Un racconto di Davide Diperna
Numero di battute: 2474
Oggi è stata una lunga giornata, diceva Guido, e subito Gina capiva che voleva fare l’amore. Il rituale seguiva una formula inveterata: Gina allungava il braccio fuori dalle coperte e diminuiva l’intensità della lampada riducendola a quella di un crepuscolo morente. Era un compromesso negoziato agli inizi del matrimonio, quando ancora litigavano fra luce e buio. Guido, invece, infilava la mano nel cassetto, premeva fuori dal blister una pillola di Spedra e la deglutiva con mezzo bicchiere d’acqua a temperatura ambiente. A quel punto Gina si alzava e così, per abitudine, faceva cautamente scattare la serratura della camera da letto per non svegliare i ragazzi che tanto non c’erano più.
Ultimati i preparativi, si ritrovavano nel letto, in silenzio, con le coperte fino al mento e una trentina di minuti da ingannare. Non si guardavano mai durante quel frangente. Nicchiavano fin quando Gina, giudicando i tempi maturi, poneva fine agli indugi facendo scivolare la mano sul basso ventre di Guido. Sfruculiava i genitali per una manciata di secondi poi, incoraggiata dall’aumento del flusso sanguigno, afferrava il membro e lo stringeva con pudore circospetto.
«A parte il cigolio delle molle,
non si sentiva
un fiato.»
Così Guido le si capovolgeva sopra e dava inizio all’amplesso. A parte il cigolio delle molle, non si sentiva un fiato. Gina pensava a Dario, l’ultimo, quello che lavorava in Inghilterra. Si chiedeva se avesse mangiato, come se ci fosse la più remota possibilità che ciò non accadesse. Pensava a Salvo, il grande, al suo lungo precariato e al terzo nipotino in arrivo. Anche a quello di mezzo pensava, Marco, quello sfasato, che più di tutti occupava i suoi pensieri e per cui pregava tutte le sere.
Dall’altra parte Guido non pensava a niente. Esercitava ogni sua facoltà per non sottomettersi all’ebbrezza del sesso. Tratteneva il fuoco dentro, perché a rilasciarlo si sarebbe mostrato debole. Per decenza Gina manteneva un profilo altrettanto basso, almeno all’inizio. Poi, però, con l’approssimarsi del piacere, si faceva scappare dei fievoli gemiti che prontamente soffocava per non svegliare i ragazzi che tanto non c’erano più.
Guido no. Piuttosto rimaneva in apnea. Anche alle porte dell’orgasmo difendeva la sua virilità con il silenzio, come gli aveva insegnato la vita. Quella sera, poi, una volta arrivati, vennero, insieme, come al solito. Era una benedizione di cui non erano pienamente consapevoli. Da quando i ragazzi avevano lasciato il nido vuoto era cambiato tutto: tutto tranne l’amore.
Davide Diperna nasce a Foggia nel ’98. Dopo il diploma classico girovaga fra Roma, Praga e Città del Capo dove lavora, studia e impara un po’ di tutto. Oggi studia Letteratura Anglosassone con un’enfasi in Scrittura Creativa negli Stati Uniti.
Un racconto di Giancarlo Dicarolo
Numero di battute: 2492
Talvolta un tiepido ricordo persiste nei recessi della memoria e opera tenace come un tarlo. Il tenue sole di un esordio d’estate riscaldava la mia testa calva e mi riportava alla mente un episodio della mia adolescenza. Nel villaggio di pescatori dove soggiornavo d’estate, avevo più volte osservato i giovani virgulti di quella rude generazione misurarsi nell’impresa di attraversare a nuoto l’ingresso del porto.
Come una lucertola al sole, fingevo di non vedere le chiassose combriccole che compivano la traversata. Così la chiamavano. Simulavo disinteresse, ma invidiavo quelle epiche spedizioni ed ero certo di non essere da meno.
«Non volli testimoni.»
Il martellare cadenzato e oppressivo di quei pensieri mi tormentò sino a quando mi sentii pronto per l’impresa. Non volli testimoni, così una mattina quieta di un agosto torrido, al sorgere del sole, dopo aver sciorinato una serie di scuse puerili alle zie che mi ospitavano, mi allontanai per ritrovarmi sulla punta estrema del molo maggiore da cui vedevo chiaramente il punto di arrivo.
Una strana euforia mi pervase. Mi tolsi la maglietta e la nascosi con le ciabatte in un anfratto della scogliera. Mi preparai al tuffo decisivo su di una chianca che lambiva l’acqua calma del porto. Chiusi gli occhi per trovare la concentrazione mentre il sole ormai caldo mi scaldava la fronte. Poi, come richiamato da una forza superiore, mi lanciai in mare con un tuffo a pelo d’acqua.
Riemersi qualche metro più avanti in direzione del piccolo faro e iniziai a nuotare vigorosamente. Un senso di energia e una vitalità senza limiti mi spinse per molti minuti verso la meta, mentre una profonda commozione per il mio virile coraggio mi pervadeva.
Circa a metà del tragitto commisi l’errore di rallentare e di fermarmi. In quel punto il mare era nero e un po’ agitato e, osservando il piccolo faro che avrei dovuto raggiungere, ebbi l’impressione che fosse lontanissimo. Dominai il panico che sentivo salire dentro di me e che mi paralizzava le membra. Mi dissi che ero stato sfortunato, la giornata era inadatta e il mare troppo inquieto. Non mi arrendevo, semplicemente rimandavo l’impresa. Tornai e risalii sugli scogli che iniziavano a popolarsi di bagnanti.
Steso al sole mi consolai dicendo a me stesso che avrei potuto farlo in qualunque altro giorno. Continuo a scorrere il giornale dei miei ricordi e mi chiedo se nello sfavillare di quella estate remota e nella mia vile resa non si origini la crepa dolorosa che percorre ancor oggi la mia vita infelice.
Giovanni Carlo Generoso Dicarolo nasce a Foggia nel ’59. Dopo una breve esperienza di lavoro presso la televisione nazionale come collaboratore del giornalista Mino Damato, intraprende la professione di insegnante di Latino e Greco che tuttora esercita. È presente su Instagram e TikTok con il profilo “latinointernos”, dove parla di cultura classica e lingua latina. È appassionato di narrativa e di poesia in versi.
Un racconto di Matteo Camerini
Numero di battute: 2398
Pitagora si svegliò.
Tutto era buio attorno a lui, lei, esso. Non erano spazio o movimento ciò che percepiva nei confronti dell’esterno, bensì qualcosa di più simile all’appartenenza. Un senso elettrico di nutrimento la attraversò. Una scossa rapida, come se qualcosa di necessario le giungesse. Doveva accogliere, e poi tacere. Tacere, e dopo accogliere. Limitarsi a crescere, senza andare verso nulla, né verso il nulla.
Pitagora era una fava. Il buio del baccello la sua casa. Era la primogenita, il più grosso: la prima a ricevere la dolce clorofilla dalla madre-padre Fava. Un tessuto infinito, poi, lo legava al fusto della pianta, alle radici, all’acqua sotterranea, e al terriccio fertile e così infine alla rocciosa antichità del suolo. Tutto era connesso, immobile e conduceva sino a lui, sino alla fava-singola, fava-Pitagora.
«Tutto era connesso, immobile
e conduceva
sino a lui.»
Ad un certo punto, però, qualcosa di imprevisto accadde: l’ultima fava iniziò a tremare. Dal fondo del baccello trasmise il fremito alla penultima e lo stesso fece quella e così l’altra, fino a raggiungere Pitagora. Un urlo di paura nel linguaggio delle fave. Qualcosa di incredibilmente tragico stava avvenendo oltre la corazza interna. Le fave tremavano sempre di più, fino quasi a contravvenire alla più severa legge delle fave e delle piante: stare. Pitagora era inquieta. All’improvviso, poi, dal fondo del baccello uno sciabordio di luce accecante: un buco!
Il foro si allargava, sempre più velocemente. L’ultima fava iniziò, a questo punto, a gridare nella telegrafia elettrica di fava: «Pappuddo! Pappuddo!». Pitagora trasalì. Dunque, il Pappuddo, la leggendaria nemesi, il vermicello favicida, non era un’invenzione, ma realtà. E ora, un passo dopo l’altro, l’essere malvagio invadeva il loro nido con la sua bocca enorme e con quegli anelli energici e potenti. Presto, tutte le altre fave erano spolpate, traforate, scomparse.
Pitagora, con il suo corpo interamente fava, e la sua mente interacorpo fava, giaceva immobile, legata al pavimento del baccello, e vedeva, con la coda dei suoi occhi-fave, il mostro serpeggiare e avvicinarsi per montare su di lei. Avrebbe voluto fuggire e chiedere aiuto, ma nulla poteva fare.
«Tempo mi devi dare, ma ti rosicherò» ghignava, perversamente, il verme.
Pitagora chiuse gli occhi e si preparò all’impatto viscido e mortale. Sentì il Pappuddo mordere la prima sottilissima estremità di quel suo corpo. Svenne.
Matteo Camerini è nato a Matera nel 1999. Sta per laurearsi in Scienze Filosofiche tra Bologna e Parigi. Scrive racconti e poesie, alcuni dei quali apparsi su Nazione Indiana, Blam, Quarta Corda, Versante Ripido. Nel 2022 esordisce alla regia con lo spettacolo teatrale Gilgamesh con Martina Santospirito e il collettivo Ferula. Ha partecipato ai libri collettivi Canto all’Ofra (2021) e Al bivio. La giovane scalmana di Rocco Scotellaro (2023) con il fumettista Giuseppe Palumbo e altri.
Un racconto di Chiara Pascucci
Numero di battute: 2202
Ogni giovedì Vanessa salva la sua vita dall’insoddisfazione del quotidiano con un aperitivo di solidarietà femminile. Scelgono una parola e su quella discutono. Ridono, piangono, ridono ancora, è una finestra aperta in una stanza dall’aria pesante.
Vanessa arriva al caffè in anticipo, si siede all’unico tavolino libero addossato in un angolo del locale e aspetta le amiche. Rebecca, con il figlio a seguito, e Anna arrivano poco dopo e mentre il cameriere porta gli spritz e un succo per il bambino, Vanessa intavola la conversazione sulla parola “distanza”. Il bambino tira fuori colori e quaderno e si mette a disegnare.
«I miei obiettivi sono molto distanti da quelli del mio capo» dice Anna, che lavora per una multinazionale. Ridono nel rievocare certe nefandezze del principale, entrate nel novero dei classici della loro piccola letteratura orale.
«Ridono, piangono, ridono ancora.»
«Certe volte io e mio marito siamo molto distanti, ma poi parliamo e facciamo pace» dice Rebecca sgranocchiando una patatina per nascondere l’imbarazzo, sa che alla parola pace le sue amiche hanno pensato a sesso selvaggio. Il bambino disegna e intanto dondola i piedi, colpendo con la punta la gamba di Vanessa.
«A volte conto i giorni che mancano al nostro appuntamento, anche questo è distanza, giusto?» dice Vanessa girando il ghiaccio dello spritz.
«Oh, cara!» dicono in coro le altre due, allungando le mani verso di lei; intanto il piede a pendolo del bambino non smette.
Anna e Rebecca continuano a parlare dei peggiori frutti della distanza tra gli affetti, ma Vanessa non riesce a concentrarsi perché il bambino, tra un sorso e un arcobaleno, continua a farle perdere il filo del discorso.
Poi dal nulla il marmocchio inizia a urlare, tutti nel bar si girano verso di lui. Rebecca inizia a domandargli spiegazioni cercando invano di calmarlo. Anche Anna si prodiga con parole consolatorie. Vanessa, immobile, segue la scena. Tra gli sguardi inquisitori degli astanti le amiche si salutano in fretta, Rebecca prende il bambino che continua a strillare ed esce con Anna al seguito che porta giacche e borse.
Vanessa rimasta sola si massaggia la gamba, ordina un altro spritz e sospirando scrive su un tovagliolo la parola per la settimana dopo.
Chiara Pascucci, nasce e vive in Romagna. Laureata in Lettere moderne, scrive perché ama le parole e il filo rosso che le unisce.Ha pubblicato alcuni racconti sulla rivista Graphie.
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