Un racconto di Irene Montano
Numero di battute: 2297
Luca era ancora assorto nei bagliori intermittenti dell’albero di natale quando Carlotta lo chiamò alle spalle: «Amore, che fai? Non vieni?». Lo vidi seguire il profumo dell’arrosto attraverso l’intreccio del parquet di rovere fino alla tavola apparecchiata. Carlotta gli fece cenno di sedersi vicino a lei ma aveva la testa girata nella direzione opposta, tutta protesa in adorazione del padre, con cui aveva già intavolato una discussione su Bruegel il Vecchio. Curatore museale lui, studentessa al terzo anno di Storia dell’arte lei, messi insieme erano una rottura di palle a orologeria.
Luca si sedette fissando il posto vuoto davanti a sé, ma un rumore di tacchi sembrò suggerirgli che presto sarebbe stato occupato. Un rossore silenzioso gli si diffuse sulle guance. Pochi istanti dopo, la madre di Carlotta era di fronte a lui, con una teglia di lasagne fumanti tra le mani. Nessuno sembrò far caso al suo arrivo, perciò Luca si alzò di scatto per aiutarla, «Ci penso io, Nunzia», e nel passarsi la pirofila le loro dita si sfiorarono in un saluto complice.
«Lo vidi seguire il profumo dell’arrosto attraverso l’intreccio del parquet di rovere.»
Durante la cena si trincerarono entrambi dietro la sicurezza di una conversazione banale, Nunzia gli chiese come fosse andato l’ultimo esame di Giurisprudenza, passandosi la mano senza fede tra i capelli sciolti; Luca si informò sui progressi dei suoi studi di pianoforte, rigirando il calice di vino tra le mani. Gli altri però non notarono quelle lunghe pause, nelle quali Nunzia fumava nervosamente spegnendo lo sguardo ansioso sulle labbra di Luca. E non si accorsero neanche degli occhi di lui, che rimbalzavano dal neo sul mento di lei al terzo bottone, sfacciatamente slacciato, della sua camicia. Un piede si liberò zitto dalla propria scarpa per muoversi con discrezione sotto al tavolo.
«Mi aiuti a portare il tiramisù?» Quello era il segnale. Anche la settimana precedente erano scomparsi prima del dessert. Sperai che almeno quella volta rimettessero in ordine le coperte del mio letto. Non sapete quante cose si possano vedere da questa poltrona. Loro credono che io non sia più lucida, eppure, sebbene ormai mi sembrino tutti degli estranei, sento di conoscerli molto meglio di prima. Nonostante questi novanta anni, oltre la vacuità del mio Alzheimer, riesco ancora a riconoscere l’incendio di due cuori che bruciano.
Irene Montano è nata a Livorno nel 1986. Esploratrice entusiasta e anima irrequieta di professione, lavora nel mondo del vino e studia Lingue e Letterature straniere presso l’università di Pisa con il sogno di diventare traduttrice letteraria. Si è classificata tra i dieci finalisti del Premio Letterario Etnabook – Cultura sotto il Vulcano 2023 con la poesia Kikládhes.
Un racconto di Giorgia Papagno
Numero di battute: 2400
Sei a metà di questo volo Ryanair operato da Air Malta tratta Bologna-Creta e pensi a quando quindici anni fa vivevi nella contea di Westchester, pensi a quando hai detto a qualcuno che ti sentivi sempre molto sola, o meglio, che forse i momenti belli ed epifanici li avevi quando eri sola, e che non avresti mai scritto il libro che lui ti diceva / tutti ti dicevano sempre che avresti dovuto scrivere anche solo per le cose assurde che avevi visto e che avresti voluto che gli altri vedessero, tipo quel cervo che nell’estate del 2009 ti aveva attraversato la strada a Westchester e tutto sapeva di umido e di aghi di pino e di carogna di animale da macello e di tutte le altre cose per cui amiamo l’America, ma come potevi essere certa che qualcuno leggendo del cervo non solo vedesse il cervo ma sentisse il cervo, sentisse te che vedevi il cervo?
Peraltro se sei della contea di Westchester o di Asiago, magari vedere un cervo non ti pare nemmeno un avvenimento così straordinario senza tutto il sottotesto che tu ci hai letto (era uscito Oracular Spectacular e sull’iPod nano 4G Pieces of What a ripetizione mentre tu guardi il cervo e lui guarda la striscia di verde bagnato e sottoesposto dall’altra parte della striscia d’asfalto), comunque stiamo per atterrare a Creta, ora guardi la striscia di mare dal finestrino e pensi a quella giornata a Westchester in cui forse non hai visto un cervo ma avresti potuto vederlo, e hai raccontato quella storia così tante volte che ti sei convinta di averlo visto ma forse hai invece solo avuto paura tutto il tempo di vederlo, che poi era stato forse peggio di vederlo perché:
1) l’ansia di trovarsi faccia a faccia con un cervo, che in America non sono cervi ma sono alci;
2) la delusione di non esserti trovata faccia a faccia con un cervo, che avrebbe coronato quel momento tutto umido di aghi di pino e di carogna di animale da macello;
«Tipo quel cervo che nell’estate del 2009 ti aveva attraversato la strada.»
3) Il patetico tentativo di renderti interessante raccontando di aver visto un cervo mentre camminavi sul ciglio della strada umida di pioggia estiva nella contea di Westchester.
L’altoparlante annuncia l’ultima possibilità di acquistare in supersconto un profumo Paco Rabanne, dei gratta e vinci di beneficienza prima dell’atterraggio. Ti picchietti l’indice sull’orecchio per chiedermi togliere le cuffie, mi posi una mano sulla coscia, mi fai:
Ti ho mai raccontato di quando all’università vivevo a Westchester?
Giorgia Papagno nasce a Brescia nel 1987, si laurea in Lettere Moderne a Padova e trascorre un periodo di studio alla Columbia University di New York. Al suo ritorno in Italia si specializza in Didattica della lingua italiana a stranieri a Ca’ Foscari. Insegna precariamente nella scuola pubblica. I suoi lavori sono apparsi in riviste come Lahar Magazine, Clean, Auralcrave, The Loch Raven Review. Poesie e fotografie dalla raccolta inedita Non Sarò Mai Manhattan sono state pubblicate da RatPark e L’Appeso; alcuni testi sono andati in scena, altri sono diventati musica.
Un racconto di Francesca Ranza
Numero di battute: 2321
Andavo all’asilo con una bambina, tale Carlotta, che a un certo punto, in circostanze mai chiarite, venne scelta come coprotagonista (con lei c’era un’altra tizia più grande che parlava pure, Carlotta invece faceva solo delle facce) della pubblicità dei Fiammiferini. Quando si rese conto che tutti i suoi compagni l’avevano vista in tv, Carlotta, che era sempre stata una bambina educatissima, perfino timida, iniziò improvvisamente a comportarsi come una specie di Briatore. Si fece fare un permesso per entrare e uscire dall’asilo quando le pareva, cominciò a portare tutto il tempo dei ridicoli occhiali da sole azzurri glitterati e a comandare noialtri a bacchetta.
La cosa che le piaceva fare più di tutte era chiedere a qualcuno di tenere una roba sua in mano mentre lei si sistemava i capelli. Le piaceva così tanto che a volte si appropriava temporaneamente degli oggetti più ingombranti che riusciva a trovare solo per fare questa sua scenetta. Aveva dei ricci bellissimi.
«Aveva dei ricci bellissimi.»
Un giorno vidi Carlotta sollevare un’enorme cesta di vimini piena di chiodini – ginocchia tremanti, guance paonazze, occhi fuori dalle orbite – e, proprio un attimo prima di soccombere, lanciare un urlo, soffocato e spaventoso, al povero Emilio che passava di lì in quel momento. «Reggimi questo! Prendilo subito!» Lui scattò prontamente e le prese quell’affare dalle mani. Lei iniziò a spostarsi i ricci da una parte all’altra della testa, sbuffando lenta, lentissima. Emilio resistette solo per qualche secondo, poi lasciò cadere la cesta che rovinò al suolo insieme ad almeno un miliardo di chiodini. «Sei scemo, Emilio? Raccoglili subito» si lagnò stizzita Carlotta.
Avrei voluto dirle qualcosa, qualcosa tipo “perché ti affanni tanto, Carlotta, tutto questo non ha alcun senso, siamo tutti miserabili allo stesso modo, tutti accomunati dallo stesso tragico destino”. Invece un giorno mi ordinò di tenere in braccio un leone di peluche gigante che puzzava di saliva e io lo feci, senza fiatare, per quattro minuti buoni.
Ci rincontrammo per caso al secondo anno di liceo. Era piena di brufoli, e infatti faceva la pubblicità di una crema contro i brufoli. Per entrambe le cose, si vergognava. «Ti ricordi quella volta del leone?» le chiesi. Ma Carlotta non si ricordava, o almeno mi disse così. Peccato, pensai, era stato bellissimo.
Francesca Ranza è nata e cresciuta a Milano. Studia Letterature comparate a Ca’ Foscari e lavora per la rivista letteraria Galápagos.
Un racconto di Emanuele Muscolino
Numero di battute: 1981
C’è una zona d’Italia popolata di turbine eoliche più di ogni altra, dove il vento soffia fino a farti impazzire. Certe sere d’inverno si intrufola come un torrente tra i vicoli dei paesi, zavorra sporte di anziane di ritorno dalla spesa, trasforma in vele cappotti e quotidiani minacciando di sollevare da terra i più leggeri.
Rocchetta Sant’Antonio, Lacedonia, Melfi: un fazzoletto di terra tra Capitanata e Irpinia, dove le pendici appenniniche si inchinano ai viandanti, concedendo un passaggio agevole verso levante, un fazzoletto su cui la neve, a volte, non riesce a posarsi, trattenuta in cielo dal sospiro delle correnti.
«Dal basso
le idolatrammo
come totem.»
Ci arrivammo con le bici sotto una di quelle turbine, a un passo dal pilone, sulla via che dal Salento ci riportava a Roma. Era un pomeriggio d’agosto e stavamo attraversando il confine di ponente del Tavoliere, quando la nostra navigatrice − molto estrosa, bisogna ammetterlo, pur trattandosi di un’applicazione − per farci evitare un tratto a doppia carreggiata, ci fece infilare una sterrata sorvegliata da branchi di cani da guardia con la bava alla bocca (dovemmo difenderci con i clacson e con le pompe), prima di spedirci per un dirupo di sassi.
Le pale le incontrammo al di qua del dirupo, al centro di una piana, circondate dalla terra che zelanti trattori rimestavano sollevando nuvoloni di polvere; scendevano come drappi, senza stridere, producendo a ogni caduta un boato oscuro, e di nuovo si levavano senza peso, come filassero in linea retta (ovvio, invece, che stessero seguendo l’antica geometria del dono).
Dal basso le idolatrammo come totem, come moderne divinità danzanti. Ricordo l’azzurro compatto prima del tramonto e le lame che lo pettinano lasciando una scia impalpabile: la linea e il cerchio, noi col naso all’insù a spiare l’ignoto, in compagnia delle nostre sbiadite ombre, che avevano attraversato quelle lande pochi giorni prima, in senso inverso, tuffandosi incontro all’estate. La strada che va, la strada che torna.
Emanuele Muscolino è nato a Roma nel 1984. Dopo la laurea in Arti e scienze dello spettacolo ha pubblicato il saggio Paradossi della soggettiva. Visione pura e visione-sguardo nella sequenza cinematografica. Ha lavorato come montatore per il cinema e la tv ed è autore di cortometraggi, documentari e reportage. Dal 2023 i suoi racconti e le sue poesie sono pubblicati su blog, riviste e antologie.
Commenti recenti