Un racconto di Alex Guerra
Numero di battute: 1942
Da quanto non parliamo, veramente, come quando questo salotto non esisteva ancora? Come quando lo costruivamo, lo dipingevamo, l'arredavamo a parole? Come quando al posto del divano che ti piace tanto usavamo un materasso buttato direttamente per terra. Ce le dicevamo sopra là, ricordi? E tra una grattata di intonaco, o l'assemblaggio di un mobile, spiavamo fuori dalla finestra le famiglie con i passeggini e ci immedesimavamo nel ruolo di genitori.
Dopo che avevamo fatto l'amore sopra il materasso, la fronte adagiata sull'incavo della tua nuca, il mio braccio che ti cingeva la vita, ti suggerivo nomi per un possibile, mai arrivato, figlio: Juri, Gregorio, Mattia se fosse stato un maschietto; Elena, Aurora, Lionora nel caso di una femminuccia. E tu annuivi, docile.
In quella posizione ti ho annunciato la mia nomina ad assistente del Direttore Marketing e che in casa i soldi non sarebbero più mancati.
Poi costruimmo, dipingemmo, arredammo.
Come hai sempre voluto tu. Credevi che io volessi questo pugno nell'occhio di sofà, avrai creduto che il colore mi piacesse, e questa sfilza di libri presi in stock all'Ikea insieme alla libreria. E io ho sempre annuito docilmente ad ogni tua fantasticheria. Come quando giocavamo alla bella famigliola, tu giocavi e io ti assecondavo, guardando fuori dalla finestra di questo salotto che ancora non avevi fatto a tua immagine e somiglianza. Io in realtà guardavo le donne e gli uomini in camicia e giacca che salivano su Bmw e Mercedes. Ma allora come ora, ho bisogno anche dei tuoi abbracci.
Come quelli da dietro, dopo che avevamo fatto l'amore.
Per questo ti risposi che lo stipendio da assistente Direttore Marketing era buono ma volevo cercarmi lo stesso un lavoretto – visto che avevo una laurea tanto valeva farla fruttare, no? – giusto finché non ci sistemavamo. Non potevo confessarlo allora e non ha senso ammetterlo adesso, che non ricordo neanche più da quanto non parliamo veramente.
Alex Guerra è nato nel 1994. Abita a Breganze, in provincia di Vicenza. Diplomato in Elettronica e telecomunicazioni, lavora come operaio in una ditta di imballaggi flessibili. Tra un turno e l’altro cerca di laurearsi in Lettere moderne all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Suoi racconti sono usciti sulle riviste Blam e Spore.
Matteo di Pascale (1987) è scrittore e designer. È autore del Manuale di sopravvivenza per UX designer (Hoepli, 2019) e degli strumenti per la creatività applicata intùiti, Fabula, Fabula Kids, Cicero, Edito e Bad (Sefirot Editore), che hanno venduto oltre 100.000 copie in tutto il mondo.
Ha pubblicato i romanzi La lezione di Milano (Blonk Editore), Il piano inclinato (Las Vegas Edizioni) e Mario (Sefirot). Scrive una newsletter settimanale, il Bollettino creativo di Sefirot, letta da oltre 10.000 persone.
Yvonne Campedel (Recanati, 1992) lavora come illustratrice e grafica pubblicitaria dal 2016. Ha illustrato libri per Bloomsbury Publishing, Oxford press, Clementoni, Nomos edizioni e il Battello a Vapore. Ha scritto e illustrato l’albo Il viaggiatore immaginario (KM edizioni 2021).
Il suo primo romanzo per l'infanzia è Nilde Sterminio e il mistero della villa abbandonata (il Battello a Vapore 2023), vincitore del Premio il Battello a Vapore 2022.
Un racconto di Chiara Cerri
Numero di battute: 2456
In un settembre che si era mangiato l’estate, mi ero trasferita in città per frequentare una scuola di ballo. Mio padre prima di partire mi regalò un coltello da campeggio, a lama grossa. Lo interpretai come un gesto d’amore.
Passai l’inverno a portarmi a casa coreografie monche, da ripassare di notte. Il mio corpo, tra demi plié, grand plié e relevé, non era mai abbastanza armonico; i miei movimenti mai all’altezza degli altri. C’era poi l’odore di pesce che la mia pelle emanava, la periferia, a seguirmi ovunque per la città.
Marino lo conobbi dall’alto. Dalla scala antincendio dell’edificio dove seguivo i corsi potevo accedere al tetto, a fine lezione mi piaceva andare a osservare le macerie della mattina fare spazio a quelle del pomeriggio. Quando lo vidi la prima volta, era sdraiato in un canto, all’inizio ho pensato si trattasse di un cane.
«Marino
lo conobbi dall’alto.»
Ogni giorno salivo sul tetto per guardarlo, passava il tempo accucciato con un libro tra le mani e solo quando vedeva arrivare delle persone si alzava. Da lontano non capivo cosa facesse. I suoi movimenti nell’aria erano simili alle mie coreografie, monchi, scombinati, ma pieni di una passione disperata.
Un giorno mi avvicinai. Recitava dei versi, aveva il viso maculato a macchie rosse scure. La cosa che più mi colpì di lui era che rideva solo con i denti di sotto: dei piccoli rettangoli circondati di nero e sangue rappreso, quelli di sopra nascosti dentro al labbro. Come se avesse voluto nascondere al mondo una piccola parte di sé.
Ogni volta che sorpassavo il viale della stazione, stringevo tra le mani il coltello da campeggio di mio padre. Mi arrivava addosso un vento freddo e il fiato caldo di vino di Marino era la cosa più familiare che avvertivo.
L’ultimo giorno del corso organizzammo una festa, alcuni di noi avrebbero provato a fare i ballerini sul serio. Audizioni, e cose così. Io non avevo i soldi per restare in città e mi mancava il mare.
Sul treno di ritorno chiamai mia madre e le dissi che quell’estate avrei lavorato al mercato con lei. Il martedì e il giovedì arrivavano i carichi di frutta e verdura alle cinque di mattina. Pareva felice.
Della città ricordo poco. I palazzi, lo sferragliare dei treni, la scuola di ballo, le facce dei miei compagni, ho un ricordo vago di tutto. Ricordo soprattutto le poesie di Marino, srotolate nell’aria ferrosa della stazione. Poi ingollate dai piccioni. Storte, come le mie coreografie.
Provai a ridere mostrando solo i denti di sotto.
Chiara Cerri è nata in Toscana, ora vive a Torino. Si destreggia tra fotografia e altri lavori. Suoi racconti sono apparsi su Carie, SPLIT, Nazione Indiana, Rivista Blam e Grado Zero.
Un racconto di Matteo Giordano
Numero di battute: 2445
Lia respirava così forte che pareva una locomotiva a catarro; tremava sotto la pioggia gelida protetta solo dal suo vestito di velluto giallo, da casalinga anni Settanta o mercatino rionale da tutto a cinque euro. Strizzava gli occhi che pareva le dovessero schizzare fuori dalla testa mentre con le mani aveva stretto la bottiglia con ancora due dita di birra dentro fino a spaccarla. Il fumo del respiro la avvolgeva.
Io correvo, e voltandomi vidi la sagoma sottile di Lia nella luce tremolante dell’insegna con la scritta “bar centrale”; mi allontanavo da lei, dalla luce, e davanti avevo solo il buio delle strade vuote del Kali Yuga; speravo almeno di non farmi fermare da una pattuglia a cui forse non sarei riuscito a spiegare il senso di quella fuga, ammesso che ne sia mai esistita una con un senso.
«Davanti avevo solo il buio delle strade vuote del Kali Yuga.»
In fondo alla strada, quando le ultime case spariscono e inizia la campagna, di colpo sentii la mia mente staccarsi dal corpo, l’anima dalla materia, come quando salta un legamento o un muscolo si strappa. Non potevo più muovermi e caddi a terra sul ginocchio sinistro, la gamba destra era piantata al suolo e pulsava di dolore.
Lia invece di inseguirmi si era chinata sopra l’impronta bagnata dei miei scarponi che luccicava sul porfido e aveva iniziato a infilzarla con le schegge di bottiglia rotta, rabbiosa, fino a sbriciolarle tutte.
«Hai preso qualcosa? Ehi, hai preso qualcosa?» continuava a chiedermi con insistenza un carabiniere poco più grande di me che mi aveva trovato a piangere per il dolore a bordo strada.
«Ho lasciato la mia ragazza, l’ho lasciata e ora non mi posso muovere più.»
Al pronto soccorso non mi trovarono nulla fuori posto, i miei piedi non erano feriti.
Tornai a casa che era quasi mattina e trovai Lia seduta davanti al mio portone con i vestiti umidi appiccicati addosso e pensai alla prima volta che l’avevo vista, seduta su una stuoia nella parte della libreria esoterica dedicata alla meditazione intenta a tracciare lo schema di un kalpa, un ciclo cosmico, su un quaderno a quadretti.
«Sapevi che l’Era del cinghiale bianco dura 306.720.000 anni?» mi aveva detto senza nemmeno sollevare lo sguardo e la bic profumata dal foglio.
Lia era davvero convinta che saremmo rimasti insieme per tutto il tempo che ci restava da trascorrere in questa Era, ma non pensavo che per tenermi legato sarebbe arrivata a provare su di me uno dei suoi riti di magia omeopatica (o era magia contagiosa?).
Devo rileggere Frazer.
Matteo Giordano è nato nel 1981 a Sondrio dove attualmente vive dopo avere trascorso quasi dieci anni a Londra. Suoi racconti sono stai pubblicati su Carie e Settepagine. Ama correre ultramaratone e collezionare vinili anni Ottanta.
Commenti recenti