Un racconto di Stefano Ficagna
Numero di battute: 2487
L’avevano ribattezzato l’albero della conta, ed era il simbolo del suo regno. Una vecchia quercia, proprio dietro il muro di cinta del cimitero, con la corteccia fragile e la linfa che fuoriusciva dalle crepe. Attirava le formiche quel liquido denso, e chi stava a braccia conserte a fare il conto alla rovescia contro il tronco finiva per trovarsele dappertutto. Sulle braccia, nei vestiti, persino tra i capelli.
A lui non succedeva mai. Era il più bravo a nascondersi, quindi la fase della ricerca spettava sempre agli altri. Aveva imposto quella regola, e gli altri l’avevano accettata.
Era stato sempre lui a scegliere quell’albero come tana, per via dei due fori che risaltavano appena sopra le loro teste. Suo nonno gliene aveva raccontato la storia, una sera che il vino e la malinconia l’avevano reso loquace.
Lui lo chiamava l’albero del boia.
«Disposero i prigionieri lungo il muro. Erano quelli che non si erano arresi, che avevano combattuto fino all’ultimo. Bisognava dare un segnale forte.»
«Lui lo chiamava l’albero del boia.»
Suo padre non voleva che gli raccontasse quelle storie, e col senno di poi tanta violenza a dieci anni la si può assimilare più che capire.
«Ce n’erano troppi, così uno lo legarono all’albero. Qualcuno piangeva, ma lui se ne stava a testa alta. Sembrava ci sfidasse.» Il nonno fece una pausa, gli occhi umidi.
«Perché piangi?»
Il nonno gli rivolse un sorriso. «Eravamo amici. Prima, quando le cose non erano così complicate.»
Lui non capiva. Elaborò quel pensiero solo col tempo, ma già allora sentiva che nel gioco e in battaglia la storia la fanno i vincitori. Non c’è pietà per gli sconfitti.
Lo dimostrò il giorno dopo, quando un amico lo accusò di barare a nascondino. Prima gli diede una spinta, poi lo tenne a terra mettendogli un piede in testa. Non gli bastarono le scuse, lo liberò solo dopo che le formiche avevano già preso a camminargli sul volto.
Passarono gli anni, il nonno morì, nuove lotte si stagliarono all’orizzonte. Il ragazzino crebbe, affinò le sue abilità, divenne così bravo da nascondersi persino a sé stesso. Si illuse di lottare per un ideale, e non per la sensazione che gli procurava avere una pistola in mano.
All’uomo adulto che si ritrovò di fronte quel tronco coi due fori come monito, una notte in cui le grida e i latrati lo inseguivano, non rimase che sperare d’esser bravo come allora a sparire. O che a dargli la caccia ci fosse almeno un uomo buono come il nonno, capace di spargere lacrime per chi, persa l’innocenza, ha compiuto le scelte sbagliate.
Stefano Ficagna (1979) è nato a Novara e vive a Milano. Si è diplomato come perito elettrotecnico, lavora in una fabbrica di bottoni, ma le sue vere passioni sono musica e scrittura, che cerca di coniugare qui. Ha pubblicato racconti sulle riviste Alibi, Bomarscé, Split e Cedro.mag, ma va soprattutto fiero di quello scritto a quattro mani nel disco Tl;Dl della band sperimentale romana Vonneumann. Ha da poco terminato una raccolta di racconti.