Un racconto di Giovanni Zagni
Numero di battute: 2471
La domenica mattina, quando ero bambino, mio padre mi portava a fare un giro mentre la mamma andava in chiesa. Anche mio padre andava in chiesa, ma non nella stessa della mamma, e il motivo, avrei scoperto molti anni dopo, era che aveva litigato con il parroco sulla comunione ai divorziati. I miei genitori non erano divorziati, ma mio padre era così, tendeva a prendere sul personale questioni di principio che non interessavano a nessuno. Era buono, serio, rigido. Quindi io andavo a messa la sera con lui, in un’altra chiesa, e la domenica mattina andavamo giù insieme per corso Buenos Aires, a piedi, a guardare le vetrine.
Non compravamo mai nulla. Non ricordo di essere mai entrato, con lui, in un negozio di scarpe o di vestiti o di biciclette. Per me, le cose in vetrina erano come i quadri di un museo.
«Era buono,
serio, rigido.»
Non so nemmeno quando, o come, mio padre fece capire che anche solo l’ingresso, preludio all’ancor più implausibile acquisto, non erano cosa per me, per noi. Ma succedeva ogni tanto che, la sera, mia mamma dicesse qualcosa mentre eravamo a cena noi tre, in cucina, e mio padre voltasse lo sguardo come per fissare un punto lontano fuori dalla finestra, pensoso e tranquillo come sempre. Diceva: «Non ce lo possiamo permettere»; oppure: «Eh, se ce lo potessimo permettere».
Mi vestivo sempre con cose di seconda o terza mano che mia mamma recuperava chissà dove. Così per anni il massimo dell’eleganza per me è stata una Polo azzurra. L’avevo comprata lì in corso Buenos Aires l’ultimo anno delle superiori. Chissà per quale colpo di fortuna, mi ero ritrovato in tasca duecentomila lire. Forse un qualche parente lontano e mai più rivisto. Il negozio mi fece l’impressione di un posto troppo grande e pulito, roba da ricchi. Provai la Polo in fretta, perché avevo paura di far perdere tempo alla commessa. Comprai anche un paio di jeans il cui prezzo mi sembrava favoloso. Mentre pagavo, non riuscivo a togliermi dalla testa l’impressione che mi stessero fregando.
Il giorno dopo, tornai a casa da scuola indossando il mio completo nuovo. Avevo pensato di tenerlo per qualche occasione migliore, che so, un’uscita con una ragazza, ma poi mi ero detto che vestirmi così per un giorno non lo avrebbe rovinato troppo.
All’ingresso in salotto mio padre, ancora in abito da lavoro, mi guardò e poi abbassò gli occhi sugli scarponi sporchi di vernice. «Che sior» disse nel suo dialetto: senza ironia, ma come stupefatto. Fu come se la vergogna mi dovesse sopravvivere.
Giovanni Zagni (Mantova, 1986). Ha un dottorato in Filologia romanza, lavora a Milano come giornalista. È il direttore del progetto di fact-checking Pagella Politica. Questo è il suo primo racconto.