Un racconto di Ilaria Padovan
Numero di battute: 2472
Càpita, di non riuscire ad ammazzarsi subito càpita. Càpita ti spieghino che nella modalità che avevi scelto tu non ci saresti mai riuscito: ed è un dispiacere un po’ diverso. E tu sei sporco, perché ci hai provato veramente. E tu, soprattutto, ti vergogni.
Alla fine, la vita è una cosa passeggera. È che a me non passa.
Penso a tutte le mostre a cui non sono stato, a tutte le esperienze che non ho esperito – esantemi su pagine di agende virtuali e indistruttibili – a tutti i dovresti andarci, anzi vacci, assolutamente vacci a cui, poi, non sono andato nonostante l’inappuntabile, perenne terrore di cartapesta di rimanere escluso dagli eventi esclusivi a cui, però, io ero stato invitato – la meraviglia, come la pazienza, si esaurisce con l’uso: noi volevamo essere sacri, invece ci siamo consumati e rimasti soli.
Penso che sarebbe meglio continuare a non capire niente, come tutti i figli degli anni Novanta, la paura fa novanta, la Novanta fa paura, penso alle cose che si dicono sempre, sempre uguali, sempre le stesse, penso al tormento della ripetizione, al sollievo di un definitivo che non arriverà mai, penso che mi viene da vomitare.
«Vomito:
un gatto.»
Vomito:
un gatto.
(Mi piacevano, i gatti, ora
mi fanno un poco schifo.)
Vomito sul gatto vomitato.
Mi si rivolta la faccia quando so che sarebbe meglio dire volto ma sono brutto, atroce, un mostro e allora dico faccia, quella su cui scivolano gli occhi espulsi dalle loro orbite a spinte, impulsi, conati, scivolano sul gatto anche loro, mi bruciano le guance, le scavano – acidi: tossico, siamo tutti tossici in questa relazione – alla fine le cicatrici sono solo tatuaggi in negativo, mi decorano quel che resta del viso.
Niente,
non esce più
niente: vorrei uscire io. Esce
il gatto, bello vivo e bello sporco:
fa miao.
Devo alzarmi, pulirmi, dar da mangiare a un gatto che prima non avevo. Triste, sono triste come gli elefanti. Sono – siamo – carta macellata, che cosa vuoi, tu, da noi?
Mi rispondono i pesciolini d’argento che vivono nei muri di casa mia, eccoli.
Il gatto è contento solo se gli do da mangiare, ma se provo ad accarezzarlo scappa. I pesciolini splendenti che di notte escono dalle crepe della doccia, loro sì mi vengono a cercare.
Mi siedo a terra, li guardo pianopiano
arrivare, alluvionare il pavimento: non più mattonelle senza calore,
ma acciughine spinose e
vive e
veloci e
voraci.
Si chiamano pesciolini
d’argento
ma se apri l’acqua affogano.
Beati loro.
Ilaria Padovan nasce a Pavia nel 1990 e lavora in consulenza a Milano. Suoi racconti sono comparsi su «Topsy Kretts», «Crunched», «Risme», «Turchese», «Grado Zero», «Yanez». Collabora con Treccani, il Tascabile, The Vision e Limina.