Un racconto di Tonino Ceravolo
Numero di battute: 2447
E no che non si riusciva a capire perché se ne fosse andato ad abitare dietro al cimitero, lasciando per sempre la sua vecchia casa in via Poerio. Quella catapecchia se ne stava lì, isolata a ridosso di tombe e cappelle, mentre in via Poerio pulsavano le voci e la vita. Era cadente come certe case del Sud rurale nei romanzi americani, con i vetri delle finestre crepati o del tutto assenti, gli infissi sbrecciati, l’intonaco quasi completamente sbriciolato e la vegetazione intorno talmente fitta, l’estate, che bisognava farsi largo tra foglie e arbusti per percorrere lo stradino che conduceva all’ingresso.
Cosa trovasse in quel paesaggio di croci e di tombe forse non lo sapeva nemmeno lui e forse per farsi compagnia o per esorcizzare tutti quei morti accendeva di prima mattina uno stereo che teneva in casa e lo metteva al massimo volume, facendo risuonare Mamma Maria dei Ricchi e Poveri o L’italiano di Toto Cutugno per tutta la campagna circostante e per il camposanto di fronte. E non c’era verso di farlo smettere.
«Cosa trovasse in quel paesaggio di croci e di tombe forse non lo sapeva nemmeno lui.»
Un paio di volte ci aveva provato il guardiano del cimitero, andandogli a suonare per parlargli, ma gli aveva restituito imprecazioni a cascata in un italiano mescolato all’inglese e al dialetto. E l’unico risultato era stato che se prima verso l’ora di pranzo e all’imbrunire smetteva, adesso la tirava per tutta la giornata e lasciava giusto la notte vuota di brani musicali. Dopo i fallimenti del custode, gli avevano mandato anche le guardie e le minacce di una denuncia per il disturbo della quiete pubblica. Ma disturbare i morti era una cosa ridicola e quanto ai vivi lì attorno c’era il deserto e nel deserto non c’è nessuno che possa sentire delle canzoni. Anche con le guardie era finita a male parole, come era finita male poi con il prete e con un mezzo parente che si erano portati lassù nell’inutile speranza di aprire almeno una breccia.
Niente, nulla, era ostinato e impenetrabile come l’elmetto che aveva appeso nel balcone, di fianco alla bandiera a stelle e strisce. Ed era stato quell’elmetto, cimelio del suo Vietnam prima del rientro in Italia da emigrato che aveva fatto i soldi, a impensierire i paesani. Così gli avevano mandato dentro la polizia ed era stato inevitabile sparargli addosso quando aveva preso in mano il fucile, lasciandogli il tempo di pensare a come la vita, all’ultimo, non sia altro che una beffa. Morire per un’arma giocattolo che non riusciva a sparare neppure a salve.
Tonino Ceravolo scrive di antropologia e storia dei fenomeni religiosi ed è abilitato a Professore associato in Scienze demoetnoantropologiche. Ha diretto per un decennio la rivista semestrale Rogerius e ha collaborato con il Centro Antropologie e Letterature del Mediterraneo dell’Università della Calabria. Suoi articoli sono apparsi su Voci, Nuovo giornale di filosofia della religione, Dialoghi mediterranei e Luoghi dell’infinito. Collabora a Mimì, inserto domenicale del Quotidiano del Sud – L’altra voce dell’Italia. Tra i suoi libri, editi da Rubbettino, I monaci di clausura (2006), Storia delle nuvole. Da Talete a Don DeLillo (2009), Il prepuzio di Cristo. Storie di reliquie nell’Europa cristiana (2015) e Gli spirdàti. Possessione e purificazione nel culto di san Bruno di Colonia (2017, nuova edizione).