Un racconto di Simone Voci
Numero di battute: 2484
Aveva creato moltissima delusione, oltre che scandalo, la notizia della grande truffa escogitata da quello che, per tutti gli anni Ottanta e anche in seguito, era stato considerato il più importante compositore d’Europa: Marcello Gabotti, torinese, morto in circostanze misteriose nell’ottobre del 1997, anno in cui si scoprì che – in realtà – non aveva mai scritto nulla di suo pugno. L’archiviazione del caso aveva permesso di rendere disponibile, per ricercatori ed esperti, il grosso e squadrato calcolatore da lui utilizzato per dar vita alle geniali composizioni spacciate per sue.
E io, allora dottorando in Computer Science all’università di Torino, ebbi l’opportunità di avere fra le mani quell’apparecchio, nell’aprile del 2015, entro le mura dei laboratori del dipartimento d’Informatica. Si presentava come una sorta di computer rettangolare, di metallo, grosso circa come una poltrona.
«Come funzionasse era ancora un rebus tutto da risolvere.»
Non era mai stato aperto: un altro dei misteri legati a quelle indagini svolte – opinione comune nel settore – coi piedi. Al grande elaboratore era collegata una sorta di asticella orizzontale che terminava con una puntina, verticale, in grafite. Bastava pigiare un tasto e l’asta iniziava a muoversi, a scrivere note e accordi. Come funzionasse era ancora un rebus tutto da risolvere.
E fu per tale motivo che m’accinsi a svitare i chiodini che tenevano assieme le pareti metalliche di quello strano congegno. Poi, quando – con grande fatica, dato che una sostanza viscida lo manteneva incollato – riuscii a levare un pannello laterale, dovetti soffocare un urlo. Tra un intrico di ingranaggi e cavi colorati, si stagliava una piccola creatura di forma umanoide, in posizione fetale, tremante e le cui carni si fondevano con i circuiti. Era bianca, pallida, ossuta e piena di rughe, con lunghe braccia e gambe completate da zampe artigliate. Interamente priva di peli, presentava una pelle viscida e coperta di quel materiale vischioso che mi aveva dato problemi poco prima.
Girò la testa verso di me e lanciò un fischio, come quello di un pipistrello; il viso era assurdo, una specie di chimera: un becco d’anitra, nero e pieno di piccoli denti aguzzi, sormontato da due occhi color ghiaccio, tondi e fuori dalle orbite, le quali si presentavano scavate e violacee. Le orecchie parevano quelle di una capra.
Giusto il tempo di studiare, con lo sguardo, quanto avevo scoperto e l’asticella prese a muoversi, a tracciare sul foglio, non una serie di note, ma una sola parola: “Aiuto!”.
Simone Voci è nato nel 1996 a Torino, dove vive e studia Filosofia a livello universitario. È appassionato di tutto ciò che sfiori il genere “fantastico” e il genere “weird”, nelle loro varie ramificazioni.