Un racconto di Andrea Scagliarini
Numero di battute: 2499
È inverno, ma il vento tiepido ha allontanato il freddo. Lo sento sulla pelle e l’ho annotato sul taccuino. Oggi, 21 dicembre, sole. 20 gradi. Ho deciso di comprarmi una giacca leggera senza aspettare l’inganno dei saldi di stagione. Questa mattina, ho già annotato Anticiclone. Giacca a quadri. Comprare subito. Fa caldo e i giornali non sembrano interessati al caso metereologico. In primo piano vedo guerre, terremoti, uccisioni di massa, emergenze umanitarie, violenze domestiche. Della temperatura non se ne parla punto.
Indosso un capo elegante davanti allo specchio e mi sento già le ascelle umide. Sudato. La nuova giacca veste bene. Mi piace e la prendo senza neanche richiedere il prezzo per non apparire sciocco È scritto. Domando alla commessa se questo tepore non la stupisce, ma lei sorride prima di rispondere istruita dal proprietario.
«Anticiclone. Giacca a quadri. Comprare subito.»
«Ha bisogno di qualcos’altro?» mi dice spigliata, ignorando il mio commento sul clima, ma rivelando un musicale accento dell’Est.
«Lei è straniera. Vero?» postulo sicuro prima di annotare Alta, capelli neri e lunghi, un lieve strabismo, persino piacevole a vedersi. Un difetto ce l’hanno tutti. Mi osserva scribacchiare prima di aggiungere: «Sono rumena, non mi piace confessarlo, ma in Italia ho frequentato il liceo classico e mi sono diplomata a pieni voti».
«Lo immagino. Racconterei con un po’ di fantasia di essere stata adottata da una famiglia italiana. Poi, aggiungerei di essere una studentessa lavoratrice iscritta a Filosofia o Filologia. Fa ancora effetto, sa? Il liceo non basta più, lo fanno tutti. Da dove proviene la sua familia? Bacau? Timisoara? Sibiu, Bucarest?».
«Lei conosce România?».
«No, conosco bene la geografia».
Mentre ritorno a casa, ripenso alla loquela della commessa. Dopo aver battuto lo scontrino, mi ha invitato alla funzione del vespro nella vicina chiesa ortodossa. Mi ha spiegato che canterà nel coro e mi presenterà il pope. Ha notato che molti cattolici vengono per ascoltare l’antica musica bizantina ma le ho spiegato che non sono religioso – tantomeno cattolico – e forse la raggiungerò al vespro.
Un’ora più tardi, fermo sulla banchina della linea S registro: Commessa diplomata, liceo classico, canta alle funzioni religiose. Intona musiche sacre. Sono sicuro che canterà bene.
Per dabbenaggine smarrisco il taccuino e mi dimentico della commessa, della chiesa, del vespro, del coro e dell’odore di sacrestia che non ho sentito. Che rammarico. Quanto lo rimpiangerò quel taccuino fedele, era sempre con me.
Andrea Scagliarini vive a Torino dove ha conseguito una laurea in Storia e Critica del Cinema e svolge l’attività di musicista indipendente e di insegnante. I suoi testi sono apparsi o appariranno sulle riviste letterarie Narrandom, Racconticon, Pastrengo, Nabu, Enne2 e Fuori Asse.
Un racconto di Flavia Catena
Numero di battute: 2297
Il fagiano corre nella gabbia, intorno al cespuglio. Due giri e poi si ferma sempre sullo stesso punto, le zampe a coprire le impronte già lasciate, le piume ad ammassarsi dove altre piume sono già cadute. Ha le ali chiuse, aderenti al corpo, e il becco aperto.
«Guardate quello!» dice Luigi, indicandolo da dietro la rete.
Ci sono due pavoni sull’altro lato della gabbia, uno bianco e uno blu, e i suoi amici stanno immobili, rapiti, a osservarli.
«Ma che fa? Il girotondo?» chiede Vittorio, dopo aver spostato lo sguardo.
Luigi agita la campanella che pende dalla tasca del suo zaino. L’uccello rallenta.
«L’ha sentito!» gioisce Grazia, la più piccola del gruppo. «Riprovaci.»
«Guardate
quello!»
Ma al secondo trillo il fagiano riprende la sua corsa e va avanti per tre, quattro, cinque giri, senza interrompersi.
«Sembra mia madre…» nota Luigi, «quando cammina nervosa intorno alla culla di mia sorella con le mani sulla testa. La cosa più brutta è che certe volte perde l’equilibrio o inciampa da qualche parte e finisce a terra. Si è spaccata il naso la scorsa settimana».
«Poverina! E perché fa così?» domanda Grazia toccando con la mano la spalla dell’amico accovacciato.
«Non lo so. Neanche mia madre lo sa. Dice: “Non sono io”».
Una bacca è caduta dal cespuglio, e il fagiano la calpesta macchiando di rosso il suolo nero.
«Secondo voi, se lo liberiamo vola?» parla di nuovo Grazia.
I tre bambini si guardano intorno. La guardia del parco è seduta a braccia conserte nel gabbiotto poco distante, e sembra concentrarsi su tutto – riviste, telefono, scatola di biscotti – fuorché su ciò che avviene dentro e fuori le gabbie.
Vittorio si allontana e torna poco dopo con una cesoia nascosta nella cartella. L’ha rubata al giardiniere che ha visto potare i rododendri davanti al cancello: anche lui era distratto come la guardia, i pensieri sciolti dall’afa e i muscoli del corpo rallentati dall’età.
Il fagiano corre ancora, le piume della coda che strisciano a terra, sollevando nuvole di polvere, e un velo sugli occhi che lo fa cieco. Attraverso lo squarcio aperto nella rete, i bambini allungano una mano ciascuno.
«Dai, esci adesso!» dicono in coro, ma l’animale non reagisce.
Solo quando il grido di un uccello che attraversa il cielo scuote l’aria, il fagiano si ferma. E alla libertà si avvicina lento, incredulo.
Flavia Catena, siciliana, si è laureata in Editoria e Giornalismo alla Sapienza di Roma, per poi specializzarsi in Fotografia di reportage a Milano. Per nove anni ad Oxford, adesso vive a Londra dove lavora come fotografa professionista. Nel tempo libero scrive e fa la volontaria in alcuni musei della città. Ha pubblicato racconti su antologie e riviste come Lunario, Spaghetti Writers, L’Appeso. Una sua storia è stata selezionata per far parte della raccolta 24 ore edita da Romanzi.it. La sua prima raccolta di racconti, Il coraggio di Bradamante e altre storie, è stata pubblicata da Edizioni Kalós nell’ottobre del 2024.
Un racconto di Tonino Ceravolo
Numero di battute: 2447
E no che non si riusciva a capire perché se ne fosse andato ad abitare dietro al cimitero, lasciando per sempre la sua vecchia casa in via Poerio. Quella catapecchia se ne stava lì, isolata a ridosso di tombe e cappelle, mentre in via Poerio pulsavano le voci e la vita. Era cadente come certe case del Sud rurale nei romanzi americani, con i vetri delle finestre crepati o del tutto assenti, gli infissi sbrecciati, l’intonaco quasi completamente sbriciolato e la vegetazione intorno talmente fitta, l’estate, che bisognava farsi largo tra foglie e arbusti per percorrere lo stradino che conduceva all’ingresso.
Cosa trovasse in quel paesaggio di croci e di tombe forse non lo sapeva nemmeno lui e forse per farsi compagnia o per esorcizzare tutti quei morti accendeva di prima mattina uno stereo che teneva in casa e lo metteva al massimo volume, facendo risuonare Mamma Maria dei Ricchi e Poveri o L’italiano di Toto Cutugno per tutta la campagna circostante e per il camposanto di fronte. E non c’era verso di farlo smettere.
«Cosa trovasse in quel paesaggio di croci e di tombe forse non lo sapeva nemmeno lui.»
Un paio di volte ci aveva provato il guardiano del cimitero, andandogli a suonare per parlargli, ma gli aveva restituito imprecazioni a cascata in un italiano mescolato all’inglese e al dialetto. E l’unico risultato era stato che se prima verso l’ora di pranzo e all’imbrunire smetteva, adesso la tirava per tutta la giornata e lasciava giusto la notte vuota di brani musicali. Dopo i fallimenti del custode, gli avevano mandato anche le guardie e le minacce di una denuncia per il disturbo della quiete pubblica. Ma disturbare i morti era una cosa ridicola e quanto ai vivi lì attorno c’era il deserto e nel deserto non c’è nessuno che possa sentire delle canzoni. Anche con le guardie era finita a male parole, come era finita male poi con il prete e con un mezzo parente che si erano portati lassù nell’inutile speranza di aprire almeno una breccia.
Niente, nulla, era ostinato e impenetrabile come l’elmetto che aveva appeso nel balcone, di fianco alla bandiera a stelle e strisce. Ed era stato quell’elmetto, cimelio del suo Vietnam prima del rientro in Italia da emigrato che aveva fatto i soldi, a impensierire i paesani. Così gli avevano mandato dentro la polizia ed era stato inevitabile sparargli addosso quando aveva preso in mano il fucile, lasciandogli il tempo di pensare a come la vita, all’ultimo, non sia altro che una beffa. Morire per un’arma giocattolo che non riusciva a sparare neppure a salve.
Tonino Ceravolo scrive di antropologia e storia dei fenomeni religiosi ed è abilitato a Professore associato in Scienze demoetnoantropologiche. Ha diretto per un decennio la rivista semestrale Rogerius e ha collaborato con il Centro Antropologie e Letterature del Mediterraneo dell’Università della Calabria. Suoi articoli sono apparsi su Voci, Nuovo giornale di filosofia della religione, Dialoghi mediterranei e Luoghi dell’infinito. Collabora a Mimì, inserto domenicale del Quotidiano del Sud – L’altra voce dell’Italia. Tra i suoi libri, editi da Rubbettino, I monaci di clausura (2006), Storia delle nuvole. Da Talete a Don DeLillo (2009), Il prepuzio di Cristo. Storie di reliquie nell’Europa cristiana (2015) e Gli spirdàti. Possessione e purificazione nel culto di san Bruno di Colonia (2017, nuova edizione).
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