Un racconto di Andrea Consonni
Numero di battute: 2367
Li hai visti ridotti a carta igienica da zia Luigina per pulirsi il culo coi Buoni del Tesoro. Ci stiamo pensando tutti da settant’anni. Come sarebbero cambiate le cose se te ne fossi accorto? Sarebbe ancora aperto l’albergo? Ti hanno accusato di saperlo, di sapere un sacco di cose ma di aver celato la verità Come quella volta che ti hanno accusato di malversazioni nella ditta dov’eri impiegato alla contabilità. Facevi la cresta? Ti eri intascato soldi insieme a un complice?
La gente fa così: quando ti accusano di qualcosa rimani colpevole anche da morto. Due volte nella tua vita. Una volta ti accusano di aver rubato soldi alla tua famiglia e l’altra di averlo fatto nella ditta dove lavori prima di tornare in albergo. Non ho mai avuto il coraggio di chiederti come hai fatto a sopportarlo. Essere prosciolto in tribunale ti aveva fatto lasciare le Merit e portato alle Marlboro.
«Quando ti accusano di qualcosa rimani colpevole anche
da morto.»
Dalla guerra eri tornato con l’ameba intestinale, le medaglie e il silenzio. Eri il proprietario dell’albergo. Il partigiano. Il signor Cesarino. Il borghese. Ma è come se tu avessi sempre le tasche della giacca piene di rovine. Tua moglie perse un figlio. Ne fece altri tre. E la gente bisbigliava.
Mi ricordo quando mi parlasti delle prime indagini su Tangentopoli. Il tuo sguardo mesto. Un’accusa non è una condanna, mi sussurrasti mentre sfogliavi «il Giorno». Ero un ragazzino in attesa di un ossobuco che nonna stava preparando e volevo dirti che mi sentivo fuori posto pure io ma avevo solo tredici anni e ti eri accorto che avevo addosso la tua stessa insofferenza e quell’indolenza tipica degli sconfitti o di quelli che si sentono arresi dentro ancor prima di esser nati.
Avrei voluto dirti che il mondo che mi avevate regalato era un grande imbroglio. Un debito che mi avrebbe condizionato tutta l’esistenza. Ma poi ti sei messo a sorridere quando hai acceso la sigaretta e nonna si è seduta a tavola e ci siamo guardati liberamente, ci siamo presi per mano e tu hai voluto ringraziare i tuoi morti.
Mi hai versato un bicchiere di vino e mi hai parlato di Durazzo e Londra e quando il telefono è squillato il tuo sguardo si è rabbuiato ma l’hai lasciato spegnersi senza rispondere. Se bevi troppo, non puoi prendere la statina, ho sentito sussurrare dalla mia compagna. Mi sono alzato e ho controllato la cottura delle lumache. In questa casa cucino solo per i morti.
Andrea Consonni (1979) lavora come addetto alle pulizie e preparazione popcorn in un cinema multisala di Lugano.
Un racconto di Samantha Mammarella
Numero di battute: 2475
Betta stanotte gira scalza, piccole scie appiccicose le colano in mezzo alle gambe sottili. Tiene in braccio una pentola senza manici, la stringe a sé come fosse preziosa. Ogni tanto scosta il coperchio, infila dentro il naso e ci alita dentro. Non vuole darla via quella pentola, è sua e di nessun altro.
La donna si muove verso la parte alta della città, senza sentire il peso della stanchezza. Fuori è buio, la ghiaia le ferisce i piedi nudi ma lei non ci fa caso. Pare quasi un fantasma con il vestito leggero, la sensazione di miele tra le dita e il sudore che le scola tiepido sulla fronte. Sta andando al Parco del Telegrafo, la sua compagna di stanza le ha detto che da lassù potrà respirare tutta l’aria del mondo, vedere Pescara come non l’ha mai vista.
Di Elia l’è rimasta solo quella pentola da custodire. Gliel’ha regalata lui prima che li dividessero per sempre. Una storiaccia, l’hanno definita all’istituto psichiatrico. Lui cuoco, lei matta.
«Lui cuoco,
lei matta.»
E Betta da quel giorno è scappata, porta a spasso la sua disgrazia, gira di notte col salato delle lacrime sulle guance. Qualcuno ha chiamato la polizia per riportarla indietro, nel letto numero 418, ma fino a quando non la trovano lei va, un piede davanti all’altro. Di quel posto fatto di camici e corridoi lei ama solo le mele cotte, le ricordano quelle che sua madre le preparava da bambina e che all’istituto Elia le nascondeva nella pentola per tenerle in caldo il più possibile.
Betta ogni tanto scosta il coperchio per soffiarci dentro, mentre l’umido della città le entra sotto la pelle. La pentola ormai è gelata quando affronta l’ultima salita coi polpacci che le pulsano.
Il Parco del Telegrafo appare ai suoi occhi come un posto bellissimo, un luogo da guardare senza la cornice della sua finestra. Si mette sotto un albero, raccoglie le ginocchia al petto e appoggia la pentola accanto a sé. Chiude gli occhi, si immagina di essere nell’unico posto in cui vorrebbe stare. Allunga la mano nel vuoto. Elia non c’è ma lei lo sente vicino lo stesso.
Poi riapre gli occhi, butta via il coperchio. Dentro la pentola c’è un corpicino freddo e immobile, portatore inconsapevole di un amore impossibile. È venuto al mondo con i lineamenti del padre e gli occhietti chiusi, sigillati come una cassaforte di cui nemmeno sua madre conosce la combinazione.
Betta lo prende in braccio, gli bacia i pochi capelli, sembrano grumi di sabbia bagnata. Poi lo solleva al cielo. «Respira, amore. Prenditi tutta l’aria del mondo.»
Samantha Mammarella (1979) è cresciuta a Pescara, dove vive tuttora. Ha sempre ascoltato e letto storie, finché a un certo punto le è venuto in mente che avrebbe potuto scriverle. Hanno dato fiducia alle sue parole Crack, Narrandom e Rivista Blam. Nel 2020 ha vinto la sezione Racconti del Premio Calvino.
Un racconto di Simone Voci
Numero di battute: 2484
Aveva creato moltissima delusione, oltre che scandalo, la notizia della grande truffa escogitata da quello che, per tutti gli anni Ottanta e anche in seguito, era stato considerato il più importante compositore d’Europa: Marcello Gabotti, torinese, morto in circostanze misteriose nell’ottobre del 1997, anno in cui si scoprì che – in realtà – non aveva mai scritto nulla di suo pugno. L’archiviazione del caso aveva permesso di rendere disponibile, per ricercatori ed esperti, il grosso e squadrato calcolatore da lui utilizzato per dar vita alle geniali composizioni spacciate per sue.
E io, allora dottorando in Computer Science all’università di Torino, ebbi l’opportunità di avere fra le mani quell’apparecchio, nell’aprile del 2015, entro le mura dei laboratori del dipartimento d’Informatica. Si presentava come una sorta di computer rettangolare, di metallo, grosso circa come una poltrona.
«Come funzionasse era ancora un rebus tutto da risolvere.»
Non era mai stato aperto: un altro dei misteri legati a quelle indagini svolte – opinione comune nel settore – coi piedi. Al grande elaboratore era collegata una sorta di asticella orizzontale che terminava con una puntina, verticale, in grafite. Bastava pigiare un tasto e l’asta iniziava a muoversi, a scrivere note e accordi. Come funzionasse era ancora un rebus tutto da risolvere.
E fu per tale motivo che m’accinsi a svitare i chiodini che tenevano assieme le pareti metalliche di quello strano congegno. Poi, quando – con grande fatica, dato che una sostanza viscida lo manteneva incollato – riuscii a levare un pannello laterale, dovetti soffocare un urlo. Tra un intrico di ingranaggi e cavi colorati, si stagliava una piccola creatura di forma umanoide, in posizione fetale, tremante e le cui carni si fondevano con i circuiti. Era bianca, pallida, ossuta e piena di rughe, con lunghe braccia e gambe completate da zampe artigliate. Interamente priva di peli, presentava una pelle viscida e coperta di quel materiale vischioso che mi aveva dato problemi poco prima.
Girò la testa verso di me e lanciò un fischio, come quello di un pipistrello; il viso era assurdo, una specie di chimera: un becco d’anitra, nero e pieno di piccoli denti aguzzi, sormontato da due occhi color ghiaccio, tondi e fuori dalle orbite, le quali si presentavano scavate e violacee. Le orecchie parevano quelle di una capra.
Giusto il tempo di studiare, con lo sguardo, quanto avevo scoperto e l’asticella prese a muoversi, a tracciare sul foglio, non una serie di note, ma una sola parola: “Aiuto!”.
Simone Voci è nato nel 1996 a Torino, dove vive e studia Filosofia a livello universitario. È appassionato di tutto ciò che sfiori il genere “fantastico” e il genere “weird”, nelle loro varie ramificazioni.
Un racconto di Alessandro Tesetti
Numero di battute: 2452
Ha le mani che puzzano di salmone, glielo faccio notare, si scusa, dice che appena sveglia aveva proprio voglia di avocado toast. Un gatto ci guarda, ha una zanzara in testa. Siamo seduti al tavolino del bar, ogni volta che appoggio o tolgo i gomiti, il tavolino zoppica.
Ricordo che a scuola il mio compagno di banco ogni mattina piegava un foglio dodici volte, otteneva una zeppa che metteva sotto a una delle quattro gambe; così il banco non zoppicava.
Qui al bar non lo posso fare, non ho un foglio, non ho questa confidenza con lei, il pavimento non è liscio; i sampietrini sono magri o deformi o abbozzati o coperti di cicche.
Sta parlando di tutte le ricette che conosce con l’avocado, io non riesco a togliermi la puzza di salmone dentro le narici, non riesco a smettere di guardare la zanzara sulla testa del gatto; è proprio al centro, in mezzo alle due orecchie.
«Un gatto ci guarda, ha una zanzara
in testa.»
Il mio compagno di banco a giugno disse: Dai, vediamoci quest’estate, non fare come quella scorsa che parti e sparisci. Invece non ci siamo visti, né d’estate né poi a settembre. Quella sera stessa ha fatto un incidente in motorino, una macchina gli è andata addosso. Ancora è in coma, ogni tanto vado a trovarlo, prendo un foglio e lo piego dodici volte, e gli chiedo: Ma perché a fine lezione buttavi la zeppa? Non poteva restare lì anche per il giorno dopo, cioè, perché la facevi tutte le mattine?
Lui non risponde, lascio la zeppa sul comodino. Quel comodino è molto triste, ci sono tanti fiori che puzzano, un paio di santini, un rosario. Non è mai stato credente, lui, religione a scuola neanche la faceva, a ogni 3 in matematica bestemmiava la madonna.
Il tavolino del bar anche è molto triste, materiale scadente, cos’è? Acciaio, alluminio? È gelido. Per questo appoggio e tolgo i gomiti. Li appoggio perché mi annoio e quando mi annoio tengo il mento sul palmo della mano, poi però il tavolino è gelido e allora tolgo. Il gatto sta lì in attesa che gli dia qualcosa, la zanzara sta lì in attesa di vedere un pezzettino di carne dove coricarsi e succhiare; uniche scoperte sono le mie mani ma troppo scaltre, e le sue mani ma troppo puzzolenti. Forse è per questo che il gatto sta lì, forse è attratto dalla puzza di salmone. Ma la zanzara, la zanzara perché sta lì?
Una volta, in classe, il mio compagno di banco ne ha uccisa una, spiaccicata sul muro, il sangue non è mai stato tolto.
La stanza d’ospedale di zanzare ne è piena.
Ah, e poi certo, il guacamole. Fa lei.
Alessandro Tesetti ha ventidue anni, vive e studia a Roma Lettere moderne. Progetta di scappare a breve. Ha pubblicato per STC, La Seppia, Enne2 e ha partecipato al Campiello giovani 2022. Non sa cosa farà dopo.
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