Un racconto di Gianluca Herold
Numero di battute: 2499
Altro che intervenire, l’Assurdità fondamentalmente se ne infischiava, acquattata al calduccio sulla tubatura dello scaldabagno, mentre Stefano sbarrava gli occhi sull’app e non riusciva a farsi una ragione del perché il rider avesse imboccato via Eustorgio invece che Settembrini. Voglio dire, pensava Stefano, che senso ha allungare così, il navigatore fa cilecca ma non lo vedi il pavé, c’è pure il pavé, la cheesecake sarà già un disastro. Stava per addentrarsi nella sezione apposita quando il citofono aveva trafitto il suo sacrosanto proposito di reclamo.
L’Assurdità per un attimo si era alzata sulle sue zampette pelose, si era stiracchiata e aveva teso l’orecchio, ma ovvio che no, era il tizio del secondo piano che aveva dimenticato le chiavi. Così Stefano era tornato alla posizione del rider, che nel frattempo si era spostata sul bordo della darsena. Fermo lì, come se prendesse il sole ciondolando i piedi sull’acqua.
«Altro che intervenire, l’Assurdità fondamentalmente
se ne infischiava.»
Dopo aver ricaricato la pagina dell’app due volte, tre, Stefano si era messo la giacca sopra il pigiama ed era salito in sella al motorino, piegato in avanti come un cane da punta, e così dietro di lui volendo c’era tutto lo spazio per acciambellarsi, e l’Assurdità infatti si era acciambellata.
Comunque la città era piacevole da attraversare a quell’ora, col vento in faccia e quel sole tiepido come un chicco di mais appena scoppiato. Durante il tragitto Stefano cercava di ricordare se la cheesecake potesse smontarsi, forse no, però di certo il pavé non le aveva fatto bene, figurarsi quel sole che adesso picchiava sull’acqua e si sbriciolava come fosse fatto di vetro mentre il motorino veniva sollevato sul cavalletto centrale alle spalle dell’unico rider seduto sulla riva, il cassone da una parte e la bicicletta dall’altra.
Stefano aveva forse pronunciato male il suo nome, e quello si era girato con una lentezza bovina e si era leccato l’angolo della bocca dove brillava ancora uno sbaffo di confettura al maracuja. E lì sì che l’Assurdità era scesa con un balzo dalla sella e aveva preparato la schiena per l’agguato, ma poi Stefano aveva chiesto spiegazioni, perché aveva mangiato il suo ordine, e quell’altro sbatteva gli occhi con estrema sonnolenza e sembrava non capire, salvo poi prendere lo smartphone e digitare sul traduttore singalese-italiano due parole: meglio pistacchio, e poi alzare le spalle.
L’Assurdità era confusa, aveva una gran voglia di alzare una zampa e darsi una pulitina là sotto, sì, provava sentimenti davvero contrastanti.
Gianluca Herold è redattore freelance presso BUR Rizzoli. Ha pubblicato articoli e racconti su Lo Sbuffo e Rivista Undici.
Un racconto di Cristina Ferrazzi
Numero di battute: 2467
Decisi di aprire l’uovo appena tornata. Un colpo sicuro e cadde concentrico a olio e sale. Ma o ci vedevo doppio o stavo guardando qualcosa di strano, gli occhi del diavolo. Aprii Google: uovo con due tuorli, si può mangiare? Uscì un solo risultato che diceva 1 su 100 milioni. Punto. Significa che la tua vita sta per cambiare. Fui spaventata. Cosa sarebbe cambiato esattamente? Pensai ai miei difetti più terribili: il corpo sbilanciato a sinistra, il mancato senso d’ironia. Il cane tormentato, e quel padre che tentava di farmi da madre.
I tuorli bruciarono fino a scomparire nel nero. Picchiettai la nuca per riprendere lucidità e gettai tutto nel lavandino. Mi sciacquai le mani. Non volevo più pensare alla sensazione di inadeguatezza che soltanto un evento ordinario, come rompere un uovo, può farti provare. Passai oltre mettendomi a dormire.
Un odore di bruciato mi svegliò di colpo. Tornai in cucina per verificare se le uova fossero tornate integre sul fuoco, ma no, c’era mia sorella. Le chiesi cosa stava facendo e rispose: «Un toast». Mi rimisi sul divano. Con le gambe a terra fissai il soffitto fino a che arrivò a sedersi accanto.
«Perché teneva un uovo in borsa?»
«Cosa mangi?» le chiesi senza guardarla.
«Il toast. Ne vuoi un po’?»
«Non mi sembra l’orario per mangiarsi un toast» dissi.
«Ma si può sapere cos’hai?»
«Mah, nulla.» La guardai. «Oggi. Al supermercato. Ho incontrato una vecchia alle casse. Mi ha chiesto se potessi andare a prenderle delle lenticchie.» Avevo la sua attenzione; il boccone tra i denti rallentò. «Ma non è un po’ bruciato quel toast?»
«No. E poi?»
«Nulla. Sono andata a prenderle e per ringraziarmi mi ha dato un uovo che teneva in borsa.»
«Perché teneva un uovo in borsa?»
«Oddio, non lo so. Ma non è questo il punto. Il punto è che l’ho aperto e aveva due tuorli.»
In quel momento salì la rabbia con un senso di cedevolezza del corpo. L’uovo mi aveva fatto pensare a cose a cui non volevo aver pensato. Mi sdraiai con il cuscino in faccia come d’estate con le zanzare. Sentivo ancora mia sorella masticare.
«Puoi mangiare più piano? Aaah non sopporto quando mangi!»
«Ma? Tutto qui? Anche a me una volta è successo. Quello che non mi è successo è di trovare una vecchia con un uovo nella borsa, sinceramente.»
Tolsi il cuscino. Volevo delle risposte. «La tua vita dopo è cambiata?»
«No, non direi.» Aveva finito il toast. Si scrollò le briciole dalle mani e andò verso la cucina con il piatto vuoto. Di spalle disse: «Forse se vuoi cambiare ti serve un’idea migliore».
Cristina Ferrazzi ha ventiquattro anni e ha studiato Arti del Racconto a Milano. Ha lavorato in una casa di produzione cinematografica e sul set come assistente alla regia. Le sue esperienze si dividono tra cinema e letteratura. Scrive di cose quotidiane.
Un racconto di Emanuele Muscolino
Numero di battute: 2470
Cos’era, un sogno? Forse un sogno. Ero piccolo, ero allegro, correvo. Qui nello specchio sono un vecchio. Era un sogno.
Inciampo su una sagoma nera, non è nera, è grigio scura, non è una sagoma, non ha neanche una forma. È un buco, una macchia. Come ho fatto a sbatterci? Passo dritto, non la voglio guardare, rischio di credere che esista davvero. Dio, l’ho toccata, ci ho sbattuto. Torno indietro: è solo una macchia, una macchia fuori fuoco. Avvicino una mano, allungo le dita, non arrivo a toccarla. Riprovo: niente, nessuna consistenza, la mano passa oltre, arriva al pavimento, è liscio come sempre. È ora di fare colazione. Che ore sono? C’è luce fuori?
Nel sogno avevo occhi di un altro colore. Azzurri. Io non ho occhi azzurri. E un segno, un segno sul braccio che non ho. È un sogno ricorrente. Mi rivedo bambino, felice, ma non mi riconosco. Sono io, non posso che essere io. Eppure non mi assomiglio.
«Che ore sono? C’è luce fuori?»
In ufficio posso lacerarmi. È facile, basta afferrare un tovagliolo. Un tovagliolo non taglia, ma la stoffa può diventare ruvida. Basta lavorarci. L’anta scheggiata dell’armadietto mi ha sbucciato il pollice. Un taglio profondo, fino alla carne, un rosso vivido. Come le branchie di un pesce agonizzante, così è il mio pollice.
Vedo alberi di uomini: uomini come rami, neonati come frutti, appallottolati, cadono su un letto di foglie morte. Si alzano, tornano all’albero e si arrampicano: è un vecchio muscoloso l’albero, ha membra cadenti. Scalandolo i pupi si fanno ragazzi; raggiungono il ramo che li ha generati, prendono il posto accanto alla donna: sono adulti. La donna è anziana. Il sole è alto, come quando sono caduti. La donna cade e si fa foglia: anche il sole cade, è notte.
I sogni mi riportano a un passato che non ricordo, ma che mi appartiene. Mi guardo allo specchio a tutte le ore e non vedo i segni di ciò che ero. Rimango al buio, nello sgabuzzino: un buco di un metro per uno, scaffali ovunque, senza spazio per voltarsi. Ci sono cassetti, vani, pertugi tra le cose ammucchiate, spifferi da cui potrebbe uscire qualsiasi cosa.
Madre, se fossi nato con le rughe mi avresti amato?
Sto cercando dentro di me i pezzi del bimbo che vedo la notte. Non li trovo. Non mi appartiene, non c’entra con me, eppure mi somiglia. Ora mi somiglia. Non è demenza, dicono, solo il desiderio di tornare piccolo.
Mi sto preparando a un’altra vita, sto partendo per un viaggio. Ho deciso di andare, sono in ospedale. Dove si nasce e si muore. Io vado a rinascere.
Emanuele Muscolino è nato a Roma nel 1984. Dopo la laurea in Arti e scienze dello spettacolo ha pubblicato il saggio Paradossi della soggettiva. Visione pura e visione-sguardo nella sequenza cinematografica. Ha lavorato come montatore per il cinema e la tv ed è autore di cortometraggi, documentari e reportage girati tra Asia, Africa e America Centrale. Da quando ha letto Gödel, Escher, Bach ha cominciato a scrivere. Un suo racconto è apparso su inutile, un altro è in uscita su Blam.
Un racconto di Andrea Scagliarini
Numero di battute: 2498
Ti chiami Alfonsa e adori il tango. Lo adori al punto da farne una ragione di vita. Non perdi un solo evento dove praticare quel ballo che ti ha sedotta. Ti piace la commedia umana di essere scelta da un hombre. Ami contare i passi di quella musica ipnotica e sensuale. A chi ti domanda se non ti dà noia ballare sempre gli stessi tempi binari rispondi che il tango è diventato la tua malattia perché è durante la malattia che scopriamo quanto sia importante la vita.
Dopo l’incidente che ti ha tenuta lontana da tutti, ricominci una nuova vita più rilassata, più meditata, più consapevole. Ora incedi con un passo lento che tu stessa definisci da funerale. Un funerale a cui sei sfuggita malgrado la tua auto non avesse conservato alcuna forma agli occhi dei primi soccorritori.
«Uno, dos,
tres, cuatro…»
La riabilitazione è un percorso lungo e faticoso, segnato da momenti di angoscia, di forzata solitudine o di silenziosa riflessione sul presente. Allontanato lo spettro di una vita senza camminare, ricominci a pensare ai tuoi progetti, una casa nuova, cibi sani, yoga, eliminare il superfluo, selezionare le amicizie e ritrovare al più presto la via del tango. Uno, dos, tres, cuatro…
Ricominci a contare i passi appena sei in grado di scendere da sola dal letto. Una volta, vieni rimproverata dal medico che ti ha vista ballare nella corsia del reparto. Ma è l’incontro con un giovane bruno a segnare il tuo ritorno alla vita. Di notte, vi ritrovate sempre alla stessa ora. Fumate di nascosto sul balcone. Ridete, scherzate sottovoce. Lui non conosce il tango, tu glielo spieghi anche se balli con una gamba rigida. Piede destro in avanti lui, spalle in linea, piede sinistro indietro. Ora, ti senti una perfetta mujer. Provate semplici passi, senza essere scoperti. Avverti un’intima complicità. Vi promettete di ballare insieme appena sarai guarita. «Ti insegnerò io. Aspettami.»
Dopo alcuni mesi, vi incontrate. Noti subito che lui è cambiato. Lo inviti in una milonga. Lui accetta, ma non ricorda più l’ordine dei passi. È sudato, confuso, stanco, confessa di avere dei problemi. «Non ti preoccupare» gli sussurri. Lui è sempre più distratto, ma non spiega il perché. Esce improvvisamente a fumare. «Aspettami qui.» Lo attendi mentre la musica suona sempre più forte. Vorresti chiamarlo, ma scopri di non avere più il telefono, né il portafoglio. Il tango rimbomba nel salone vuoto. Solo una coppia continua a ballare mentre il barista sbadiglia annoiato. Nella penombra, senza essere vista, inizi a singhiozzare.
Andrea Scagliarini (1961) vive a Torino dove, oltre all’insegnamento nella scuola secondaria superiore, si dedica all’attività di musicista freelance. Ha seguito i corsi di Guido Conti presso Cooperativa Letteraria e di Giulio Mozzi presso La bottega di Narrazione. I suoi racconti sono apparsi sulla rivista letteraria Fuori Asse e, da sempre, insegue la pratica lenta e faticosa della narrazione breve.
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