Un racconto di Giulio Morelli
Numero di battute: 2497
Vera vede solo ciò che può sopportare. Sul materasso il corpo di Mauro sembra quello di un morto. È la prospettiva da cui lo guarda a confonderla, a farlo sembrare morto, ma Mauro non è morto: respira (i morti non lo fanno). In via Padova è tutto come ieri – non è cambiato nulla. Sul pavimento poche tracce – le solite: umori vari, peli e capelli. Le pareti pullulano di istantanee, ma nella penombra i volti sono macchie generiche.
La stanza, a parte Vera e Mauro, contiene un letto (al centro), un appendiabiti (vicino alla porta), un comò (sotto la finestra – l’unica). La luce è spenta e, dato che non c’è una piantana, è lecito supporre che a mezzaria penda un lampadario.
«Allora sposiamoci.»
Il soffitto è un soffitto come tanti, non ha nulla di speciale come l’amore di Vera e Mauro. Si sono conosciuti sette anni fa in un pub gestito dai cinesi. Seduti al bancone, Vera e Mauro hanno ordinato la stessa lambic. Una risata impacciata a cui sono seguite una stretta di mano e una relazione da manuale. Hanno capito di appartenersi quasi subito. Aspettavano il tram, Vera aveva una sneakers slacciata, Mauro si è inginocchiato e gliel’ha allacciata. «Mi stai chiedendo di sposarti?», «Sì», «Allora sposiamoci».
Non lo hanno fatto. Mauro ci pensa ancora al fatto che non l’hanno fatto, che Vera ora è di un altro, che ride a battute che non sono le sue, che ha messo al mondo un figlio che non gli assomiglia. Vera gliel’ha mostrato, scrollando tra le foto dell’iPhone, Mauro lo ha guardato di sbieco; poi un «congratulazioni» strozzato, un rantolo nella gola, emerso dalla bocca come un conato.
Mauro avrebbe accettato il figlio di Vera soltanto se fosse stato suo, ma non è suo – è roba di un altro di cui non sa nulla, a parte che si è preso Vera. Ha cercato di strappargliela come un cerotto, ma i lembi sono intatti, la colla resiste all’acqua, allo sfregamento che leva aderenza a ciò che è progettato per aderire.
Vera e Mauro si sono lasciati per un errore di calcolo, ma scopano ancora nel bilocale che Vera aveva progettato per loro. Quando ci vivevano insieme, il mondo restava fuori dalla porta, ora che vivono separati il mondo è dappertutto, filtra da sotto la finestra, si deposita sul parquet, sedimenta tra le intercapedini. Mauro si sposerà ad aprile: Vera ora lo sa. Prima di uscire, si rivestono, poi si salutano con un cenno della mano. Oltre la soglia i loro volti sbiadiscono come le istantanee sulle pareti: sono irriconoscibili; raccontano una storia che non è più la loro, ma la nostra.
Giulio Morelli è un robespierrista, vive a Eupilio e insegna storia. Scrive, non pubblica. Detesta che qualcuno oltre a sé stesso legga ciò che scrive. Ha un cane, si chiama Thomas.
Un racconto di Isabella Ballarini
Numero di battute: 2133
Cammini per quella strada in fretta, come ogni mattina. Tieni la borsa sotto il braccio, stringi il manico dell’ombrello e fuggi veloce, sotto la pioggia che diventa ogni giorno più fitta. Passi davanti al Papero e fai finta che lui non sia lì. Guardi in basso, pur di non vedere il suo sorriso che splende dai cartelloni stradali. Il tuo passo accelera, i tacchi delle scarpe barcollano, le pozzanghere rischiano di farti cadere a ogni passo. Ogni giorno così, sotto quel diluvio che va avanti ormai da più di due mesi. Ma tu te lo ricordi, il Papero, quando ancora elemosinava attenzione da quelli che si rifiutavano di alzare gli occhi su di lui. Giorni lontani, quelli. Le gocce di pioggia non cadevano così spesso, tra le nuvole e il vento c’era sempre un tiepido sole. E il Papero non era un papero.
Era una persona che sognava in grande e guardava il cielo. Tu lo conoscevi bene. Ti piaceva, persino. Sorridevi e intanto i capelli ti cadevano sugli occhi. Credevi che lui avrebbe cambiato il mondo. È cambiato il vento, invece, è cambiato tutto. L’uomo si è fatto Papero.
«L’uomo
si è fatto Papero.»
E mentre la pioggia cadeva sempre più spesso, il Papero avanzava nella notte. Era folle e selvaggio e mentiva a tutti con violenza spudorata. La sua immagine si faceva bestia giorno dopo giorno. Lui saliva nei cuori perché usava parole di gloria. Si tagliava i capelli, si cambiava i vestiti. Appariva sugli schermi televisivi, o sui giornali, o sui computer. I soldi gli arrivavano addosso senza che facesse niente per cercarli. Gli bastava esistere: ogni sua parola muoveva le masse.
Mentre corri sotto la pioggia, butti l’occhio ai cartelloni dove il Papero appare e vai avanti senza fermarti. Lo vedi starnazzare, dimenticarsi di te. Vedi la gente che lo ama senza motivo. Nessuno si accorge della pioggia: quella viene giù sempre più fitta e tutti stanno là, a bagnarsi, a sorridere, a vivere come paperi agli ordini di un Papero.
Tu cammini per la strada in fretta, come ogni mattina. Tieni la borsa sotto il braccio, stringi il manico dell’ombrello e fuggi veloce. Passi davanti al Papero e guardi in alto, verso il cielo.
La tua mente resta tua.
Isabella Ballarini scrive da diversi anni. I suoi racconti sono usciti sulle riviste L'Irrequieto, Sulla Quarta Corda, Quaerere, L'Equivoco, CrunchEd e Spaghetti Writers.
Un racconto di Vincenzo Montisano
Numero di battute: 2357
Sono nato costretto in una stanza due per tre. Vuota, come un luogo comune. Senza porte né finestre. L’aria è tanfata di nicotina, sebbene io non fumi. Al centro, un tavolo di legno sberciato su cui poggia una scatola di metallo, chiusa, dai bordi taglienti. Non c’è modo d’aprirla, e d’altronde non ho mai tentato.
Ogni cinque anni, il giorno del mio compleanno, un biglietto d’auguri esce dalla scatola. Prima si innesca un frullio, come d’ali d’insetti allarmati dalla possibilità imminente d’essere uccisi, poi, senza particolari entusiasmi, nella noia mortale che al passare del tempo ferisce ogni curiosità, il biglietto sbuca da sotto la scatola. Tua madre ti vuole bene, diceva il primo. Il messaggio era vergato – e io ero un bambino – con una calligrafia dalle m tondeggianti e dalle o morbide.
Nel rammarico di non aver allattato al seno, pensai all’inconveniente che dev’essere stato per l’ignota genitrice la mia nascita, e allora capii, perdonai, trovai in me le ragioni di un abbandono. Ne ho collezionati undici in tutto, di questi biglietti.
«Il terzo diceva:
la guerra è finita».
Il terzo diceva: la guerra è finita e quel giorno, scoprendomi la pancia, non mi meravigliai di non possedere l’ombelico. L’ottavo diceva: tuo padre non ti ha mai toccato tra le gambe e allora posai il polso sul bordo tagliente della scatola, segai fino all’osso, poi gettai via la mano, per paura di compiere atti indegni.
Il nono biglietto non lo lessi per intero, l’interesse è sempre stato per me prossimo allo zero: cosa scorre di così galvanico, mi chiedevo, tra la scatola e la stanza, tra la stanza e il mondo esterno, perché tutti siano così elettrizzati dalla vita? Utopico è appassionarsi a ciò di cui non si hanno evidenze; a una realtà la cui giustizia è sempre indizio e mai prova di colpevolezza. Ma oggi, oggi è un giorno ben strano, mi dico. Le mie logiche si pervertono, oggi. Il mio corpo muore, oggi.
Con la mano che mi resta, scaravento a terra la scatola, vorrei sapere, le urlo prendendola a calci, sputandoci, pisciandoci sopra, vorrei sapere, sapere perché! Poi rifiato, torno in me, al mio schema. L’ira decanta nella stanza vuota. Il frullio, questa volta, è meno energico del solito. Gli insetti staranno crepando, penso. Il dodicesimo biglietto sguscia dalla scatola accanto alla mano mozza già putrefatta. Il biglietto dice: la chiave per aprirmi è dentro la scatola.
Vincenzo Montisano (1988) è stato finalista alla VI edizione del Premio Neri Pozza con il romanzo Inaugura stanotte il secolo del bene, in pubblicazione nel 2025 per Wojtek. Ha pubblicato la novella Logica degli incendi (Industria&Letteratura 2024). Nel 2023, un suo racconto è stato selezionato nella longlist di The Florence Review. Dal 2019 codirige la collana di poesia I Masnadieri per Tra Le Righe Libri. Collabora dal 2009 con i collettivi Nucleo Kubla Khan e La Masnada. Ha pubblicato su Atomi-Oblique, Narrandom, Quaerere, Micorrize, Palin Magazine.
Un racconto di Lorenzo Zerbola
Numero di battute: 2380
molto deve provare
di grato e d’ingrato chi a lungo qui
in questi giorni di conflitto fa uso del mondo.
Beowulf, vv. 1060-1062
Non appena sveglio andò automaticamente in bagno e, aspettando lo stimolo necessario per cagare, si mise a leggere l’etichetta dello shampoo. Appena poco più tardi, dieci o quindici minuti circa, catapultato nel solito traffico delle sette e mezza, si rese di conto di non ricordare più quella strana parola che deve anche aver pronunciato, seduto sulla tavola del cesso, nel tentativo di masticare qualcosa dal suono sconosciuto, duro come un granello di pietra. O meglio, era sicuro di ricordarla, di poterla scrivere addirittura, ma a forza di ripeterla e visualizzarla era come se ne avesse perso il pur piccolo significato, la polpa; e gli rimase solo il dubbio.
Passò poi l’intera giornata come al solito, in un ufficio. Tornato a casa, si rese conto che il coinquilino, in uno dei suoi imprevedibili raptus germofobici, aveva pulito casa e buttato tutti i flaconi vuoti che da qualche settimana arredavano il ripiano della doccia.
«Il flacone non c’era, era finito.»
Non andò al supermercato di proposito, ma per necessità generale, anche se poteva rimandare ancora di qualche giorno. Seguì passivamente un’immutabile lista mentale della spesa, intanto che con l’occhio cercava la corsia dei prodotti igienici, senza mai trovarla dove si aspettava – dovevano aver riorganizzato le corsie, come ogni settimana. Chiese indicazioni a un cliente qualsiasi, che non gli rispose, e infine a un commesso che, senza dire nulla, gli indicò un punto con il dito.
Il flacone non c’era, era finito.
Prima di addormentarsi, pensò ancora una volta a quella parola vuota e sconosciuta, ma non si preoccupò di non riuscire a ricordarla, di averla forse persa per sempre.
Col passare del tempo, si fece sempre più silenzioso, risucchiato da quella cancellatura simile al tassello mancante di un puzzle immenso, lasciandosi pian piano andare a una vita scandita da impulsi che automaticamente lo svegliavano, lo staccavano da una sedia o un sedile, gli permettevano di attraversare la strada senza essere investito da veicoli urlanti; pulsazioni che lo facevano accedere a nuove schermate di impalpabili home e sezioni, aprire i nuovi ma superficiali messaggi, in un grigio silenzio assoluto di veloci video insignificanti.
E i contorni delle cose si liquefacevano tra le mani di chiunque, frattanto.
Lorenzo Zerbola (1993) scrive racconti (alcuni sono stati pubblicati su Verde e L’Inquieto) e fa l'insegnante in una scuola appenninica. Col passare del tempo ha perso il suo famoso piede destro, forse a causa di quella che tutti chiamano sedentarietà della vita. Permane sonnolento. Ciò che lo contraddistingue maggiormente, dicono, è la sua capacità di dare ottime indicazioni stradali.
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