Un racconto di Danilo Pettinati
Numero di battute: 2404
Gli occhiali da vista, scivolati sul naso, riflettono le immagini in movimento. Il corpo tozzo, affondato nel divano. Una stringa da scarpe regge appeso al collo un telecomando. Il volto di Beppe, sopracciglia folte e mascella serrata, cambia colore con lo schermo.
La voce acuta di un cabarettista copre il trillo del citofono, l’applauso del pubblico fa vibrare l’apparecchio. Un secondo trillo arriva dopo l'annuncio, ottimista e trionfale, della pubblicità.
Nero.
Rumore di passi. Quattro mandate, pesanti e lente, il cigolio dei cardini. Filtra una lama di luce, poi una mano. Il clic illumina la cantina spoglia.
«Quella è roba tua, devi portarla via.»
Beppe indica due scatoloni appoggiati a terra.
«E mi hai fatto venire per questo?»
«Quello va nell’altra stanza, devi darmi una mano.»
«Quella è roba tua, devi portarla via.»
Si avvicinano, è un vecchio banco da lavoro in legno massiccio.
«Dove sono gli attrezzi?»
«Che attrezzi?»
«Quelli per smontarlo.»
Beppe tasta il tavolaccio tarlato, cerca un appiglio.
«Papà, non penserai…»
Simone piega le ginocchia e scende col bacino, la colonna allineata. Cerca una presa. Contrae i muscoli, ma il tavolo non si muove.
«È troppo pesante, bisogna…»
Beppe punta i piedi e si butta di peso contro il mobile. Tira e spinge come un toro. Ma il tavolo non si muove.
«Papà…»
«A smontarlo perdiamo la giornata.»
Beppe si toglie la giacca.
«Parlare con te è come… ma che hai, perché ti sei portato il telecomando?»
Beppe si sputa nelle mani.
«Spingi da basso e mettici un po’ di forza.»
Appena il mobile stride sul pavimento, pochi centimetri, Simone perde la presa e l’equilibrio. Stacca una mano e si succhia dal dito una scheggia.
Beppe batte i pugni sul tavolo, muove la bocca, ma l’urlo va a vuoto. Senza fiato, si appoggia al muro toccandosi il petto.
«Papà, che hai? Che succede, non stai bene? Papà…»
Nero.
Rumore di ferraglia, colpi di martello. Silenzio. Poi lo scatto di un accendino.
«Stavi per avere un infarto e fumi.»
Beppe, seduto sugli scatoloni, aspira, si asciuga la fronte con la manica. Gli occhiali da vista, scivolati sul naso, riflettono un vecchio tavolo da lavoro mezzo smontato, chiavi e cacciaviti sul pavimento, suo figlio Simone.
«Se no lo perdo.»
«Che cosa?»
«Il telecomando. Lo tengo al collo. Dai andiamo su, finisco io domani.»
«Sei sicuro?»
«Tanto la giornata me l’hai fatta perdere.»
«Allora alzati che prendo gli scatoloni.»
«Ma lascia stare gli scatoloni. Ho preso il pollo, ti fermi a cena, vero?»
Danilo Pettinati è nato ad Acqui Terme nel 1983 e dal 2008 vive a Torino. Laureato al Dams e con un master in Giornalismo, per diversi anni ha lavorato come montatore video, occupandosi soprattutto di documentari. Ha collaborato con MazProject, laboratorio di scrittura collettiva, ed è stato redattore della rivista Narrandom. Alcuni suoi racconti appaiono online e in raccolte cartacee.
Un racconto di Luca Murano
Numero di battute: 2499
«È luminoso e ben servito» aveva detto l’agente immobiliare. Beatrice lo aveva seguito per un lungo corridoio, il parquet che scricchiolava sotto i suoi passi. La stanza si aprì davanti a lei come un’aspettativa tradita: un letto misero, una scrivania graffiata, e una finestra che dava su un muro. L’altra stanza, poco più grande di uno sgabuzzino, conteneva un armadio scrostato e odore di chiuso.
«Novecentocinquanta euro, utenze escluse. A Firenze non troverai di meglio.»
Beatrice annuì, più per mancanza di forze che per convinzione. Era già il sesto appartamento che visitava. Aveva iniziato con entusiasmo, immaginando la sua nuova vita: lo stage, le mostre, i libri da studiare nei caffè. Ma ogni visita le strappava via un pezzo di quel sogno, come se un arazzo intricato, ricco di promesse e colori, si smagliasse filo dopo filo, lasciandola con un tessuto informe e sbiadito.
«C’è già un altro ragazzo che vuole vederlo.»
«Lo prendo» disse senza pensarci.
Il contratto durò due anni. Due anni di muffa sul soffitto, schiamazzi notturni e bollette esorbitanti. La casa si mangiava più di metà del suo stipendio e il resto bastava appena per cibo e trasporti. A fine mese, spesso saltava i pasti, consolandosi con la vista di Ponte Vecchio al tramonto.
«A Firenze non troverai di meglio.»
Ogni tanto tornava al paese, accolta da sua madre con l’entusiasmo di chi non si aspettava più visite. «Ti vedo sciupata» diceva sempre. Beatrice scrollava le spalle e mentiva: «È il lavoro». Non voleva ammettere che quello era l’unica cosa che la teneva a galla.
Un giorno, mentre rincasava, trovò una lettera infilata sotto la porta. L’intestazione era inconfondibile: aumento del canone di locazione. Millecento euro, da pagare entro il mese successivo. Chiamò l’agente immobiliare. «Non c’è niente da fare» le disse.
Passò la notte sveglia, immaginando tutte le alternative. Alla fine, si alzò dal letto, prese un pennarello e scrisse un annuncio: Affitto stanza singola, 600€ mensili. Preferibilmente studentesse o giovani lavoratrici.
L’indomani lo appese all’ingresso della biblioteca universitaria. Poi s’incamminò verso Santa Croce dove si sedette sugli scalini, osservando la città con occhi vuoti. Giocherellò con un piccolo portachiavi a forma di giglio che aveva trovato in terra mesi prima. Lo fece scivolare dalle dita in una pozzanghera, guardandolo affondare. Poi si alzò e tornò sui suoi passi.
Dopo aver strappato l’avviso dalla bacheca, salì su un tram che sfrecciava verso il cuore della città, tra binari e annunci metallici.
Luca Murano, 1980, si è laureato in Lettere moderne all’università di Pavia. Ha lavorato come redattore e correttore di bozze per Mondadori e attualmente vive e lavora in provincia di Firenze. Dal 2011 gestisce il blog di racconti VaiComeSai. Negli anni, molte di queste storie sono apparse su antologie e riviste letterarie fra cui, ’tina, Topsy Kretts, Malgrado le Mosche e Nido di Gazza. Oltre a scrivere per il sito sportivo Around the Game, ha pubblicato due raccolte di racconti: Pasta fatta in casa: sfoglie di racconti tirate a mano (Bookabook, 2018) e I vestiti che non metti più (Dialoghi, 2021). Fa parte della giuria del Premio Letterario Zeno e collabora con BookTribu.
Un racconto di Lucia Cherubini
Numero di battute: 2497
Le ruote seguono quattro piste diverse sulla moquette: una si dimena tra peli incollati e polvere di gesso, un’altra ha fretta. Un sobbalzo occasionale scuote le viti provocando un lamento generale di ferraglia. L’uomo procede sicuro, la tuta blu scivola sul muro come una mano sotto la stoffa. Stringe il manubrio del carrello come se soltanto questo potesse impedirgli di sfasciarsi, rivelando una pioggia di minuscole parti sconnesse.
Si accarezza la testa liscia. Un tempo soltanto i capelli rossi lo staccavano dal fondale. Adesso l’intonaco azzurro è crepato, ogni tanto ne schiaccia un pezzetto sotto la scarpa ed è come calpestare la neve fresca. Quando gira l’angolo il carrello sbanda, un topo gli schizza tra le gambe e sparisce nell’ombra tra una finestra e l’altra. In vent’anni nessuno ha toccato niente, come in paese; le case si sono svuotate e basta, hanno tirato le tende e le porte non sono nemmeno chiuse a chiave.
«Le case si sono svuotate e basta, hanno tirato le tende e le porte
non sono nemmeno chiuse a chiave.»
La moquette non attutisce il brontolio metallico, è l’unico suono nella corrente di assenza. Manca tutto, soprattutto la risata argentina dell’ultima campanella. Gira ancora l’angolo e intuisce il profilo di un armadietto di ferro. La solitudine è come un odore che non ti levi di dosso finché non ci fai l’abitudine. Sa di polvere, legno tarlato e gesso. Nei giorni buoni profuma di carta.
Dal portone d’ingresso la luce entra come uno schiaffo. Ai professori hanno dato una pensione anticipata, consideratelo un regalo. Per lui c’è stata una pacca sulla spalla e un articolo di giornale: “Bidello eroe rifiuta di abbandonare la scuola”. Sua madre l’ha appeso in cucina, ma lui ha sempre preferito la parola “custode”. Sulla soglia raddrizza le spalle, liscia il colletto, inspira a fondo. Gli hanno detto che può portare via quel che vuole, basta che si dia una mossa. Ora non c’è più bisogno delle scuole e nemmeno delle madri: per fortuna la sua l’aveva capito da un pezzo.
Fuori il plotone d’esecuzione è già schierato, hanno fretta ma devono arrendersi al breve corteo aritmico di uomo e carrello. Le ruote affrontano la ghiaia lottando per non affondare; solo una delle guardie, la più giovane, ha un’occhiata curiosa. Sono libri, dice il vecchio, solo libri. L’altro gli fa segno di andare con una breve scrollata di spalle. Non sa di che parla ma lo osserva allontanarsi, la schiena ha un impercettibile sussulto quando le cariche esplodono e la scuola collassa in una tempesta di frammenti. Non c’è più spazio per il silenzio. Il futuro odora di tritolo.
Lucia Cherubini è nata in campagna. Ha studiato Medicina e dopo la laurea si è specializzata in Psichiatria nel tentativo di capire un po’ di cose. Sta concludendo la formazione in Psicoterapia Familiare, ma non le ha ancora capite.
Un racconto di Giovanni Fava
Numero di battute: 2296
Il nuotatore non ha nome. Di tanto in tanto dalla riva lo si vede passare, guardando verso il largo. La sua testa e le sue gambe e le sue braccia fendono l’acqua che si apre e subito richiude ed emergono come il dorso di un pesce che nuota in superficie. I bambini in spiaggia lo indicano e saltano, lo seguono finché il fiato regge correndo sul bagnasciuga. Poi il nuotatore cambia direzione, si spinge più al largo, sparisce tra le onde e i flutti.
La mattina o nel tardo pomeriggio, il mare è piatto, corre come un deserto fin dove non si vede più. Riflette le poche nuvole impassibili che procedono verso l’orizzonte. Qualche uccello, un gabbiano, attraversa il cielo in diagonale. Il suo grido taglia l’aria e raggiunge il nuotatore, che ora attraversa il mare con bracciate comandate da un ritmo militare. Quando c’è la luna piena invece il mare assume un’altra forma, aumenta in trasparenza e i pesci salgono in superficie. Hanno le scaglie come il metallo.
«Il mare è piatto, corre come un deserto fin dove non si vede più.»
Il nuotatore avanza illuminato dalla notte mentre un fascio di luce si proietta su di lui, lo sospinge nella desolata vastità delle acque che attraversa riandando coi pensieri al tempo in cui viveva a terra, dentro a un silenzio che è totale. Gli manca quel sostegno sotto i piedi? Gli mancano le voci, gli odori degli amici, di suo padre, di sua madre? Il nuotatore lascia che lo scrosciare dell’oceano gli riempia la memoria, perché l’acqua è il suo presente e il suo orizzonte.
Una volta il nuotatore si trovò affiancato da una donna. Anche lei nuotava. Per lunghe ore, nuotarono insieme scambiandosi sguardi cadenzati interrotti solo dal ritmo delle bracciate finché un’isola apparve sul filo dell’oceano. Il nuotatore le disse che non avrebbe più toccato terra, che doveva fermarsi lì dove l’acqua ancora era alta e il mare profondo. Non posso, disse, non posso fermarmi.
Lei proseguì sino a riva dove lentamente tirò il suo corpo fuori dall’acqua per sedersi rivolta all’oceano, guardando l’orizzonte. Il sole calava e il nuotatore già non si vedeva più. Piangevano entrambi con le lacrime che diventavano acqua e gli animali marini che ascoltavano in silenzio, indifferenti a quell’immotivata disperazione.
Il mare è un buon posto per i pesci, soprattutto per i pesci che vivono nelle fosse più profonde. Non per gli uomini.
Giovanni Fava (1996) vive tra Treviso e Venezia, dove sta facendo un dottorato in Filosofia su temi ecologici. Dirige Palomar – Rivista di filosofia e traduce dall’inglese per Anthropocene.org. Altri suoi racconti sono apparsi su Micorrize.
Commenti recenti