Un racconto di Danilo Pettinati
Numero di battute: 2404
Gli occhiali da vista, scivolati sul naso, riflettono le immagini in movimento. Il corpo tozzo, affondato nel divano. Una stringa da scarpe regge appeso al collo un telecomando. Il volto di Beppe, sopracciglia folte e mascella serrata, cambia colore con lo schermo.
La voce acuta di un cabarettista copre il trillo del citofono, l’applauso del pubblico fa vibrare l’apparecchio. Un secondo trillo arriva dopo l'annuncio, ottimista e trionfale, della pubblicità.
Nero.
Rumore di passi. Quattro mandate, pesanti e lente, il cigolio dei cardini. Filtra una lama di luce, poi una mano. Il clic illumina la cantina spoglia.
«Quella è roba tua, devi portarla via.»
Beppe indica due scatoloni appoggiati a terra.
«E mi hai fatto venire per questo?»
«Quello va nell’altra stanza, devi darmi una mano.»
«Quella è roba tua, devi portarla via.»
Si avvicinano, è un vecchio banco da lavoro in legno massiccio.
«Dove sono gli attrezzi?»
«Che attrezzi?»
«Quelli per smontarlo.»
Beppe tasta il tavolaccio tarlato, cerca un appiglio.
«Papà, non penserai…»
Simone piega le ginocchia e scende col bacino, la colonna allineata. Cerca una presa. Contrae i muscoli, ma il tavolo non si muove.
«È troppo pesante, bisogna…»
Beppe punta i piedi e si butta di peso contro il mobile. Tira e spinge come un toro. Ma il tavolo non si muove.
«Papà…»
«A smontarlo perdiamo la giornata.»
Beppe si toglie la giacca.
«Parlare con te è come… ma che hai, perché ti sei portato il telecomando?»
Beppe si sputa nelle mani.
«Spingi da basso e mettici un po’ di forza.»
Appena il mobile stride sul pavimento, pochi centimetri, Simone perde la presa e l’equilibrio. Stacca una mano e si succhia dal dito una scheggia.
Beppe batte i pugni sul tavolo, muove la bocca, ma l’urlo va a vuoto. Senza fiato, si appoggia al muro toccandosi il petto.
«Papà, che hai? Che succede, non stai bene? Papà…»
Nero.
Rumore di ferraglia, colpi di martello. Silenzio. Poi lo scatto di un accendino.
«Stavi per avere un infarto e fumi.»
Beppe, seduto sugli scatoloni, aspira, si asciuga la fronte con la manica. Gli occhiali da vista, scivolati sul naso, riflettono un vecchio tavolo da lavoro mezzo smontato, chiavi e cacciaviti sul pavimento, suo figlio Simone.
«Se no lo perdo.»
«Che cosa?»
«Il telecomando. Lo tengo al collo. Dai andiamo su, finisco io domani.»
«Sei sicuro?»
«Tanto la giornata me l’hai fatta perdere.»
«Allora alzati che prendo gli scatoloni.»
«Ma lascia stare gli scatoloni. Ho preso il pollo, ti fermi a cena, vero?»
Danilo Pettinati è nato ad Acqui Terme nel 1983 e dal 2008 vive a Torino. Laureato al Dams e con un master in Giornalismo, per diversi anni ha lavorato come montatore video, occupandosi soprattutto di documentari. Ha collaborato con MazProject, laboratorio di scrittura collettiva, ed è stato redattore della rivista Narrandom. Alcuni suoi racconti appaiono online e in raccolte cartacee.
Un racconto di Luca Murano
Numero di battute: 2499
«È luminoso e ben servito» aveva detto l’agente immobiliare. Beatrice lo aveva seguito per un lungo corridoio, il parquet che scricchiolava sotto i suoi passi. La stanza si aprì davanti a lei come un’aspettativa tradita: un letto misero, una scrivania graffiata, e una finestra che dava su un muro. L’altra stanza, poco più grande di uno sgabuzzino, conteneva un armadio scrostato e odore di chiuso.
«Novecentocinquanta euro, utenze escluse. A Firenze non troverai di meglio.»
Beatrice annuì, più per mancanza di forze che per convinzione. Era già il sesto appartamento che visitava. Aveva iniziato con entusiasmo, immaginando la sua nuova vita: lo stage, le mostre, i libri da studiare nei caffè. Ma ogni visita le strappava via un pezzo di quel sogno, come se un arazzo intricato, ricco di promesse e colori, si smagliasse filo dopo filo, lasciandola con un tessuto informe e sbiadito.
«C’è già un altro ragazzo che vuole vederlo.»
«Lo prendo» disse senza pensarci.
Il contratto durò due anni. Due anni di muffa sul soffitto, schiamazzi notturni e bollette esorbitanti. La casa si mangiava più di metà del suo stipendio e il resto bastava appena per cibo e trasporti. A fine mese, spesso saltava i pasti, consolandosi con la vista di Ponte Vecchio al tramonto.
«A Firenze non troverai di meglio.»
Ogni tanto tornava al paese, accolta da sua madre con l’entusiasmo di chi non si aspettava più visite. «Ti vedo sciupata» diceva sempre. Beatrice scrollava le spalle e mentiva: «È il lavoro». Non voleva ammettere che quello era l’unica cosa che la teneva a galla.
Un giorno, mentre rincasava, trovò una lettera infilata sotto la porta. L’intestazione era inconfondibile: aumento del canone di locazione. Millecento euro, da pagare entro il mese successivo. Chiamò l’agente immobiliare. «Non c’è niente da fare» le disse.
Passò la notte sveglia, immaginando tutte le alternative. Alla fine, si alzò dal letto, prese un pennarello e scrisse un annuncio: Affitto stanza singola, 600€ mensili. Preferibilmente studentesse o giovani lavoratrici.
L’indomani lo appese all’ingresso della biblioteca universitaria. Poi s’incamminò verso Santa Croce dove si sedette sugli scalini, osservando la città con occhi vuoti. Giocherellò con un piccolo portachiavi a forma di giglio che aveva trovato in terra mesi prima. Lo fece scivolare dalle dita in una pozzanghera, guardandolo affondare. Poi si alzò e tornò sui suoi passi.
Dopo aver strappato l’avviso dalla bacheca, salì su un tram che sfrecciava verso il cuore della città, tra binari e annunci metallici.
Luca Murano, 1980, si è laureato in Lettere moderne all’università di Pavia. Ha lavorato come redattore e correttore di bozze per Mondadori e attualmente vive e lavora in provincia di Firenze. Dal 2011 gestisce il blog di racconti VaiComeSai. Negli anni, molte di queste storie sono apparse su antologie e riviste letterarie fra cui, ’tina, Topsy Kretts, Malgrado le Mosche e Nido di Gazza. Oltre a scrivere per il sito sportivo Around the Game, ha pubblicato due raccolte di racconti: Pasta fatta in casa: sfoglie di racconti tirate a mano (Bookabook, 2018) e I vestiti che non metti più (Dialoghi, 2021). Fa parte della giuria del Premio Letterario Zeno e collabora con BookTribu.
Un racconto di Lucia Cherubini
Numero di battute: 2497
Le ruote seguono quattro piste diverse sulla moquette: una si dimena tra peli incollati e polvere di gesso, un’altra ha fretta. Un sobbalzo occasionale scuote le viti provocando un lamento generale di ferraglia. L’uomo procede sicuro, la tuta blu scivola sul muro come una mano sotto la stoffa. Stringe il manubrio del carrello come se soltanto questo potesse impedirgli di sfasciarsi, rivelando una pioggia di minuscole parti sconnesse.
Si accarezza la testa liscia. Un tempo soltanto i capelli rossi lo staccavano dal fondale. Adesso l’intonaco azzurro è crepato, ogni tanto ne schiaccia un pezzetto sotto la scarpa ed è come calpestare la neve fresca. Quando gira l’angolo il carrello sbanda, un topo gli schizza tra le gambe e sparisce nell’ombra tra una finestra e l’altra. In vent’anni nessuno ha toccato niente, come in paese; le case si sono svuotate e basta, hanno tirato le tende e le porte non sono nemmeno chiuse a chiave.
«Le case si sono svuotate e basta, hanno tirato le tende e le porte
non sono nemmeno chiuse a chiave.»
La moquette non attutisce il brontolio metallico, è l’unico suono nella corrente di assenza. Manca tutto, soprattutto la risata argentina dell’ultima campanella. Gira ancora l’angolo e intuisce il profilo di un armadietto di ferro. La solitudine è come un odore che non ti levi di dosso finché non ci fai l’abitudine. Sa di polvere, legno tarlato e gesso. Nei giorni buoni profuma di carta.
Dal portone d’ingresso la luce entra come uno schiaffo. Ai professori hanno dato una pensione anticipata, consideratelo un regalo. Per lui c’è stata una pacca sulla spalla e un articolo di giornale: “Bidello eroe rifiuta di abbandonare la scuola”. Sua madre l’ha appeso in cucina, ma lui ha sempre preferito la parola “custode”. Sulla soglia raddrizza le spalle, liscia il colletto, inspira a fondo. Gli hanno detto che può portare via quel che vuole, basta che si dia una mossa. Ora non c’è più bisogno delle scuole e nemmeno delle madri: per fortuna la sua l’aveva capito da un pezzo.
Fuori il plotone d’esecuzione è già schierato, hanno fretta ma devono arrendersi al breve corteo aritmico di uomo e carrello. Le ruote affrontano la ghiaia lottando per non affondare; solo una delle guardie, la più giovane, ha un’occhiata curiosa. Sono libri, dice il vecchio, solo libri. L’altro gli fa segno di andare con una breve scrollata di spalle. Non sa di che parla ma lo osserva allontanarsi, la schiena ha un impercettibile sussulto quando le cariche esplodono e la scuola collassa in una tempesta di frammenti. Non c’è più spazio per il silenzio. Il futuro odora di tritolo.
Lucia Cherubini è nata in campagna. Ha studiato Medicina e dopo la laurea si è specializzata in Psichiatria nel tentativo di capire un po’ di cose. Sta concludendo la formazione in Psicoterapia Familiare, ma non le ha ancora capite.
Un racconto di Giovanni Fava
Numero di battute: 2296
Il nuotatore non ha nome. Di tanto in tanto dalla riva lo si vede passare, guardando verso il largo. La sua testa e le sue gambe e le sue braccia fendono l’acqua che si apre e subito richiude ed emergono come il dorso di un pesce che nuota in superficie. I bambini in spiaggia lo indicano e saltano, lo seguono finché il fiato regge correndo sul bagnasciuga. Poi il nuotatore cambia direzione, si spinge più al largo, sparisce tra le onde e i flutti.
La mattina o nel tardo pomeriggio, il mare è piatto, corre come un deserto fin dove non si vede più. Riflette le poche nuvole impassibili che procedono verso l’orizzonte. Qualche uccello, un gabbiano, attraversa il cielo in diagonale. Il suo grido taglia l’aria e raggiunge il nuotatore, che ora attraversa il mare con bracciate comandate da un ritmo militare. Quando c’è la luna piena invece il mare assume un’altra forma, aumenta in trasparenza e i pesci salgono in superficie. Hanno le scaglie come il metallo.
«Il mare è piatto, corre come un deserto fin dove non si vede più.»
Il nuotatore avanza illuminato dalla notte mentre un fascio di luce si proietta su di lui, lo sospinge nella desolata vastità delle acque che attraversa riandando coi pensieri al tempo in cui viveva a terra, dentro a un silenzio che è totale. Gli manca quel sostegno sotto i piedi? Gli mancano le voci, gli odori degli amici, di suo padre, di sua madre? Il nuotatore lascia che lo scrosciare dell’oceano gli riempia la memoria, perché l’acqua è il suo presente e il suo orizzonte.
Una volta il nuotatore si trovò affiancato da una donna. Anche lei nuotava. Per lunghe ore, nuotarono insieme scambiandosi sguardi cadenzati interrotti solo dal ritmo delle bracciate finché un’isola apparve sul filo dell’oceano. Il nuotatore le disse che non avrebbe più toccato terra, che doveva fermarsi lì dove l’acqua ancora era alta e il mare profondo. Non posso, disse, non posso fermarmi.
Lei proseguì sino a riva dove lentamente tirò il suo corpo fuori dall’acqua per sedersi rivolta all’oceano, guardando l’orizzonte. Il sole calava e il nuotatore già non si vedeva più. Piangevano entrambi con le lacrime che diventavano acqua e gli animali marini che ascoltavano in silenzio, indifferenti a quell’immotivata disperazione.
Il mare è un buon posto per i pesci, soprattutto per i pesci che vivono nelle fosse più profonde. Non per gli uomini.
Giovanni Fava (1996) vive tra Treviso e Venezia, dove sta facendo un dottorato in Filosofia su temi ecologici. Dirige Palomar – Rivista di filosofia e traduce dall’inglese per Anthropocene.org. Altri suoi racconti sono apparsi su Micorrize.
Un racconto di Marina Mongiovì
Numero di battute: 2086
A ogni passo esplode uno stridere di foglie. Mi sollevo sulle punte come quando, da bambina, entravo in camera di mamma e papà. Guardo alle mie spalle e vedo filari di querce e castagni, folate improvvise fanno stormire le fronde. È qui, da qualche parte nell’ombra. Il lupo, l’orco, l’uomo nero. La sua figura potrebbe confondersi tra rette di cortecce. Mi osserva e conosce l’incedere incerto, le pupille assetate di luce, la fame d’aria nel petto della preda. Respira piano e attende che io mi fermi, in un eccesso di fiducia o con le gambe spezzate dalla fatica.
Una luna calante illumina un percorso di sassi e rovi. Il bosco ha dita sottili che solleticano la schiena, le caviglie e i polpacci. Mi piace pensare che le tele dei ragni e le resine dei pini possano sanare gli squarci sulla carne, alleviare il dolore viola dei pugni. Voglio credere che tutte le foglie, con il loro canto notturno, possano placare questa angoscia che preme sul costato.
«È qui, da qualche parte nell’ombra.»
La casa è a valle, adagiata su una pianura che odora di zagara, al riparo dal maestrale. Da una finestra si vede la montagna e, verso est, si intravede uno scorcio di mare. La casa sta in mezzo, è qualcosa che non sa cosa essere e cosa diventare. Là ho lasciato file di detersivi e grucce, una tavola apparecchiata per cena, le lenzuola da lavare, il vorticare monotono delle centrifughe, la piattaia e i barattoli di yogurt, illuminati dalla fredda luce del frigo. Nella normalità di un divano e un televisore, risuona ancora il singhiozzare dentro a uno sgabuzzino, e assordano i silenzi come bandiere bianche.
Il buio del bosco non fa paura, come nelle fiabe che mi raccontavano da piccola. Sono nel posto giusto, tra lo sguisciare di piccoli rettili, le ombre che si allungano, il canto dei grilli e della civetta, l’odore di terra umida che, dalle narici, scende ai talloni e mette radici. Superato un pendio si apre una radura, quello che un tempo era un cratere vulcanico ora è un lago di foglie d’acanto e felci. Sulla testa non ho più le chiome dei faggi ma uno sciame di stelle.
Mi volto un’ultima volta. L’ho seminato.
Un racconto di Andrea Leone
Numero di battute: 2215
Aveva atteso un attimo, in equilibrio di fronte al cancello, dando solo un filo di gas; poi aveva spalancato, e la For Race e il blocco 70cc Polini Sport e il filtro a cono avevano urlato come uno stadio intero, e la ruota anteriore s’era immediatamente impennata; casa sua l’aveva “salutata” col dito medio alzato, ancora impennando, con la mano destra che amministrava ritmicamente il gas, mantenendolo in perfetto equilibrio.
Il cielo era un deserto d’azzurro, e ora sì che finalmente si ragionava: l’odore speziato dello scarico, il frastuono amico nelle orecchie, e solo lui e quel cielo, uno di fronte all’altro, senza più voci, facce sgradite, rotture di coglioni, né niente.
«Era un vero fenomeno a impennare.»
Voglia di tirare fuori anche la lingua, di prenderlo a morsi quel cielo; e anche di sputare all’indietro, soprattutto quando (come in questo caso) con la coda dell’occhio notava una sagoma di vecchietta lungo il ciglio della strada. S’immaginava allora la decrepita in questione che ne seguiva la traiettoria, fino a terra, e poi che scuoteva la testa, lagnandosi di quegli sciagurati-giovani-di-oggi. E anche, come ci rideva!
Era un vero fenomeno a impennare. Una delle cose che più amava e che più sentiva di saper fare. (Ma anche la cosa di lui che più era risaputa e tenuta in conto dai coetanei, ché lui era quello “baciato da Dio”, che aveva un talento come non s’era mai visto a starsene lassù, su-una-ruota.)
Avesse potuto? Praticamente si sarebbe votato solo a quello. A impennare. L’impennatore avrebbe fatto.
Ma di più: in quel momento, lungo la via, se la via stessa si fosse ripiegata per formare un circuito infinito, lui avrebbe firmato seduta stante per non tornare mai più giù, a terra. Gli era presa così, un’improvvisa smania di restarsene per aria, su-una-ruota, fino a data da destinarsi…
Ma c’era lo stop: e quasi l’avrebbe eluso, si sarebbe immesso in strada tra un po’ senza guardare, tenendo fede a quel matto proposito, assurdamente sicuro…
Ma un camion sopraggiungeva… strombazzò fragorosamente…
E per un’unghia soltanto, (un’unghia, dico!), riabbassandosi, deviando appena in tempo nel fosso di fianco alla strada, non fece di sé e del suo Phantom F12 truccato uno sfacelo di acciaio, vetroresina e carne.
Andrea Leone è nato a Lucca nel 1989. Dopo undici anni di autoproduzioni musicali (tra cui un disco, TRE, prodotto nel 2016 da Manza Nera label), dal 2017 si dedica stabilmente alla letteratura. Un suo racconto è apparso sulla rivista Smezziamo.
Un racconto di Martina Ciullo
Numero di battute: 2314
Da quando avevamo scoperto che ero incinta ne avevamo visti a decine.
I colloqui li facevamo in ufficio. «La prudenza non è mai troppa» diceva mio marito, e io ero d’accordo, soprattutto quando si parlava di robot-babysitter. Si sentivano strane storie. Un luccichio sospetto in fondo agli occhi, un cenno furtivo con la mano. Certi modelli sembravano leccarsi le labbra, anche se non avevano né lingua né labbra.
«Ho sentito dire che un robot ha cercato di rapirne uno» dicevo a mio marito, la sera, a letto. Lui mi rassicurava, avevamo iniziato a cercare con grande anticipo e avremmo scelto un modello di prima fascia.
«Si sentivano strane storie.»
E poi, dopo infiniti colloqui, avevamo conosciuto lui, un robot maschio. Non che li avessimo esclusi a priori, ma sapevamo che le femmine avevano più skills. Eppure appena avevo visto Ting Ting avevo capito che era quello giusto.
Lo sguardo dolce, le mani sulle ginocchia. Sembrava un uomo appena arrivato nel nostro paese da molto lontano più che un robot governativo progettato per aiutare le famiglie che potevano permetterselo.
Ting Ting mi aveva chiesto: «Come si chiamerà?», e siccome nessun altro robot aveva mai fatto una domanda simile, io, d’istinto, gli avevo risposto.
Poi mio marito mi aveva sgridata: «Perché gli hai detto il nome vero?».
Mi fidavo già di Ting Ting, ma non potevo certo dirglielo.
Dopo altri due colloqui nell’ufficio, l’avevamo fatto venire a casa nostra. Lui sfiorava tutto con lo sguardo, stando bene attento a non urtare nulla. Io gli sorridevo, sempre più rotonda.
«Vieni, Ting Ting, ti faccio vedere la camera della bambina.» Lui era rimasto per lunghi minuti a fissare la culla.
«In quale lingua vorresti parlarle?» gli aveva chiesto mio marito. La prima funzione dei robot-babysitter era far crescere i bambini bilingui.
Ting Ting gli aveva risposto con una rapidità sorprendente: «Potrei parlarle in cinese?».
Nessuno di noi aveva niente in contrario, anche se avremmo preferito una lingua più internazionale. Dopo la guerra nucleare la Cina era una minoranza, ormai meno di un milione di persone parlavano mandarino nel mondo.
«Sei cinese, Ting Ting?», gli avevo chiesto, senza nessun motivo, e infatti non mi aspettavo che lui mi rispondesse.
Avevo pensato che eravamo fortunati, io, mio marito e la bambina.
Poi lui aveva detto: «Vorrei saperlo anch’io».
Martina Ciullo è una violinista professionista e scrive da sempre. Ha studiato Giornalismo a Trieste e Sceneggiatura alla Scuola Holden. Vive a Roma.
Un racconto di Andrea Dioguardi
Numero di battute: 2464
Arrivano all’ultimo piano con l’affanno perché, anche se zoppica, Lisa non prenderebbe mai l’ascensore. Nino si è offerto di portare la torta, ma Lisa non l’ha degnato di una risposta. Mentre salivano, Nino è rimasto indietro, pronto a sorreggere Lisa se la mano le fosse scivolata sulla balaustra. Ora aspetta schiacciato contro la parete, come per non essere d’intralcio.
Lisa esita davanti al battente a forma di leone. Quando si decide a bussare, il pianoforte che li ha accompagnati dall’ultima rampa si ferma. Nino tira su col naso e Lisa lo fulmina con lo sguardo.
«Sì?» dice una voce.
«Ho portato una torta.»
«Chi parla?»
Lisa fa un passo indietro. «Signora Ada, sono io.» Si alza sulle punte e solleva la scatola, riciclata da una pasticceria. «Ho portato una torta.»
Il leone soppesa Lisa per qualche istante.
«Speravo potesse… magari… rimediare al danno.»
«Speravo potesse… magari… rimediare al danno.»
«Che torta?»
Lisa si tocca d’istinto la gamba storpia. «Una torta di mele, la preferita della signora Vittoria…»
«Quale ricetta?» Un’altra voce.
«La solita, signora Vittoria, la sua preferita…»
«Gli ingredienti, per cortesia.»
«Le mele, le renette buone, le ho prese al mercato…»
«Ci descriva come l’ha fatta.»
Lisa lancia un’occhiata a Nino. Lui però non conosce la ricetta: Lisa l’ha sbattuto fuori dalla cucina, la torta non l’ha neanche vista. Il silenzio dietro la porta la incalza. Lisa parla senza ingarbugliarsi troppo.
«... Allora ho messo 220 grammi di farina, la ricetta diceva 250 ma non ne avevo più…»
«220?» ripete la signora Ada.
«No» dice la signora Vittoria. «Così non va».
«Se solo la assaggiaste…»
«Signora Lisa» interviene un’altra voce. «Perché venire fin qui se non ha seguito la ricetta per filo e per segno?»
«Signora Celeste, la prego…»
Uno scatto annuncia la chiusura dello spioncino. Lisa insiste che potrebbero mangiarla in salotto, quando Celeste ha finito di esercitarsi al pianoforte, Vittoria di fare l’uncinetto e Ada di leggere le sue poesie, proprio come un tempo. Nessuna risposta.
Nino se le immagina guardare a turno dallo spioncino, in piedi su uno sgabello, per poi sparire con passo felpato nei meandri dell’appartamento.
«Posso avere una fetta?» chiede dopo un po’.
Lisa scrolla le spalle.
La torta, abbandonata a terra, si è attaccata al coperchio. Nino stacca un pezzo con le mani.
«È buona» dice leccandosi le dita. «Se solo l’avessero provata…»
Lisa contempla prima il pasticcio che era la sua torta, poi Nino. «Mi fai schifo, lo sai?» E inizia a scendere zoppicando senza di lui.
Andrea Dioguardi è un abruzzese perduto a Colonia. Di mestiere traduce parole altrui, ma ogni tanto ne scrive anche di sue. Ha pubblicato un racconto su Fantasy Magazine.
Un racconto di Elisa Secchi Villa
Numero di battute: 1975
Un anno, mia cognata mi regalò una macchina per fare il pane. Diceva che lei non la usava più, ma che era di una buona marca. Era uno scatolotto bianco latte, con un oblò per inserire gli ingredienti e guardarli diventare una grossa palla roteante, che poi tremava e faceva bipbip quando tutto era finito.
Feci con le bambine vari tentativi. All’inizio erano incuriosite da quei nuovi esperimenti, si divertivano e iniziarono a credere nel nostro futuro autarchico, finché ci rendemmo conto che non avremmo mai ottenuto una crosta di spessore inferiore ai quattro centimetri.
Il sapore di quel pane tutto crosta, che sembrava essersi cotto nella lavastoviglie, è tutt’uno con i ricordi di quel periodo. La sera, col sottofondo ronzante dell’impastatrice Moby Dick, facevo qualche telefonata. Di amici ne restavano pochi: coetanei, vivevano un’età più giovane della mia. Sentivo, a volte, un’anziana conoscente della mamma.
«Coetanei, vivevano un’età più giovane della mia.»
Un pomeriggio andammo a trovarla. La villa di campagna rimbombava dei nostri passi, rivelando piccoli affreschi e cimeli. Chiacchierammo di un telaio industriale per un tempo abbastanza lungo da esasperare le mie figlie, zittite con caramelle di marmo. La signora non dava quasi attenzione alle bambine: aveva un grande desiderio di parlare con me, di raccontare ma anche di ascoltare qualcosa di nuovo. Alla fine, vinta dalla sua insistenza, caricai in macchina due vecchi comodini ad angolo, che, assicurava, sarebbero stati perfetti in casa nostra.
Le parole e le immagini scambiate con lei diedero senso ad alcune giornate. Poi smisi di sentirla, seppi che era morta solo mesi dopo che aveva preso posto nella cappella in fondo al cortile, per sua richiesta di totale silenzio.
A casa, la sera delle angoliere, trovai in uno dei mobili scatole cilindriche di cartone indurito, che contenevano colore in polvere. Quel blu profondissimo mi emozionò. Lo diluii a sentimento e tracciai meravigliata dei decori sul legno, provando a raccontare una storia.
Elisa Secchi Villa è nata a Brescia nel 1994. Laureata in Giurisprudenza, lavora come consulente in ambito di compliance aziendale. Ha scritto di contenzione in ambito psichiatrico e sanitario. Tutti i romanzi che vorrebbe fare la perseguitano.
Un racconto di Andrea Scagliarini
Numero di battute: 2500
Nel giugno del 1913, l’assicuratore boemo Josef K. giunse a Torino forse affascinato dalla fama sinistra della città. La sera del 16, camminando sotto le arcate di piazza Vittorio Emanuele I, già place Imperial, incrociò lo sguardo luciferino di un uomo anziano che incedeva appoggiandosi a un bastone da passeggio con l’impugnatura d’avorio. Il diavolo non amava frequentare le vie affollate, disprezzava i carrettieri, le erbaiole, i turisti, i mendicanti, gli skater e i venditori abusivi. Odiava gli esseri umani e preferiva agire di notte come un artista maledetto.
Ma cosa avrebbe notato quell’anziano signore nell’osservare un uomo magro come un digiunatore, la schiena curva, abbigliato da forestiero che si guardava intorno, smarrito come un fantasma? Cosa avrebbe ricavato Josef K. dalla conoscenza diretta di quell’affabulatore solitario, affaticato dagli anni che odorava di acqua di colonia per nascondere l’afrore dolciastro del suo corpo? Entrambi preferirono ignorarsi e proseguire sotto i portici, senza meta.
«Il diavolo non amava frequentare le vie affollate.»
Le giornate diventavano sempre più calde. Le fontane si seccavano o scaricavano acqua putrida e rugginosa. Ma Torino non era la città dei miracoli benché un tempo abitata da uomini santi come don Giuseppe Cafasso, presbitero della forca e grande benefattore.
In una lettera del 21 giugno a Felice Bauer, l’assicuratore racconta di trovare la città piacevole soprattutto di mattina presto. Piena di scorci, belle vedute e abbaiare di cani. I colombi, le cornacchie e altri volatili dal becco nero sono dappertutto, sotto i portici o sui balconi. Ne descrive il rumore. Considera gentili e accoglienti le persone che incontra nei caffè. Le cameriere dell’Albergo Occidentale sembrano bambine. Quando parlano tra loro, ridono e squittiscono come donnole in calore e comunicano in una lingua misteriosa che assomiglia al francese. Nessuno parla il tedesco commerciale, l’yiddish o il boemo. È difficile mangiare cibi vegetariani e il diavolo lo sa bene. È vegetariano anche lui.
Il 21 giugno, Josef K. lasciò Torino senza aggiungere nulla sui motivi della sua visita. Si diresse a Montichiari, vicino a Brescia, per assistere a una esibizione internazionale di aeroplani. Lo aspettava alla stazione il suo amico e confidente Max Brod cui non raccontò alcun particolare della breve esperienza torinese. Nemmeno della lettera a Felice Bauer abbiamo più traccia. Forse è conservata a Tel Aviv oppure l’assicuratore non l’ha mai spedita.
Andrea Scagliarini è un musicista indipendente e un insegnante a tempo pieno in un quartiere difficile di una grande città. I suoi testi sono apparsi in antologia e sulle riviste letterarie Narrandom, Racconticon, Pastrengo, Enne 2, Border Liber, Nabu, Kairos Rivista e Fuori Asse.
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