Un racconto di Matteo Giordano
Numero di battute: 2445
Lia respirava così forte che pareva una locomotiva a catarro; tremava sotto la pioggia gelida protetta solo dal suo vestito di velluto giallo, da casalinga anni Settanta o mercatino rionale da tutto a cinque euro. Strizzava gli occhi che pareva le dovessero schizzare fuori dalla testa mentre con le mani aveva stretto la bottiglia con ancora due dita di birra dentro fino a spaccarla. Il fumo del respiro la avvolgeva.
Io correvo, e voltandomi vidi la sagoma sottile di Lia nella luce tremolante dell’insegna con la scritta “bar centrale”; mi allontanavo da lei, dalla luce, e davanti avevo solo il buio delle strade vuote del Kali Yuga; speravo almeno di non farmi fermare da una pattuglia a cui forse non sarei riuscito a spiegare il senso di quella fuga, ammesso che ne sia mai esistita una con un senso.
«Davanti avevo solo il buio delle strade vuote del Kali Yuga.»
In fondo alla strada, quando le ultime case spariscono e inizia la campagna, di colpo sentii la mia mente staccarsi dal corpo, l’anima dalla materia, come quando salta un legamento o un muscolo si strappa. Non potevo più muovermi e caddi a terra sul ginocchio sinistro, la gamba destra era piantata al suolo e pulsava di dolore.
Lia invece di inseguirmi si era chinata sopra l’impronta bagnata dei miei scarponi che luccicava sul porfido e aveva iniziato a infilzarla con le schegge di bottiglia rotta, rabbiosa, fino a sbriciolarle tutte.
«Hai preso qualcosa? Ehi, hai preso qualcosa?» continuava a chiedermi con insistenza un carabiniere poco più grande di me che mi aveva trovato a piangere per il dolore a bordo strada.
«Ho lasciato la mia ragazza, l’ho lasciata e ora non mi posso muovere più.»
Al pronto soccorso non mi trovarono nulla fuori posto, i miei piedi non erano feriti.
Tornai a casa che era quasi mattina e trovai Lia seduta davanti al mio portone con i vestiti umidi appiccicati addosso e pensai alla prima volta che l’avevo vista, seduta su una stuoia nella parte della libreria esoterica dedicata alla meditazione intenta a tracciare lo schema di un kalpa, un ciclo cosmico, su un quaderno a quadretti.
«Sapevi che l’Era del cinghiale bianco dura 306.720.000 anni?» mi aveva detto senza nemmeno sollevare lo sguardo e la bic profumata dal foglio.
Lia era davvero convinta che saremmo rimasti insieme per tutto il tempo che ci restava da trascorrere in questa Era, ma non pensavo che per tenermi legato sarebbe arrivata a provare su di me uno dei suoi riti di magia omeopatica (o era magia contagiosa?).
Devo rileggere Frazer.
Matteo Giordano è nato nel 1981 a Sondrio dove attualmente vive dopo avere trascorso quasi dieci anni a Londra. Suoi racconti sono stai pubblicati su Carie e Settepagine. Ama correre ultramaratone e collezionare vinili anni Ottanta.