Un racconto di Rudi Capra
Numero di battute: 1752
Ero di fretta, mancava mezz’ora alla riunione e dovevo attraversare tutto il centro, proprio stamattina le doveva venire il ciclo, piegata in due dal dolore e tutte le commissioni le ho dovute fare io, e spesa e lavanderia e farmacia e asilo, più lo sciopero dei mezzi e quel camion di merda rovesciato in tangenziale, risultato: arriverò in ritardo alla riunione per cui Stella si è raccomandata, ha detto, Sarebbe la terza che buchi dall’inizio di quest’anno, ha detto, La tua presenza è della massima importanza, ha detto, Non deludermi.
Sarei stato comunque impresentabile con questo caldo assassinante, quando ho parcheggiato di traverso dove non c’erano le strisce avevo già sentivo le pezze sotto le ascelle e nella schiena, il Nilo mi colava dalla fronte, era sceso un delta tra i peli del petto, e di fianco all’ingresso un motorino aveva la ruota anteriore fusa con l’asfalto, aveva scavato la sua forma nel bitume, ero in ritardo di ventotto minuti e quando sono entrato madido, paonazzo, scusandomi davanti a tutti, Stella ha piantato i suoi occhi su di me come due chiodi e sono rimasto accanto a lei, crocefisso sulla sedia girevole davanti al sorriso pietoso dei clienti giapponesi, con la vetrata spalancata sul parcheggio che ribolliva come un pentolone, i tettucci arroventati delle auto che risplendevano come braci nel fuoco pallido del mezzogiorno.
«La tua presenza è della massima importanza,
ha detto,
non deludermi.»
Ma la parte peggiore è stata a fine giornata, alle cinque il sole era ancora alto e non avevo più sudore da sudare, quando mi sono avvicinato all’auto ho capito cosa era successo, il capannello di gente intorno aveva rotto il vetro ma il corpicino era già immobile da tempo, ancora legato al seggiolino e l’ufficiale ha chiesto se ero io il genitore e io ho detto solo, Ero di fretta.
Rudi Capra è ricercatore in Filosofie dell’Asia orientale e critico cinematografico, attualmente a Torino. Ha diverse pubblicazioni all’attivo e due monografie, una sul pensiero interculturale e una sul cinema di Nicolas Winding Refn.
Suoi saggi e racconti sono apparsi anche su L’Indiscreto, Risme, Singola, Digressioni, Le parole e le cose.
Un racconto di Ilaria Tedesco
Numero di battute: 2446
A settembre avrei dovuto iniziare Giurisprudenza.
«Ci darà soddisfazioni» era solito ripetere mio padre. Col tempo, poi, i colleghi hanno iniziato a guardarmi storto e la mano sulla spalla si è fatta più pesante.
All’inizio mi piaceva stare in mezzo a quegli scaffali. Da piccolo per esempio mi divertivo a inseguire date e timbri sui fascicoli polverosi, a lisciare il dorso dei libri col dito. Mio padre scambiava quei giochini matematici per curiosità finendo per leggermi quelle che credevo incomprensibili storie numerate da tomi presi a caso. «Un giorno imparerai tutti gli articoli» mi diceva, «perché sei intelligente.»
Quando iniziai a leggere quei codici, invece, non ci capivo niente. Troppe virgole. Con i numeri era diverso. C’erano le centinaia-decine-unità virgola i decimi-centesimi-millesimi. Se persino qualcosa di trascendente come il pi greco ne aveva una sola, il problema doveva essere del legislatore. «Sei intelligente, devi imparare a stare al tuo posto» mi disse. Fu l’unica vola che glielo feci notare.
«Ce la farà,
non vedi che è intelligente?»
La prima litigata avvenne in prima liceo. Una questione condominiale: articoli mille centodiciassette, mille centoventiquattro e mille centotrentasei. Lui spiegava e io vedevo solo tre punti con la stessa ordinata per i quali passava una (e una sola) retta. «E l’articolo mille centoventinove?» chiesi spaesato. «Non ci riguarda» rispose. Disegnai allora un piano cartesiano mostrandogli come la retta passasse anche da lì. Mio padre alzò gli occhi al cielo urlandomi di restare nel mondo reale. Ma quello non era un asse immaginario, restavo persino bidimensionale. «Sei intelligente, perché non usi parole?» mi implorò. Ma quelle che usava lui io non le capivo.
La notte di cinque mesi e sette giorni fa origliai alla porta della stanza da letto. Mia madre piangeva, diceva che non mi aveva dato scelta. «Siamo avvocati da generazioni» rispose mio padre. «Chi porterà avanti l’attività, sennò?» Poi la rincuorò: «Ce la farà, non vedi che è intelligente?».
Fu allora che decisi di fare la cosa più stupida che mi venne in mente: diedi fuoco allo studio.
A pensarci bene avrei potuto essere un filino più intelligente, avrei potuto consultare prima il codice penale. Ma come ho detto, quei tomi mi erano ostici: troppe virgole, poche rette. Mi sarei perso nei calcoli.
A settembre dunque non inizierò Giurisprudenza. Magari tra quattro anni, quando esco. Sempre che mio padre mi consideri ancora intelligente, chissà.
Ilaria Tedesco, campana, ha studiato Economia. Si occupa di cooperazione internazionale e progetti di sviluppo rurale. Dopo aver girovagato qua e là, ora vive a Monaco di Baviera. Ha frequentato la scuola di scrittura Belleville e il suo primo romanzo è uscito dal cassetto.
Un racconto di Simone Ghelli
Numero di battute: 2407
Da farfallon69@hotmail.com
A dariogarbaglia@gmail.com
giovedì 9 luglio 2020, ore 11.41
Oggetto: note al capitolo terzo
Caro Dario,
ho appena finito di leggere il materiale che mi hai mandato. Devi perdonarmi per la lunga attesa, ma come sai dovevo consegnare le bozze del mio ultimo libro e poi c'è stata la pandemia e non potevo non aggiungere almeno una riflessione sulle ricadute da un punto di vista economico e su quelli che saranno i cambiamenti nelle abitudini degli spettatori.
Sono dell’idea che il capitolo tre possa andare, anche se in alcuni punti trovo l’analisi troppo spinta (nel file allegato puoi vedere i miei interventi e le modifiche che ti suggerisco). Sarò franco: a me i continui rimandi alla filosofia (a certi filosofi, soprattutto) risultano un po’ indigesti.
L’università non è più quella di quindici anni fa, i lettori (e gli studenti, in particolare, che sono i nostri principali lettori) non vogliono cose troppo complicate. Io ormai a lezione devo fargli gli schemini come a scuola, persino le note sono diventate una zavorra che piace solo ai comitati di valutazione. Il mio consiglio è di arrivare al punto per le vie più dirette, senza troppi giri di pensiero. Le pose da intellettuale non le vuole più nessuno, qui in dipartimento meno che mai. Anzi, sono proprio viste come qualcosa di inopportuno.
«Le pose da intellettuale
non le vuole
più nessuno.»
Perdonami ancora per il ritardo e per la franchezza, che potrebbe sembrarti eccessiva, ma devo ragionare nell’ottica del tuo bene. Se vuoi fare carriera, devi metterti in testa che oggi è l’utente che decide, e l’università, per restare aperta, ha bisogno di iscritti. Siamo entrati nel mondo della domanda e dell’offerta e ormai non si torna più indietro. La grossa sfida è riuscire a non abbassare troppo la qualità, ma su questo punto non ho niente da insegnarti. Tu sei il nostro Serge Daney, il nostro jeune turc in maniche di camicia!
Sappi che vorrei avere solo la metà del tuo idealismo.
Saluti e abbracci dal tuo tutor,
Vincenzo
P.s.: mettici dentro anche qualche film recente, qualcuno di quelli che vedono anche le matricole (anche le commedie un po’ sceme, i format riadattati dall’estero) perché se poi vuoi farci un libro dovremo inserirlo in qualche corso, no? So che sei uno puro, ma questo è un mondo in cui purtroppo dovrai sporcarti. E ancora non hai visto niente. Lo studio per lo studio è finito da un pezzo, fattene una ragione adesso che sei ancora in tempo.
Simone Ghelli ha pubblicato in passato un paio di romanzi brevi e alcune raccolte di racconti, tra cui Non risponde mai nessuno (Miraggi, 2017) e La vita moltiplicata (Miraggi, 2019). Suoi racconti sono comparsi anche in varie raccolte e su alcune delle principali riviste letterarie italiane. I suoi ultimi libri sono la novella Ronnie Banti ha perso la scommessa (Divergenze, 2022) e il romanzo Bianco su bianco (Castelvecchi, 2023).
Un racconto di Marta Barattia
Numero di battute: 2146
Luigi è seduto nell’ingresso quadrato, sprofondato in una poltroncina magra, le palpebre pesanti semichiuse dietro la spessa montatura in bachelite nera, le pantofole di panno, il gilet di lana. La pelle delle mani è trasparente, quasi azzurra.
«Facciamo due passi, è una bella giornata» dice Egle sfiorandogli la spalla.
«Non posso, aspetto una telefonata.»
«Una telefonata. E da chi?» chiede Egle.
«Una ragazza» dice Luigi, e gli si spalanca una fessura negli occhi e una identica schiude le labbra in un sorriso.
«Capisco» dice Egle, «allora uscirò per conto mio.» Infila il cappotto di cammello, si aggiusta i capelli sotto la cloche color cipria e scivola fuori dal portoncino.
Silenzio.
Trascorrono alcuni minuti, poi il telefono squilla.
«Non posso, aspetto una telefonata.»
Luigi si accende, solleva la testa, afferra la cornetta grigia dell’apparecchio posato sul tavolino lì a fianco e risponde. Ascolta. Annuisce. Ride. «Certo, certo» dice. «Al solito posto» dice. «A tra poco.» Poi riattacca. Scavalla le gambe per appoggiare entrambi i piedi a terra, piega i gomiti, spinge sui braccioli. Si smuove appena, incredulo.
La serratura scatta nuovamente ed è subito il provvidenziale ticchettio delle décolleté di Egle, il suo profumo al mughetto.
«L’appuntamento!» dice Luigi. «Si sbrighi, mi dia una mano!»
«Anche oggi ha ricevuto quella telefonata, allora…» dice Egle, e senza nemmeno sbottonare il cappotto si china a infilargli le scarpe che stavano già pronte lì a fianco. Un gettone del telefono le scivola fuori dalla tasca: tintinna, rotola sul pavimento di graniglia e si ferma muto contro le pattine, accanto al portaombrelli. Luigi si aggrappa al braccio di Egle, si solleva; escono insieme.
L’ascensore scende sferragliando al piano terra. Fuori il sole del pomeriggio bagna appena il marciapiede, nei viali del parco le foglie scricchiano sotto i loro passi lenti. Luigi ha il respiro sottile.
«Allora mi dica, signor Luigi. Chi è questa ragazza?»
«È Egle. La mia Egle. Ormai è quasi un anno che ci parliamo. Mi aspetta alla panchina vicino alla fontana. Non voglio far tardi, è già quasi il tramonto.»
«Siamo partiti per tempo; facciamo ancora un giro, camminare le fa bene.»
Marta Barattia (1977) è nata e vive a Torino. Sa da sempre di voler scrivere, perciò è brillantemente riuscita a non farlo per moltissimo tempo. Da vent'anni il suo non-vero-lavoro è insegnare il teatro a bambini e ragazzi condividendo il suo non-dignitoso-stipendio con un marito, due figlie e un cane. Non ha mai superato la prova costume.
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