Un racconto di Marina Mongiovì
Numero di battute: 2086
A ogni passo esplode uno stridere di foglie. Mi sollevo sulle punte come quando, da bambina, entravo in camera di mamma e papà. Guardo alle mie spalle e vedo filari di querce e castagni, folate improvvise fanno stormire le fronde. È qui, da qualche parte nell’ombra. Il lupo, l’orco, l’uomo nero. La sua figura potrebbe confondersi tra rette di cortecce. Mi osserva e conosce l’incedere incerto, le pupille assetate di luce, la fame d’aria nel petto della preda. Respira piano e attende che io mi fermi, in un eccesso di fiducia o con le gambe spezzate dalla fatica.
Una luna calante illumina un percorso di sassi e rovi. Il bosco ha dita sottili che solleticano la schiena, le caviglie e i polpacci. Mi piace pensare che le tele dei ragni e le resine dei pini possano sanare gli squarci sulla carne, alleviare il dolore viola dei pugni. Voglio credere che tutte le foglie, con il loro canto notturno, possano placare questa angoscia che preme sul costato.
«È qui, da qualche parte nell’ombra.»
La casa è a valle, adagiata su una pianura che odora di zagara, al riparo dal maestrale. Da una finestra si vede la montagna e, verso est, si intravede uno scorcio di mare. La casa sta in mezzo, è qualcosa che non sa cosa essere e cosa diventare. Là ho lasciato file di detersivi e grucce, una tavola apparecchiata per cena, le lenzuola da lavare, il vorticare monotono delle centrifughe, la piattaia e i barattoli di yogurt, illuminati dalla fredda luce del frigo. Nella normalità di un divano e un televisore, risuona ancora il singhiozzare dentro a uno sgabuzzino, e assordano i silenzi come bandiere bianche.
Il buio del bosco non fa paura, come nelle fiabe che mi raccontavano da piccola. Sono nel posto giusto, tra lo sguisciare di piccoli rettili, le ombre che si allungano, il canto dei grilli e della civetta, l’odore di terra umida che, dalle narici, scende ai talloni e mette radici. Superato un pendio si apre una radura, quello che un tempo era un cratere vulcanico ora è un lago di foglie d’acanto e felci. Sulla testa non ho più le chiome dei faggi ma uno sciame di stelle.
Mi volto un’ultima volta. L’ho seminato.