Un racconto di Andrea Bagnasco
Numero di battute: 2335
Matteo chiuse il computer ancora illuminato dal continuo lampeggiare delle notifiche, mentre fuori stava facendo buio. Per una volta, decise che non avrebbe fatto differenza. Le avrebbe ritrovate nello stesso posto la mattina dopo, insieme a molte altre nuove. Aveva bisogno di pensare un po’ a sé, almeno quella sera.
Spalancò la finestra e staccò dalle prese i cavi del portatile e della stampante, svelando al loro posto un’impronta di polvere sul parquet. Liberò il tavolo della sala dalla sua postazione di lavoro, ammucchiando tutto in camera dietro al letto. Poi tornò di là e, vedendo il tavolo vuoto, senza macchine, fogli, cavi, gli sembrò per un attimo di essere tornato indietro nel tempo. Quando quella sala non era un cazzo di ufficio, quando a quel tavolo faceva tardi con qualche amico finendo una bottiglia di amaro, quando con lui c’era ancora Sofia.
Non aveva tempo di lasciarsi andare alla malinconia. Tra meno di un’ora sarebbero arrivati. Scelse sei o sette dischi scorrendo con lo sguardo tra le mensole e li preparò vicino allo stereo. Fece partire III dei Lumineers, poi lo avrebbe messo di nuovo al loro arrivo, era perfetto per iniziare la serata.
«Quando quella sala non era un cazzo di ufficio.»
Quando suonò il citofono, aveva appena finito di preparare la tavola. Gli spritz che si era versato dalla brocca per controllare l’equilibrio tra campari e prosecco avevano già fatto effetto. Non era ubriaco, almeno per ora, ma non era neanche più agitato.
La cena fu ancora più perfetta di quanto avesse sperato. Non ricordava da quanto tempo non avesse parlato tanto. Il suono delle risate che riempivano la stanza sembrava arrivare da un altro mondo, così lontano dal silenzio e dalle luci azzurre delle finestre al di là della strada. Aveva talmente bisogno di divertirsi, di ricordare come fosse bello viaggiare con gli amici, come fosse piena la sua vita prima che quella casa diventasse la sua prigione, con il collo sempre più piegato in avanti verso lo schermo e gli occhi sempre più indeboliti.
Era da due settimane che aspettava quella cena. Da quando aveva visto quel banner, una sera come tante.
FRIENDS-TO-GO! Tu ci dai l’accesso ai tuoi social per prepararci, noi ti mandiamo a casa per cena i migliori amici che tu abbia mai avuto! Fai presto: se prenoti entro aprile, il terzo amico lo offriamo noi!
Non aveva creduto che potesse funzionare davvero.
Andrea Bagnasco (1982) è nato a Genova e lavora nell’ufficio legale di un’azienda a Milano, dedicando più tempo possibile a famiglia, viaggi, libri, sport e musica. Da sempre appassionato di scrittura, ha lavorato nella redazione di una radio e ha pubblicato numerosi articoli e recensioni in ambito musicale. Suoi racconti sono stati pubblicati su Rivista Offline e Grande Kalma.
Un racconto di Irene Pavan
Numero di battute: 2493
Raccolgo i vetri dal pavimento tenendo dentro i denti bestemmie rivolte a un dio che da anni non trovo più. Guardo l’ora, più per un’abitudine che per una necessità, i minuti sono tutti uguali e a contarli non è più un orologio, ma la lista delle medicine, il cambio del pannolone, la minestra da mettere sul fornello, da far ingoiare.
Era iniziata con un panino nella vasca da bagno, la scatola per formiche tra i piatti e la vicina seccata per la biancheria lasciata sul pianerottolo. All’inizio, mandi a quel paese la megera e ti fai una birra con il vecchio che ha ancora gli occhi che ridono, come se quelle fossero solo bravate.
«Era iniziata con un panino nella vasca da bagno.»
Con i giorni però anche la strada per arrivare al bagno diventa lunga, piena di insidie. Lo trovo così una sera come tante, a terra con i pantaloni bagnati a gridare che è colpa del tappeto, che lui lo sapeva dove si trovava quel maledetto cesso, ma il tappeto non l’aveva fatto passare. Quella volta non l’ho buttata sul ridere, l’ho aiutato a cambiarsi, voltando la testa per pudore.
Sistemo il bidone e torno dentro, chiudo la porta, viviamo prigionieri dei nostri muri che ci proteggono da un mondo pieno di pericoli: la strada trafficata, i corridoi delle cantine, qualsiasi posto è potenzialmente vasto e basterebbe per perdersi per un’ora o per sempre, non avrebbe importanza.
Il sole stamattina è sorto su una giornata sbagliata, di quelle in cui i colpi che prendi fanno male per ore. Incassata la sua rabbia, sono andato in cucina, ho preso del vino in tetrapak. Il vino scadente nel bicchiere di carta è come la piscia, mi ha detto. Hai ragione, ho risposto. È andato in camera mia e ha preso dallo scaffale in alto il boccale dell’Oktoberfest. Mio figlio se n’è andato anni fa, a lui non serve più. Hai ragione. Abbiamo bevuto il vino acido, poi lui si è spento in quelle pause dal mondo che ama prendersi, ho continuato da solo, sperando di ubriacarmi. Ho chiuso gli occhi, non so per quanto.
Svegliato da un tonfo, ho sperato che, se era il bagno la destinazione voluta, fosse riuscito a trovarlo. C’erano dei vetri sul pavimento, lui li guardava dispiaciuto. Si è scusato per il bicchiere, il mio bicchiere, per quell’ultima festa e per tutte quelle a cui avevo rinunciato, per le persone che non vengono mai a casa nostra, per quei giorni che marciscono la vita sua e mia. Le parole gli sono uscite come in un soffio, come in un sogno, così leggere che forse le ho solo immaginate.
Ho preso per mano mio padre e l’ho accompagnato a cambiarsi.
Irene Pavan è una scrittrice notturna, una lettrice compulsiva, una ricercatrice di ricordi smarriti. Scrive per una rivista di cultura e storia locale, cura presentazioni letterarie, prepara testi per reading teatrali, scrive racconti. Ha pubblicato il romanzo storico Solo per dirti addio (Nuovadimensione 2016), ispirato a una storia vera.
Un racconto di Federico Ciriminna
Numero di battute: 2489
L’unica volta in cui ho capito davvero cosa fossero le lucciole fu una notte, in un agriturismo su una collina in Liguria, ne vidi talmente tante che sembravano un’unica grande entità che mi circondava, facendomi sentire parte di essa. In passato mi era capitato di vederne qualcuna nel giardino di casa mia, ma non era la stessa cosa, prese singolarmente sembravano solo delle piccole lucine casuali, senza un vero scopo.
Ero in quell’agriturismo con una ragazza che avevo conosciuto un paio di settimane prima, e dato che ai tempi vivevamo entrambi con i genitori e non avevamo mai casa libera, avevamo deciso che al posto di andare in un motel per passare la nostra prima notte insieme, sarebbe stato meglio un agriturismo immerso nel verde dell’entroterra ligure. Eravamo da poco rientrati da una cena e nel parcheggio avevamo notato l’enorme quantità di lucciole.
«Ma quante sono?» disse la ragazza guardando la valle sotto di noi.
«È impossibile contarle tutte» risposi di getto.
Ce n’erano talmente tante che mi convinsi arrivassero fino all’altra collina.
«È impossibile contarle tutte.»
«Perché non dormiamo qui, stanotte?» mi chiese.
«Qui?»
«Sì, portiamo il telo, una coperta e dormiamo sul prato.»
«Non credo che si possa, e poi ci sono le zanzare.»
Era tutto così bello che sarebbe stato davvero magnifico dormire lì fuori, avrebbe reso quella nostra prima notte indimenticabile. Tuttavia, sentivo che qualcosa mi frenava, era un passo un po’ troppo grande per quello che era il nostro rapporto. Se poi non ci fossimo più visti? Non avrei voluto avere il ricordo di un momento così magico passato con una persona che avrei potuto non vedere più dopo quell’esperienza.
«Ma dài, sono tutte scuse, andiamo a prendere le coperte.»
Sentivo il suo sguardo penetrarmi negli occhi attraverso l’oscurità, il cuore cominciò a battermi forte.
«Io dormo in camera» le dissi in tono perentorio.
«Davvero?»
«Sì.»
Ci fu qualche secondo di silenzio in cui l’unico suono udibile era il frinire dei grilli.
«Io dormo qui, invece» disse.
Andammo in camera insieme, lei prese tutte le sue cose, compresa la valigia, e fece per uscire.
«Perché le porti via?» le chiesi.
«Non mi fido» disse sbattendo la porta.
Mi sdraiai sul letto e fissai il soffitto finché non mi addormentai. La mattina dopo, non vedendola in camera, uscii di corsa e perlustrai tutto il prato lì intorno. Non c’era, così andai in reception e chiesi di lei.
«È partita stamattina in taxi» disse la receptionist.
Quella fu l’ultima volta in cui vidi così tante lucciole intorno a me.
Federico Ciriminna è nato a Varese nel 1989. Nel 2020 ha pubblicato il suo romanzo d’esordio Vicina (Epoké). Si è laureato in Televisione, Cinema e New Media alla IULM di Milano. La sua prima esperienza lavorativa è in televisione, a RTI, come story editor per la fiction di Canale 5. Ha lavorato anche per il Piccolo Teatro di Milano. Ha aperto una newsletter dal nome Frammenti in cui pubblica microracconti e microsaggi.
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