Un racconto di Simon Trumpet
Numero di battute: 2486
Quella richiesta, fatta dalla moglie, risuonava nella sua mente: «Sai caro, forse dovremmo comprare un condizionatore». Anche quel giorno il termometro segnava cinquanta gradi. Le ombre dei grattacieli si fondevano sull’asfalto bollente. Già, pensava, il sesto condizionatore, in effetti, avrebbe portato un po’ di fresco nella loro calda casa.
Il bus era in ritardo. Il traffico non scorreva e il suo grosso cappello non riusciva per nulla a proteggerlo da quei nefasti raggi solari. Decise allora di avviarsi a piedi, verso la metro. Lungo il marciapiede respirava un po’ di refrigerio uscente dai negozi. Declinò l’idea di fermarsi in uno di essi per rifiatare. Era in ritardo e il suo vestito zuppo di sudore. Si chiese come fosse possibile lavorare in quelle condizioni. Era insostenibile, quel calore. Eppure sapeva bene che la produzione non poteva fermarsi.
«Anche quel giorno
il termometro segnava cinquanta gradi.»
Scese nelle viscere della terra e in pochi minuti arrivò a destinazione, fermata Vulcano. Salì sulla cresta del cratere. Il suo capo subito l’accolse felice. Gli indicò i grafici. C’era molta attività, quel giorno. Sbuffi di calore si sollevavano altissimi nel cielo. Avrebbe voluto mettersi la tuta ignifuga, almeno per alleggerirsi un po’ da quel fuoco. Ma il suo superiore pareva non avere occhi, se non per quei bei segnali di fumo.
La lava usciva copiosa e il vapore spingeva le turbine al massimo della velocità. Laggiù, lontano dalla città, i boschi bruciavano. Nessuno avrebbe consumato acqua per spegnerli. Quando qualcuno distrasse il capo, poté cambiarsi per lavorare. Non ebbe pause, se non per fumare una sigaretta, fino alle sette.
I suoi colleghi recuperarono le automobili, mentre lui ridiscese nella bollente metro. Sottoterra non si respirava. Giunto a casa, ascoltando il giornale, tirò un sospiro di sollievo, sentendo che nessuno era morto a causa di quel caldo anomalo degli ultimi tre anni. La centrale geotermica aveva lavorato a pieno regime. Non ci fu nessun black-out o calo di energia. Fossero tutte così le giornate, pensò. Guardò la moglie, affaticata a caricare la lavastoviglie. Accese così, col telecomando, tutti e cinque i macchinari.
«Sai, le disse, forse dovremmo prendere un altro condizionatore.» Anche se le sue parole furono in parte mangiate dal rumore. Lei sorrise. «Ti stiro il piumone per stasera» urlò. Poi corse a fare la lavatrice, non prima di dare un’ultima passata veloce con l’aspirapolvere mentre le luci della città si accendevano per illuminare, a giorno, la notte.
Simon Trumpet conosce la scrittura da adolescente e non l’ha più abbandonata. Laureatosi in Lettere sogna di divenire bravo quanto i suoi idoli C. Palanhiunk e P.K. Dick. Ha pubblicato la raccolta di racconti Al di là del nulla (Aletheia). Altre storie sono apparse su Lahar Magazine. Vive, studia e lavora all’estero.
Un racconto di Antonio Giugliano
Numero di battute: 2488
Dovevamo andare a prendere l’acqua al pozzo. Io e la capra. La capra si chiamava Askenatze.
Era nata il giorno che ci fu il bombardamento della casa degli Haskbel, il 37 settembre. Noi c’eravamo salvati per caso, disse zio Hebron, solo perché un coso di missile era caduto venti metri più in là. Zio Hebron aveva tutti i denti verdi. Gli piaceva il tè. Ne beveva a litri. Era il fratello di mia madre. La casa degli Haskbel non esisteva più. E neanche loro.
Ma a quell’epoca c’erano tante di quelle bombe che non ne potevi tenere il conto. E nemmeno delle case distrutte. Vedevi il giorno dopo un cartoccio sfigurato di ossa bruciacchiate. Gente morta. Però spezzettata. Hai visto mai un morto a pezzi e bruciacchiato? In fondo a me non me ne importava. Io ero vivo. Zio Hebron non l’avrebbe mai potuto capire. Ma io sì. Ero un bambino, no? Io lo sapevo che il buon dio mi avrebbe sempre salvato dai bombardamenti. I bombardamenti era una cosa dei grandi, io che c’entravo?
«Hai visto mai
un morto
a pezzi
e bruciacchiato?»
Hai visto mai un morto a pezzi e bruciacchiato? In fondo a me non me ne importava. Io ero vivo. Zio Hebron non l’avrebbe mai potuto capire. Ma io sì. Ero un bambino, no? Io lo sapevo che il buon dio mi avrebbe sempre salvato dai bombardamenti. I bombardamenti era una cosa dei grandi, io che c’entravo?
Askenatze invece era una capra irriverente. Oddio, era ubbidiente, ma ogni tanto voleva fare di testa sua. Nel senso che anche se io la chiamavo, voleva per forza di cose andare dove non si poteva andare. E io la riprendevo: «Askenatze! Askenatze!» gridavo.
Le piaceva andare a brucare le foglie di fico.
«Ma non lo vedi che le foglie di fico sono troppo alte per te?»
Lei saltellava intorno al fico.
E allora ci salivo io, sul fico, e strappavo le foglie per darle ad Askenatze.
Dovevamo fare due o tre chilometri per arrivare al pozzo. Io mi portavo sulle spalle la tanica da venticinque litri, però a casa gli dicevo che la mettevo sulle spalle di Askenatze. È che mi piaceva vederla sgambettare libera. Si metteva ad annusare ogni cespuglio. C’erano le piante di mirto e di pepe. Le piaceva soprattutto la pianta di pepe. L’annusava e starnutiva. E mi faceva ridere. Era proprio una scema. Dopo aver annusato la pianta di pepe starnutiva e mi guardava con quell’aria propria di chi ti dice: “Ma che è successo?” e io mi facevo delle grandi risate.
Comunque non c’era proprio da stare allegri, disse zio Hebron. Ora sarebbero arrivati i nemici e dovevamo sloggiare e avremmo dovuto andare più a Nord, dove non c’è acqua, e avremmo dormito guardati dalle stelle. Ma noi c’avevamo il sacco a pelo. E io vedevo le stelle e me le guardavo tutta la notte e dicevo buon dio tu guardaci dalle stelle e guarda soprattutto Askenatze che è scema e non capisce niente e basta che si mangia le foglie di fico.
Lei è contenta così.
Antonio Giugliano ha pubblicato i romanzi Love kaputt (Augh! 2017), La valigia del venerdì (Freccia d’oro 2020) e Topi (WriteUp 2022). Alcuni suoi racconti sono stati accolti in antologie e in diverse riviste letterarie, tra le quali Crapula club, L'Irrequieto Quaerere, Split. Per il mese di settembre 2022 è prevista l'uscita del suo quarto romanzo, Nembutal.
Un racconto di Dario Picchiotti Vanni
Numero di battute: 2033
«Mi dispiace, siamo alle antilopi» disse Adele pulendosi il grembiule; si allontanò per il corridoio, scomparendo in mezzo allo sciame convulso di Bull Boys e denti sparsi appena liberato dalla campanella.
Enea non ebbe nemmeno il tempo di rispondere e fu lasciato lì, appeso a una parola che non capiva: antilopi, certo, come l’animale: ma di cosa stava parlando? Con il tempo sarebbe diventato un nipote crudele, un figlio viziato, un amante mediocre e un marito noioso, ma di certo non avrebbe mai fatto un torto a nessuna antilope.
«Siamo
alle antilopi.»
E allora cosa? Siamo alle antilopi. E i leoni? E gli zulù, i cammelli, la savana a perdita d’occhio, i ghepardi sinuosi, gli elefanti mastodontici, gli ippopotami? Si era perso tutta l’Africa e non se ne era accorto: basta un attimo di distrazione e un intero continente ti passa sotto il naso.
Adele, dal canto suo, era pienamente consapevole del suo strambo uso delle parole: sebbene le maestre fossero convinte che avesse un leggero ritardo cognitivo, dovuto a un qualche evento traumatico avvenuto durante i suoi primi anni di vita, era invece lucida e determinata: i suoi genitori usavano la lingua come un’arma, prendevano le parole e se le tiravano addosso, pesanti e ruvide: bastarda, divorzio, stronzo; lei le raccoglieva e le trasformava nella sua lingua, e la lingua di Adele era dolce, morbida e accogliente, piena di parole come abbraccio, bacio, pulcino, miele.
E così, pur di usarla, iniziò a cambiare nomi e significati, ma la sua scelta ebbe delle ripercussioni, e scoprì presto che chiunque le si avvicinava veniva deriso e preso in giro. Con il fatalismo tipico dei bambini, si condannò quindi alla solitudine eterna.
Enea allora, preso dalla paura di perdersi qualche altro continente tipo la provincia di Prato o l’Oceania, cominciò a correre come un forsennato: entrò nella classe di Adele e la trovò in piedi davanti alla lavagna. Fece un gran sospiro e l’abbracciò, immergendo la faccia nei suoi capelli: le parole che gli vennero in mente furono marmellata e sole e ridere.
Dario Picchiotti Vanni (1988) è nato a Udine e vive da alcuni anni sull’isola di Capraia. Suoi racconti e poesie sono apparsi sugli Atomi di Oblique, inutile rivista, Narrandom, Voce del Verbo, Fantastico!, Spaghetti Writers, la Quarta Corda.
Un racconto di Giovanni Altavilla
Numero di battute: 2491
A quell’ora in piazza San Marco potevi incontrare solo qualche cormorano e il vecchio Tiziano. Lo riconoscevi subito dalla ciotola che portava a due mani, grande quanto un’insalatiera. Sembrava più il custode di uno zoo. Voci dicevano che desse da mangiare a qualche enorme cane nascosto nella chiesa o addirittura a un prigioniero.
Di certo all’alba, quando aprivano i bar e attraccavano i primi vaporetti, la ciotola era vuota. La trovavi là a fargli compagnia sul bordo della banchina dove lui si sedeva con le gambe a penzoloni sulla laguna dando le spalle alla basilica, come se ci avesse litigato. Ma poi si tirava su con dei lamenti e mandava un bacio al leone sulla colonna e zoppicava via verso casa.
Quella notte il suo passo rimbombava nella mia calle, era come se mi avesse invitato a pedinarlo fino a San Marco. Mi ero acquattato dietro al primo cestino del molo che dava sulla mezza facciata. Da lì avevo la visuale libera sul suo segreto come in un teatro. Aspettavo solo che la sua piccola sagoma sullo schermo del telefono uscisse dal porticato di Palazzo Ducale e svoltasse l’angolo verso la chiesa.
Invece si fermò sotto alla colonna del leone. Si abbassò alla base come se avesse un ferro arrugginito al posto della schiena e posò la ciotola; guardò il polso e rimase a fissare la cima della colonna.
«Davvero tutto questo per un piccione?»
Davvero tutto questo per un piccione? Mi chiedevo fissando il volatile impettito sulla testa del leone alato… di cui in un attimo rimasero un paio di penne galleggianti in aria.
Il telefono mi scivolò nel bidone rimbalzando sulle pareti di alluminio come se avessi suonato una batteria. Sia Tiziano che il leone di bronzo girarono la testa verso di me. E da lassù il leone saltò ondeggiando in un volo simile a una libellula.
Qualcosa mi diceva che non dovevo avere paura, anche quando atterrò a un passo da me. Mi fissava con quei buchi verdi e abbassò la testa come se si stesse stiracchiando. Se non me la diedi a gambe fu solo per il sorriso tranquillo del vecchio Tiziano: capii che non era una posizione di attacco, ma un inchino.
Il leone era chiaramente in attesa di qualcosa. Riuscii solo ad alzarmi, mi sentivo puntato da quella coda arricciata, come un serpente sulla difensiva.
«Vuole che ti inchini anche tu» disse Tiziano ansante.
Tremai un attimo prima di vederlo alla mia sinistra. «Perché?» chiesi ipnotizzato dalla punta della coda che iniziava a penzolare rigida, come se cercasse di scodinzolare.
«Ah, non lo chiedere a me. È San Marco che sceglie i custodi.»
Giovanni Altavilla è nato nel 1997. Partenopeo di nascita, sannita d’adozione e veneziano con Visto, si è specializzato in English Studies all’università Ca’ Foscari. È stato uno dei venticinque selezionati al laboratorio di scrittura creativa offerto dall’università di Venezia tenuto da Tiziano Scarpa e Roberto Ferrucci nel 2021. È stato co-autore di un articolo scientifico e collabora con la rivista Naransa. Ha pubblicato il suo primo racconto su Rivista Blam.
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