Un racconto di Valeria Micale
Numero di battute: 2484
Si fece strada in mezzo a bottiglie di plastica e pezzi di polistirolo. I piedi le scivolavano fuori dagli zoccoli, costringendola a rimettersi in equilibrio ogni volta. Scansò un ciuffo di alghe secche e si fermò per riprendere fiato. Undici e quarantanove.
Temeva vocio di bambini, risate sguaiate o, peggio, canne da pesca schierate come alabarde sulla battigia. Scorse, invece, solo un vecchio che leggeva e una giovane donna accanto a lui. Si sistemò poco lontano e andò a bagnarsi i piedi. La sabbia era incandescente. Aprì l’ombrellone e si distese sulla sdraio. Non voleva pensare a niente. Soprattutto, non voleva pensare alle parole taglienti della sera prima. Prese il cellulare dalla borsa e digitò: “Mi sento inutile. Mi sembra tutto inutile”. Dodici e zero quattro.
Incominciò il rituale della vestizione. Infilò la cuffia, inumidì gli occhialini con la saliva e li sciacquò nell’acqua trasparente e quasi ferma. Lo scoglio la aspettava come ogni giorno. Procedette fin quando l’acqua le arrivò alla vita, prese un profondo respiro e si immerse.
«Cola Pesce le venne incontro
e la tirò con sé.»
La stupì l’acqua torbida: non c’erano state mareggiate, eppure non riusciva a vedere il fondo. Contò le prime bracciate, avrebbe preso aria alla terza, dal lato sinistro. Poi un Vajont la schiacciò togliendole il respiro. Si dibatté come un pesce nella rete, schiumando alla cieca. Lo sforzo era sovrumano. Diventò un grumo di istinti: mani che annaspavano, gambe che scalciavano, schiena che si inarcava. Nessun pensiero paura ricordo, niente.
Cola Pesce le venne incontro e la tirò con sé. Un banco di acciughe li affiancò, poi scartò all’improvviso e scomparve. Tra un luccichìo di cicirella, riconobbe l’enorme sagoma scura dell’Orcaferone adagiata sul fondo. Le colonne, però, non le vedeva, e com’era possibile che mentre Cola Pesce era con lei la terra non crollasse? Ma non aveva il tempo di avere paura né di chiedersi il perché e il per come, che lui la trascinava più veloce. Si unirono al girotondo vorticoso del Satiro danzante e fu allora che udì la voce di suo padre pronunciare il suo nome. Lo cercò con lo sguardo, ma vide solo pulviscolo d’alga che riluceva colpito dai raggi del sole. Infine, fu risucchiata da gorghi scuri e scivolò senza opporre resistenza, spinta da una forza che avrebbe potuto polverizzarle le ossa.
Una mano la afferrò. Fu colpita da una luce accecante e il fuoco le inondò i polmoni. Poi una voce disse: «È una femmina! Ora di nascita: dodici e zero nove».
Aprì gli occhi e respirò.
Valeria Micale, biologa, è nata e vive a Messina, dove lavora presso il Consiglio nazionale delle ricerche. Autrice di lavori scientifici pubblicati su riviste internazionali, ha scoperto da poco che le piace raccontare storie. Suoi racconti appaiono o appariranno su Malgrado le mosche, Bomarscé e Micorrize, oltre che nell’antologia sul tema del femminicidio Caro maschio che mi uccidi (Fusibilia 2019).