Silvia Pelizzari è nata nel 1983 e vive a Milano. È ideatrice e autrice di Tiresia, un podcast sulla letteratura queer (Emons Record, 2022); ha scritto di libri su «Pagina99», «Minima et Moralia», «L’indiscreto», «Kobo» e «Huffpost»; ha co-diretto «Finzioni Magazine» e pubblicato racconti per riviste online e antologie, l’ultimo dei quali è presente in Stasera faremo cadere il cielo, a cura di Giuliana Misserville, (Zona 42, 2024).
È socia della libreria Alaska e organizza eventi culturali.
Un racconto di Stefania Maruelli
Numero di battute: 2441
Fare i conti con la mia mancanza di utilità ha richiesto una sorta di fisioterapia, come se stessi curando un polso slogato. Ecco il mio esercizio: aprivo una porta e immaginavo il mondo ideale. Se ne stava lì, a portata di mano. Aprendo la porta del bagno, commentavo ad alta voce che bella giornata fosse, alla porta della camera da letto raccontavo i miei appuntamenti inventati. Allungavo una mano nell’armadio e dicevo, Che bello, oggi metterò questo vestito.
Facevo pratica con le porte e le ante dopo che Luca se ne usciva per andare al lavoro. Aspettavo di restare sola fingendo di dormire, poi, appena sentivo chiudersi la porta di ingresso, sgattaiolavo fuori dal letto e correvo in cucina, aprivo la dispensa e dichiaravo che avrei fatto una torta – di mele, soffice – da mangiare col secondo caffè. Quindi riscaldavo quello avanzato e lo buttavo giù appena prima di accendermi una sigaretta.
Hai visto che sole? dicevo alla finestra, oggi andrò a fare una passeggiata. Dopodiché la richiudevo e tornavo a letto; non mi alzavo mai prima di mezzogiorno, quando scendevo a ritirare la posta – pacchi di Amazon perlopiù (maschere per il viso, pillole, integratori, sonniferi) – dalla portinaia.
«Aprivo una porta e immaginavo
il mondo ideale.»
Farmi vedere da lei era importante: significava che quella mattina mi ero svegliata, significava che stavo curando quel polso slogato, significava che non ero del tutto inutile. Mi infilavo il cappotto sopra il pigiama, raccoglievo i capelli e mi passavo del rossetto sopra le guance; le sorridevo. Lei mi allungava i pacchetti e intanto mi valutava: se andavo bene mi salutava con un cenno senza smettere di parlare al telefono, se andavo male mi sorrideva e mi apriva il portone – allora ero costretta a uscire e tornare dopo mezz’ora. Capitava almeno un paio di volte a settimana. Mi allungavo fino al bar all’angolo e chiedevo un caffè che bevevo controllando il portone di casa: appena lei usciva, io tornavo.
Il pomeriggio era più lento, lo passavo sui social a controllare la vita degli altri come la portinaia controllava la mia; alle sei aprivo una bottiglia di vino, riempivo un piattino di olive e bevevo sul divano mentre andava il telegiornale. Non sempre era interessante, allora cercavo una malinconia, a volte piangevo pensando a un uomo inventato; quando Luca tornava accendeva le luci, svuotava la spesa, apparecchiava la tavola; io allora infilavo un paio di jeans e passavo di nuovo il rossetto.
Stefania Maruelli vive a Milano dove lavora come copy e editor freelance. Ha frequentato corsi di scrittura creativa presso Scuola Holden, Belleville e Bottega di narrazione. Ha studiato editing con Michele Vaccari e con Francesca de Lena. Suoi racconti sono apparsi su inutile, Narrandom, L’Inquieto, L’irrequieto, Risme, Allarmata radura e altre riviste online.
Un racconto di Gianfranco Martana
Numero di battute: 2302
Di fronte alla mia finestra c’è un’altra finestra. Separate da una lama d’ombra, sono altissime entrambe, come piante cresciute a dismisura per cercare il sole. A volte noi del vicolo ci affacciamo insieme, attratti da fuochi lontani o grida disperate. In quei momenti sembriamo i passeggeri di due treni fermi da tempo che, inquieti per l’attesa, sporgono la testa come vacche alla rastrelliera, finché non si riparte in direzioni opposte.
La mia dirimpettaia è giovane, non può ricordare i treni coi finestrini che si aprono, e forse non ha mai visto una vacca. Anche la parola “dirimpettaia” dev’esserle ignota, caduta in disuso da quando vivere faccia a faccia non è più un invito a conoscersi. Di fatto, fu proprio così che conobbi la mia prima fidanzata: eravamo due autoritratti nella cornice della finestra e ci guardavamo come se fossimo due opere d’arte.
Da un po’ di tempo, la gente del vicolo sporge la testa ogni sera per cantare. Dicono che attenui l’ansia, ma io ci credo poco, e mi affaccio solo se si affaccia lei, canto solo se canta lei. Se non conosco le parole faccio finta, se lei storce la bocca lo faccio anch’io, e la guardo negli occhi con occhi che ridono, per insinuare malevolmente che certe canzoni sono più un danno che un rimedio.
«Di fronte alla mia finestra c’è un’altra finestra.»
Oggi è apparsa nella sua cornice con un grazioso broncio di sonno e una maglietta stropicciata. «Appena svegliata?» Ha fatto di sì con la testa sull’attacco di Azzurro. «Di notte non dormo e di giorno finisce che crollo. Cantiamo? Mi accorgo di non avere più risorse senza di te...» Abbiamo cantato, abbiamo applaudito con sciocca commozione e, ritirando le nostre teste, siamo tornati a quello che restava delle nostre vite.
Dopo un po’ sono tornato alla finestra per lasciare sul davanzale una manciata di ceci, come promemoria di un’idea per una di quelle notti in cui neanch’io riesco a dormire. Se riuscirò a trovare il coraggio, mi alzerò dal letto allo spegnersi delle ultime voci del vicolo e li lancerò uno alla volta sul vetro della sua finestra finché non sarà venuta ad aprirla; a quel punto, se non me la richiuderà sul muso, le parlerò delle teste che sporgono dal treno inalando un’aria di ferro, della stalla tiepida e scura dei miei nonni e dei dirimpettai che, in un tempo lontano, si davano reciproco sollievo dall’insonnia.
Gianfranco Martana è nato a Napoli nel 1971. Cresciuto a Salerno, si è trasferito prima a Brighton e poi a Valencia. È dottore di ricerca in Italianistica. Autore di una quarantina di racconti pubblicati in riviste italiane e spagnole, è stato finalista al Premio Solinas con la sceneggiatura Mammaliturchi!, che a breve uscirà in forma di romanzo presso Inknot Edizioni. Il suo primo romanzo è stato Un’opera di bene (Ellera, 2015).
Un racconto di Dario Fedeli
Numero di battute: 2450
Le macchine che stendevano il bitume ringhiavano, gli operai vociavano, ma lei ancora se ne stava rannicchiata sotto le coperte.
Lui sarebbe rimasto a guardarla per ore, ma invece corse a spalancare la finestra: voleva che ogni rumore esplodesse nella stanza. Ma neanche quello fece tornare in vita la bella addormentata.
Allora le scosse piano una spalla. «Rossella.» Niente. «Rossella»; una supplica sbiadita gli colorava le labbra.
Alessandro guardò l’orologio: erano le 7:10. Diede subito le spalle a quella figura nel letto, simile a una bambola di pezza, e raggiunse con ampie falcate la camera di Ginevra e Daniele. Aprì piano la porta e poi poggiò una mano sui corpi addormentati dei fratelli.
«Chi è pronto per dei pancake con la nutella?» ed entrambi scattarono come due molle.
«Io, io!» squittirono in coro.
«Chi finisce di prepararsi per primo se ne becca due in più!»
«Voleva che ogni rumore esplodesse.»
Neanche venti minuti dopo, Ginevra e Daniele erano a tavola, lindi e puliti. Alessandro mise i pancake nei piatti dei fratelli, lasciò loro il controllo della nutella, sperando che non si sporcassero.
Poi si precipitò in bagno per prepararsi. Mentre si lavava i denti, fissò il suo riflesso: le labbra gli tremarono, ma poi il bitume che bruciava qualche piano sotto di lui cominciò a scorrergli nella pancia, e lì si mescolò e rimescolò; l’umida debolezza che ricopriva Alessandro arse come una strega sul rogo.
In tempi record, lasciò Ginevra e Daniele alle elementari, poi raggiunse il parcheggio della scuola media; una macchina lo superò: Leonardo Svani scese, la madre gli porse la cartella, lo abbracciò e gli diede un bacio sulla fronte.
Quando si girò e vide Alessandro, Leonardo s’intirizzì e si allontanò dalla madre, che corrugò la fronte; Alessandro distolse gli occhi, due tizzoni ardenti, e salì la scalinata che lo portò al cancello della scuola.
I suoi compagni di classe gli andarono incontro appena lo videro, le loro battute si arrampicavano le une sulle altre. E Alessandro si ubriacò di quelle attenzioni.
Ma poi arrivò Leonardo, e lui ripiombò nel pozzo pieno di mancanze che tentava di scalare da quando il padre era fuggito con la badante della nonna.
«Leonardo» chiamò Alessandro, punto da qualcosa in mezzo al petto. «Attento che i bacetti della mami non ti facciano fare tardi in classe», e tutti scoppiarono a ridere.
Ma per quanto quelle risate accarezzassero Alessandro, il bitume gli entrava a forza in bocca.
E lui non poté fare altro che ingoiarlo.
Dario Fedeli, classe 1996, è l’autore del romanzo distopico Choiceless (Bookabook). È attivo sia su TikTok sia su Instagram, social che gli permettono di tenersi in contatto con la sua community di lettori. In ogni attimo di tempo libero, si dedica alla scrittura e alla lettura.
Un racconto di Paola Taboga
Numero di battute: 2449
Lei legge un libro.
Lui, il giornale.
Il sole svagato dell’inverno filtra dal finestrino con una strana, prepotente negligenza.
Lei si alza per abbassare le tendine.
Lui solleva lo sguardo in automatico. Quel tanto che basta per notare una figura esile annegata nei pesanti pantaloni grigi. Il movimento della ragazza riempie lo scompartimento di un profumo fresco: muschio bianco.
Lei riprende il libro guardando il compagno di viaggio che però è quasi del tutto nascosto dal giornale.
Sembra un abat-jour, pensa. Le gambe come base, il giornale come paralume.
Sorride.
«Lei legge un libro. Lui, il giornale.»
Lui gira la pagina e, senza volerlo, nota il viso della ragazza.
Basso, chino sulle pagine fitte. Un viso quasi da intuire.
La fragranza di muschio persiste. Gli piace quell’odore pulito.
Ricomincia a leggere. Ma le parole gli sfuggono, sembrano macchine che sfrecciano veloci e vanno via.
E poi i caratteri prendono a muoversi, quasi fossero attirati da quel richiamo fragrante di muschio, e si raccolgono ai lati del giornale. Al centro, in quella nuova pagina bianca, adesso, c’è il viso della ragazza.
Abbassa di poco il giornale per riuscire a osservarla, di nascosto.
Ha capelli chiari e sottili, pettinati in modo da lasciare libera la fronte, che è alta, con due rughe piccole al centro. Segni di pensieri antichi e persistenti.
E vede le sopracciglia. Lievi e ordinate come cerniere chiuse.
Lei si sposta con un rumore gentile e lui distoglie subito lo sguardo, si imbarazza.
Finge di riprendere la lettura.
Ma poi, con un gesto quasi esasperato, abbassa di nuovo il giornale.
Vede il naso diritto, le palpebre azzurrine – ha la pelle sottile – gli zigomi rotondi.
Un’inutile, qualsiasi ragazza giovane e per bene.
Normale, come una mela un po’ rossa e un po’ gialla.
Ma la fronte e le sopracciglia, no. Ecco. Ecco cos’è.
Quella ragazza ha la stessa fronte e le stesse sopracciglia di sua madre.
E quello stesso profumo.
Lei, continua a leggere.
Ogni tanto però, si muove: accavalla le gambe, cerca qualcosa nella borsa, sposta i capelli.
Non sa di sprigionare profumo, di evocare ricordi. Ma avverte delle piccole scosse ovunque, soprattutto dentro gli occhi, fino nelle sopracciglia, sulla fronte, alla radice dei capelli. Indizi sparsi di felicità.
Prova a guardare l’uomo abat-jour ma, di nuovo, non riesce a vedergli la faccia. Può solo immaginarla.
Nel frattempo, aspetta. Perché lei sa, senza saperlo davvero.
La ragazza sa che l’uomo abat-jour si sta illuminando.
Paola Taboga è giornalista. Adora leggere e scrive per tenersi compagnia. Ha vinto alcuni concorsi letterari, fra gli ultimi Racconti nella rete 2023. Ha pubblicato Storie di Storie (MobyDick 2009). Altri sono usciti su varie riviste, fra le più recenti Nazione Indiana e, prossimamente, Crack.
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