. E se ci sono mani da colpevolizzare, sono quelle di Dio.
Troviamo un bivio. Squittisco e giriamo a destra. Lo spazio è stretto. Si soffoca. In lontananza brilla qualcosa. Una luce. Un raggio di sole.
Squittisco. Siamo salvi. La libertà è a un paio di travi da noi.
Il mio piccolo si aggrappa al dorso, non riesce a correre. Ha la zampetta rotta.
Siamo salvi, figlio mio. Ci siamo quasi.
Andremo in campagna.
Viaggeremo tra i campi.
Gusteremo quel buon cibo perduto che si raccatta agli angoli dei ristoranti.
Staremo bene, tu e io.
Improvvisamente cade giù. Scivola lontano dalla mia schiena. Non ha perso l’equilibrio. Non ha colpito la parete sottile. Non si è ferito con un chiodo. Cedono a uno a uno, a terra, come sacchi. I vivi sui cadaveri, i cadaveri sui vivi. L’aria è irrespirabile. Mi fermo, annuso. Guardo intorno a me e non vedo nulla. Gli occhi stanno per chiudersi. Qualcosa mi stritola il cuore. Fa male come quando finiamo nelle braccia metalliche sparse per casa.
Vedo la luce puntare con insistenza su di me. Mi illumina il petto. La coda. Il muso.
Gli occhi degli uomini finalmente mi fissano. Ma io, non trovo pace.
Arianna Cislacchi ha trent’anni, è nata ad Albenga, ma vive a Torino dai tempi dell’università. Si è laureata in Scienze dell’educazione e lavora in una scuola dell’infanzia. Nel tempo libero legge, scrive e s’improvvisa pittrice. Le piace suonare il pianoforte e si considera fieramente nerd. Suoi racconti sono apparsi su diverse riviste letterarie e collabora con eco.l’educazione sostenibile.
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