Un racconto di Stefano Ficagna
Numero di battute: 2482
Decisi di impiccarmi di venerdì perché il giorno prima c’erano le ultime prove con la band. Il nuovo bassista aveva ancora dubbi su certi passaggi delle canzoni, i ragazzi stavano partendo per un minitour di quattro date e stavolta in dei locali di richiamo. Glielo dovevo, dopotutto: li avevo avvertiti all’ultimo e nessuno aveva fatto storie, anche se era ovvio che gli dispiacesse per il mio abbandono. In tutti i sensi.
Mamma preferì non commentare. Stette in silenzio per qualche secondo quando le diedi la notizia, poi iniziò a parlare d’altro per non litigare. Le uscì solo, a un certo punto della conversazione, un «ma con tutte le cose che potevi fare al mondo», poi si morse la lingua. Capivo il suo punto di vista, con il figlio maggiore all’estero e il minore presto all’altro mondo. Riuscii comunque a strapparle un sorriso prima di chiudermi alle spalle la porta della casa in cui ero cresciuto.
«Per l’ultima serata a questo mondo volevo restare
sul semplice.»
Per l’ultima serata a questo mondo volevo restare sul semplice, una proiezione del mio film preferito fra pochi intimi con birra ed erba, ma un amico mi convinse ad andare a uno spettacolo di stand-up comedy. Suo fratello, mi aveva assicurato, aveva riso come un matto prima di tornare a casa per spararsi in bocca. Il comico fu bravo, ma lo frenava un po’ il doversi dividere fra qualche frecciatina sui miei piani a lungo termine e le battute al tavolo di una ragazza dai capelli rossi, che festeggiava la laurea con un gruppo di amiche.
A fine spettacolo la neolaureata si avvicinò, ubriaca e con il tocco ancorato precariamente a una treccia. Mi fece gli auguri, pensando stessimo festeggiando un compleanno: quando le dissi che fra poco non ci sarei più stato fece un sorriso imbarazzato e biascicò un «buona morte» che mi sembrò stranamente sensuale. Era carina e non volevo ci rimanesse male, così ricambiai gli auguri e la salutai con un abbraccio.
A casa brindammo con un whisky che avevo tenuto da parte per le occasioni speciali, tipo sposarmi o fare un figlio, avvenimenti che ormai mi sentivo di escludere. Quando eravamo tutti moderatamente sbronzi ricordai a un’amica di tirarmi giù la mattina dopo, lei fece un cenno con la mano come a dire di non scocciare e lasciai la sala mentre girava l’ennesima canna. Arrivato al piano di sopra salii sulla sedia, infilai la testa nel cappio, strinsi la corda e mentre dal basso mi arrivavano le risate dei miei amici mi lasciai andare in avanti, sentendomi grato per tutto quell’amore che non bastava a tenermi in vita.
Stefano Ficagna nasce a Novara nel 1979 e nella vita produce bottoni e racconti. Alcuni dei secondi sono apparsi su riviste letterarie come Clean, Split, In Fuga Dalla Bocciofila e inutile. Ha vinto il concorso Romanzo Brevissimo (2021) della casa editrice WoM, alcune sue microfinzioni sono pubblicate nell'antologia multiperso (pièdimosca, 2022), si è classificato secondo all'edizione 2022 del concorso Laventicinquesimaora e ha partecipato alla raccolta Live! (Arcana, 2023). Collabora col sito Read and Play e dal 2020 gestisce il blog Tremila Battute, in cui pubblica racconti brevi ispirati da canzoni del panorama musicale indipendente.
Un racconto di Alice Cervia
Numero di battute: 2466
Ciao Gabriele,
il cane è qui.
Ho pensato a tante diverse introduzioni per questa lettera: ontologiche, etologiche, filosofiche, oniriche, empiriche.
Alla fine però esiste solo un modo per dirlo: il tuo cane è qui.
Ti vedo già che ti gratti un orecchio e pensi come rispondere a un’affermazione palesemente falsa.
Mi scriverai che il cane è morto. Sepolto, ingiardinato, sub-geraniato, pianto e compianto.
Eppure è così.
Avrei potuto mandarti un video. Ma non ho internet, neanche il telefono.
Abbiamo poche cose qui. L’occorrente per scrivere. Acqua fresca e pane.
I cottage sono silenziosi. Per questo motivo l’ho sentito subito. Un uggiolio che sembra una risata.
Sono uscita e ho visto Blek. Blek Macigno, come l’avevi chiamato nonostante le obiezioni dei tuoi figli.
Lui senza ombra di dubbio: pelo, odore, naso umido e cicatrici delle zuffe in strada.
L’ho fatto entrare e ora russa sul divano.
«Ciao Gabriele,
il cane è qui.»
Ho pensato che dovevo scriverti, anche se probabilmente non ti faranno entrare quando dirai di voler venire a prenderlo.
Forse però posso portartelo io, il tuo cane, quando esco di qua.
Naturalmente mi sono posta delle domande. Non dubbi, no.
A parte che i dubbi non si pongono, i dubbi spuntano, germogliano, invadono.
Questa volta però, senti come suona bene per me che non l’ho mai scritto, non avevo il minimo dubbio.
Era il tuo cane. Era Blek.
Niente dubbi ma domande quindi:
Avevi finto che Blek fosse morto per abbandonarlo in autostrada e andartene in vacanza? Escluso. Non sei il tipo che va in vacanza in autostrada.
Blek aveva avuto un episodio di morte apparente e si era scavato una buca verso la libertà a lato dei gerani? Difficile, visto che l’avete cremato.
Quindi Blek, che dorme sul mio divano, è un fantasma.
C’è anche la possibilità che lo veda solo io. Non ho avuto modo di verificare, visto che qui, da giorni non passa nessuno.
Un writing retreat silenzioso, ne avresti riso. Ride anche Bleck, mentre dorme.
Puzza tantissimo, ma puzza di cane vivo. Però di certo è un fantasma.
Ho pensato comunque di avvertirti, nel caso in cui ti facessero entrare.
Così puoi verificare se lo vedi anche tu. Magari lui preferirebbe venire a casa con te e infestare il tuo divano, anziché questo salottino impersonale. Ne sono sicura.
Alice
PS: mentre stavo per imbustare la lettera mi sono accorta che non ho buste né francobolli.
Mi sono anche accorta che nel laghetto in giardino nuota Cip. Il mio pesce rosso di quando avevo dodici anni.
Sento rampicare qualche dubbio.
Nata in Toscana nel 1984, laureata in Scienze Politiche, giornalista prima, video producer poi. Ha pubblicato su Rivista Blam, Coye, Piegàmi, Bomarscé, la nuova carne, Pastrengo, Tits’n’Tales, Cedro Mag, Spore, Salmace, Nido di Gazza, Crack Rivista. Nel 2022 è stata tra i vincitori del premio Short Kipple e del contest letterario Crimen Cafè.
Un racconto di Andrea Migliorini
Numero di battute: 1988
La mattina in cui Piro mi spiegò per la prima volta come si usa un accendino, mia madre e mio padre erano usciti per fare la spesa.
Me lo regali? gli chiesi indicando il clipper. In casa mia non avevamo accendini. No, mi disse, non te lo regalo. Però possiamo andare a comprarne uno.
Piro guidava un 125 della Yamaha. Indossammo i caschi. Seguimmo le strade intorno a Monte Scuro fino a un’uscita che non conoscevo. Vedevo luci chiare, morbide.
Siamo nel paese delle case che bruciano, disse Piro.
Scesi dalla moto. A pochi passi da me, un gruppo di uomini.
Noi bruciamo le case che costruiamo, disse quello che sembrava il capo.
È questo che fate? chiesi. Non potevo togliermi il casco.
Sì.
Costruite case.
Sì.
E poi le bruciate.
Sì, poi le bruciamo.
Guardai Piro. Mi fece un cenno con la testa.
Dove posso comprare l’accendino? chiesi all’uomo.
Lo vidi prendere qualcosa dalla tasca.
Il metallo del clipper era freddo.
«Dove posso comprare l’accendino?»
Mentre risalivamo in moto, chiesi a Piro se ci avesse mai pensato.
A cosa, fece lui.
A bruciare le case.
Quali case?
La tua, la mia. Le nostre case.
Forse, disse. E tu?
Arrivammo. La benzina, quella la prendemmo dal 125: la lasciammo cadere nelle stanze di entrambi i piani. Creammo linee simili a quelle degli aerei quando scatta il segnale di emergenza. Al 3, dissi.
Dalla visiera del casco, vidi la macchina dei miei genitori avvicinarsi alle fiamme. Mia madre portava le buste della spesa. Si intravedeva il tappo del detergente. Mio padre, il palmo della mano rivolto verso l’alto, disse: Comincia a piovere. Sorrise.
Io mi tolsi il casco. Pioveva davvero.
Quando le fiamme si furono calmate, mia madre entrò in cucina per sistemare la credenza: la luce funzionava ancora. Tossì un paio di volte. Si affacciò e ci chiese se volessimo fermarci per cena.
Piro si tolse il casco. Entriamo? disse. Sembrava una domanda.
Quasi mi vergognavo di sentire ancora il metallo dell’accendino nella tasca dei pantaloni. Sì, entriamo, dissi. Entriamo. Fuori continuava a piovere.
Andrea Migliorini (1997) è convinto di vivere nel Maradagàl. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati su Nazione Indiana e altre riviste. Un suo racconto è stato pubblicato in un’antologia curata da Wu Ming 2. È co-fondatore di Coye – Periferie Letterarie e scrive per Hypercritic. Ha collaborato alla curatela del numero 40 di Stratagemmi – Prospettive Teatrali.
Un racconto di Vincenzo Giuffrida
Numero di battute: 2484
Hey, ciao
Come va?
Controllo il suo profilo. Nella foto, mutande usurate e addominali scolpiti, sotto a una testa mozzata.
Rispondo:
Bene. Tu?
Bene grazie. Cosa cerchi?
Sex. Tu?
Mette un like al mio ultimo messaggio, ha l’aspetto di una piccola fiammella sopra la parola Sex.
A o P?
P
Tu?
Compare una fiammella sulla P. Mi risponde con una foto del suo cazzo. Metto un like. La fiamma arde sopra la punta del suo pene.
***
Sono qui
Non ti vedo
Maglietta nera, zaino rosso
«Piacere Marco.»
«Luca, piacere.»
«Tutto bene?»
«Sì, bene. Tu?»
«Bene, grazie. Saliamo da me?» Mi appoggia una mano dietro la schiena.
«Sì, certo.» Gli accarezzo pure io la schiena.
Il fisico è come in foto, tonico, e coi capezzoli piccoli. Mi sfilo la maglietta, le mutande; lui è già sdraiato sul materasso. Mi metto carponi sul letto e comincio a succhiare. Ogni tanto lo guardo. Quando lo faccio, mi accarezza i capelli.
Mi distendo al suo fianco. «Vuoi scopare?» Annuisce. Prende un cuscino e lo mette sotto il mio sedere. Resto immobile, con le gambe divaricate, guardando il soffitto.
Lo sento strofinare tra i glutei, cercando il mio buco. Stringo il lenzuolo, mentre lo sento spingere a vuoto. Sul volto ha un’espressione contratta. «Lo hai mai fatto?» mi chiede.
«Sì, è solo che.»
Mi rigira su un fianco, mi solleva un poco una gamba. Con la pancia schiacciata contro il materasso, guardo il copriletto bianco e la sveglia che segna l’una e quaranta.
Lo sento ansimare per lo sforzo. Mi rimette a pancia in su, mi afferra dai glutei, affonda la faccia tra le mie chiappe e comincia a leccare.
Mi solleva le gambe verso l’alto, mi sale di sopra e spinge forte. Sento come una piccola esplosione interna, un bruciore intenso. Mi aggrappo alle sue gambe, gli dico di fermarsi. Sfilandosi, si accascia al mio fianco.
Di profilo ha un naso piccolo e adunco. Con la mano, gli asciugo il sudore che ha sulla fronte. Ci baciamo, mentre veniamo entrambi sulla mia pancia. Mi pulisco con della carta, cerco le mutande, i pantaloni; noto una macchia di un rosso sbiadito sopra il lenzuolo. Lo sento nel bagno sciacquarsi con l’acqua.
«Ciao, grazie» dice aprendomi la porta, salutandomi con una pacca sulla schiena. Metto lo zaino sulle spalle, esco dal portone, l’aria è fresca, il marciapiede vuoto; osservo un’auto passare. Decido di chiamare un taxi, invece di camminare.
Mentre aspetto, il mio cellulare vibra dentro la tasca dei pantaloni. È un messaggio da parte di MxM XL. Ha dei pettorali scolpiti, ricoperti di pelo:
Hey ciao
Cosa cerchi?
Vincenzo Giuffrida nasce in una casa del Sud ma si trasferisce lontano, dove vive con il suo animale domestico, una piantina di nome Exelor, e un abbonamento Netflix di tipo Premium. Da anni discrimina i romanzi a favore delle raccolte di short stories.
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