Pastrengo Agenzia Letteraria

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immagini racconto eleonora felleni

coda di lucertola

Un racconto di Eleonora Falleni
Numero di battute: 2470

Appuntamento alle due del pomeriggio alla fabbrica sdentata, con le finestre rotte, dove ha lavorato anche mio padre. Siamo sempre le stesse, ci conosciamo dai tempi delle elementari quando indossavamo il grembiule bianco, pulito come i nostri bei faccini. Oggi, finita la terza liceo, abbiamo il viso imbrattato di nero, neppure le mutande sono bianche, come se le nostre giornate (vite) finissero dentro quell’edificio morto, tra sigarette e bottiglie di vodka fatte comprare da amici maggiorenni.

I minuti scorrono lenti, passa un gabbiano nel cielo, oscura il sole, appoggiata con la schiena al muro avverto un brivido, vedo la bottiglia completamente svuotata, il liquido galleggia negli occhi di Nina, Marta e Viola. Vorrei alzarmi, andarmene, mi tocco la fronte umida, sto per salutare le amiche quando percepisco un movimento, l’unico in quell’aria stagnante. Vedo Tommaso, il fratello più piccolo di Davide, avrà dieci anni, il suo viso è ancora senza ombre.

«Appuntamento alle due del pomeriggio alla fabbrica sdentata.»

Le altre seguono il mio sguardo, cerco di distoglierlo ma ormai lo hanno visto, sembrano belve in attesa di braccare la preda, il puzzo del sudore si mescola a quello della vodka, troppo caldo, la fabbrica mi risucchia, mi perdo, cado a terra. Dove sono? Apro gli occhi e vedo Nina, Marta e Viola disposte in cerchio, avranno trovato un piccione quasi morto o qualche altro animale da seviziare, tanto per passare il tempo e arrivare a sera. Dal cerchio sbuca un paio di scarpe, sono di Tommaso, è steso a terra, frigna e la sua voce esce come un pigolio. I suoi vestiti sono buttati più in là.

Scatto in piedi troppo in fretta, barcollo, devo vedere cosa sta succedendo. Ricordo quando in cortile i figli del vicino catturavano le lucertole e con un coltellino tagliavano via la coda, oppure la spezzavano a mani nude. Le povere bestie una volta libere scappavano mutilate e quel pezzo di loro continuava a muoversi nella polvere. Io stavo a guardare immobile senza dire una parola, per paura di fare la stessa fine.

Mi avvicino a Tommaso e lo raccolgo, il bimbo ha il viso bagnato e sporco di terra. Percorro con lo sguardo il corpo innocente, controllo che nessun pezzo sia stato amputato. Nina, Marta e Viola mi osservano, come a dirmi: anche tu sei una belva, hai respirato il marcio di questa fabbrica. Tommaso se ne va via correndo, i vestiti abbandonati lì, come la coda della lucertola. Sono tornata bambina, a quando rimasta sola raccoglievo i resti e li seppellivo nelle aiuole del cortile.

Eleonora Falleni bio

Eleonora Falleni è nata nel 1977 a Livorno, dove vive e lavora. Nel tempo libero ama leggere e scrivere. Al premio Vespa chi scrive 2023 si è classificata quarta con il racconto Come rondini. La sua prima raccolta di racconti è Sofia, trama e nodi (Valigie Rosse).

racconto tani andrea

natività

Un racconto di Andrea Tani
Numero di battute: 2444

La signora del banco è stata gentile, mi ha consigliato il neonato più fresco, quello che secondo lei darà più sapore allo stufato. È un bel pezzo di carne di quattro chili e tre, col cordone gonfio e una piccola protuberanza sul collo. I vagiti sono squillanti e il sangue placentare gli cola sullo sterno. Con le mani unte di frattaglie, la donna me lo avvolge nella carta gialla, quella delle frittelle.

Una volta a casa lo stipo nel frigo e mi tolgo le scarpe. «Sta bene, signore?» sento nell’aria, ma sono gli spifferi della finestra. Sul pavimento un cordone molliccio pulsa senza più la membrana. Si trascina fino in salotto e si avvinghia alla trachea di un bambino di circa quattro anni che prima non c’era. Le sue braccia provano a liberarsi da una morsa che gli lascia la nuca viola.

«È un bel pezzo
di carne
di quattro chili
e tre.

Mi riempio un calice di Sangiovese, mi siedo e lo guardo contorcersi tra i riflessi del vetro. Il suo corpo si squarcia, poi diventa plastico. Si allungano gli arti, la colonna vertebrale, si espande il torace. Ora ho davanti un adolescente incurvato con la pelle bianca e sottile, gli occhi scavati e i capelli come strappati dal cranio. Mugugna scomposto con la testa in un cappio di budella. Prova a salvarsi, ma l’alluce tocca appena la sedia. Mi avvicino e la scalcio via. Rimane sospeso sull’osso del collo, poi si accorge di me. La sua bocca è un grumo di bava.

Non ho il tempo di capire l’orrido che mi circonda. Una mano adulta mi trascina via. È un uomo senza muscoli né postura, avvinghiato a ciò che resta di viscere ormai imputridite. Mi porta a una finestra e la spalanca. L’altezza è spaventosa, non ha fondo né prospettiva. Mi dice: «Buttati con me, finiamola qua». Nei suoi occhi non vedo la morte, solo uno stato di coscienza profondo e familiare.

Sto per saltare, ma dalla porta di casa entra la signora del mercato, apre il frigorifero e tira fuori il neonato. Lo sfila dalla carta gialla, gli cava il bitorzolo marcio dal collo e lo posa sulla bilancia: «Quattro chili e due, va bene?». Di colpo i miei occhi ritornano al loro posto e di fronte ho di nuovo il banco della verdura, accanto a quello della carne.

L’aria mattutina del molo si riempie di tendoni e colazioni all’aperto. Sto per diventare padre e a casa non si parla d’altro, ormai. La signora ripone la zucca nella cassetta e dice: «Tutto a posto? Le dicevo che questa è ammaccata, se vuole gliene do un’altra», e io: «Non fa niente, signora. Mi è passata la fame».

tani andrea bio

Andrea Tani nasce nel 1974 a Grosseto. Dal 2020 si dedica alla narrativa e pubblica i suoi racconti su diverse riviste, tra cui Open Doors Review, Yanez Magazine, «inutile», Bomarscé, Eterna e Risme. È tra i finalisti del Premio InediTO nelle edizioni 2023 e 2024 ricevendo in quest’ultima una Menzione speciale con La consistenza del sangue. Sempre nel 2024 pubblica sulla rivista L’Appeso e Narrandom. Ama scrivere nei cambi di stagione.

racconto rudi capra 3

parcheggio

Un racconto di Rudi Capra
Numero di battute: 1752

Ero di fretta, mancava mezz’ora alla riunione e dovevo attraversare tutto il centro, proprio stamattina le doveva venire il ciclo, piegata in due dal dolore e tutte le commissioni le ho dovute fare io, e spesa e lavanderia e farmacia e asilo, più lo sciopero dei mezzi e quel camion di merda rovesciato in tangenziale, risultato: arriverò in ritardo alla riunione per cui Stella si è raccomandata, ha detto, Sarebbe la terza che buchi dall’inizio di quest’anno, ha detto, La tua presenza è della massima importanza, ha detto, Non deludermi.

Sarei stato comunque impresentabile con questo caldo assassinante, quando ho parcheggiato di traverso dove non c’erano le strisce avevo già sentivo le pezze sotto le ascelle e nella schiena, il Nilo mi colava dalla fronte, era sceso un delta tra i peli del petto, e di fianco all’ingresso un motorino aveva la ruota anteriore fusa con l’asfalto, aveva scavato la sua forma nel bitume, ero in ritardo di ventotto minuti e quando sono entrato madido, paonazzo, scusandomi davanti a tutti, Stella ha piantato i suoi occhi su di me come due chiodi e sono rimasto accanto a lei, crocefisso sulla sedia girevole davanti al sorriso pietoso dei clienti giapponesi, con la vetrata spalancata sul parcheggio che ribolliva come un pentolone, i tettucci arroventati delle auto che risplendevano come braci nel fuoco pallido del mezzogiorno.

«La tua presenza è della massima importanza,
ha detto,
non deludermi.»

Ma la parte peggiore è stata a fine giornata, alle cinque il sole era ancora alto e non avevo più sudore da sudare, quando mi sono avvicinato all’auto ho capito cosa era successo, il capannello di gente intorno aveva rotto il vetro ma il corpicino era già immobile da tempo, ancora legato al seggiolino e l’ufficiale ha chiesto se ero io il genitore e io ho detto solo, Ero di fretta.

rudi capra bio

Rudi Capra è ricercatore in Filosofie dell’Asia orientale e critico cinematografico, attualmente a Torino. Ha diverse pubblicazioni all’attivo e due monografie, una sul pensiero interculturale e una sul cinema di Nicolas Winding Refn.
Suoi saggi e racconti sono apparsi anche su L’Indiscreto, Risme, Singola, Digressioni, Le parole e le cose.

racconto ilaria tedesco

svarione

Un racconto di Ilaria Tedesco
Numero di battute: 2446

A settembre avrei dovuto iniziare Giurisprudenza.
«Ci darà soddisfazioni» era solito ripetere mio padre. Col tempo, poi, i colleghi hanno iniziato a guardarmi storto e la mano sulla spalla si è fatta più pesante.

All’inizio mi piaceva stare in mezzo a quegli scaffali. Da piccolo per esempio mi divertivo a inseguire date e timbri sui fascicoli polverosi, a lisciare il dorso dei libri col dito. Mio padre scambiava quei giochini matematici per curiosità finendo per leggermi quelle che credevo incomprensibili storie numerate da tomi presi a caso. «Un giorno imparerai tutti gli articoli» mi diceva, «perché sei intelligente.»

Quando iniziai a leggere quei codici, invece, non ci capivo niente. Troppe virgole. Con i numeri era diverso. C’erano le centinaia-decine-unità virgola i decimi-centesimi-millesimi. Se persino qualcosa di trascendente come il pi greco ne aveva una sola, il problema doveva essere del legislatore. «Sei intelligente, devi imparare a stare al tuo posto» mi disse. Fu l’unica vola che glielo feci notare.

«Ce la farà,
non vedi che è intelligente?»

La prima litigata avvenne in prima liceo. Una questione condominiale: articoli mille centodiciassette, mille centoventiquattro e mille centotrentasei. Lui spiegava e io vedevo solo tre punti con la stessa ordinata per i quali passava una (e una sola) retta. «E l’articolo mille centoventinove?» chiesi spaesato. «Non ci riguarda» rispose. Disegnai allora un piano cartesiano mostrandogli come la retta passasse anche da lì. Mio padre alzò gli occhi al cielo urlandomi di restare nel mondo reale. Ma quello non era un asse immaginario, restavo persino bidimensionale. «Sei intelligente, perché non usi parole?» mi implorò. Ma quelle che usava lui io non le capivo.

La notte di cinque mesi e sette giorni fa origliai alla porta della stanza da letto. Mia madre piangeva, diceva che non mi aveva dato scelta. «Siamo avvocati da generazioni» rispose mio padre. «Chi porterà avanti l’attività, sennò?» Poi la rincuorò: «Ce la farà, non vedi che è intelligente?».

Fu allora che decisi di fare la cosa più stupida che mi venne in mente: diedi fuoco allo studio.

A pensarci bene avrei potuto essere un filino più intelligente, avrei potuto consultare prima il codice penale. Ma come ho detto, quei tomi mi erano ostici: troppe virgole, poche rette. Mi sarei perso nei calcoli.

A settembre dunque non inizierò Giurisprudenza. Magari tra quattro anni, quando esco. Sempre che mio padre mi consideri ancora intelligente, chissà.

tedesco ilaria bio

Ilaria Tedesco, campana, ha studiato Economia. Si occupa di cooperazione internazionale e progetti di sviluppo rurale. Dopo aver girovagato qua e là, ora vive a Monaco di Baviera. Ha frequentato la scuola di scrittura Belleville e il suo primo romanzo è uscito dal cassetto.

racconto simone ghelli

non si torna indietro

Un racconto di Simone Ghelli
Numero di battute: 2407

Da farfallon69@hotmail.com
A dariogarbaglia@gmail.com
giovedì 9 luglio 2020, ore 11.41

Oggetto: note al capitolo terzo

Caro Dario,

ho appena finito di leggere il materiale che mi hai mandato. Devi perdonarmi per la lunga attesa, ma come sai dovevo consegnare le bozze del mio ultimo libro e poi c'è stata la pandemia e non potevo non aggiungere almeno una riflessione sulle ricadute da un punto di vista economico e su quelli che saranno i cambiamenti nelle abitudini degli spettatori.

Sono dell’idea che il capitolo tre possa andare, anche se in alcuni punti trovo l’analisi troppo spinta (nel file allegato puoi vedere i miei interventi e le modifiche che ti suggerisco). Sarò franco: a me i continui rimandi alla filosofia (a certi filosofi, soprattutto) risultano un po’ indigesti.

L’università non è più quella di quindici anni fa, i lettori (e gli studenti, in particolare, che sono i nostri principali lettori) non vogliono cose troppo complicate. Io ormai a lezione devo fargli gli schemini come a scuola, persino le note sono diventate una zavorra che piace solo ai comitati di valutazione. Il mio consiglio è di arrivare al punto per le vie più dirette, senza troppi giri di pensiero. Le pose da intellettuale non le vuole più nessuno, qui in dipartimento meno che mai. Anzi, sono proprio viste come qualcosa di inopportuno.

«Le pose da intellettuale
non le vuole
più nessuno.»

Perdonami ancora per il ritardo e per la franchezza, che potrebbe sembrarti eccessiva, ma devo ragionare nell’ottica del tuo bene. Se vuoi fare carriera, devi metterti in testa che oggi è l’utente che decide, e l’università, per restare aperta, ha bisogno di iscritti. Siamo entrati nel mondo della domanda e dell’offerta e ormai non si torna più indietro. La grossa sfida è riuscire a non abbassare troppo la qualità, ma su questo punto non ho niente da insegnarti. Tu sei il nostro Serge Daney, il nostro jeune turc in maniche di camicia!

Sappi che vorrei avere solo la metà del tuo idealismo.

Saluti e abbracci dal tuo tutor,
Vincenzo

P.s.: mettici dentro anche qualche film recente, qualcuno di quelli che vedono anche le matricole (anche le commedie un po’ sceme, i format riadattati dall’estero) perché se poi vuoi farci un libro dovremo inserirlo in qualche corso, no? So che sei uno puro, ma questo è un mondo in cui purtroppo dovrai sporcarti. E ancora non hai visto niente. Lo studio per lo studio è finito da un pezzo, fattene una ragione adesso che sei ancora in tempo.

bio simone ghelli

Simone Ghelli ha pubblicato in passato un paio di romanzi brevi e alcune raccolte di racconti, tra cui Non risponde mai nessuno (Miraggi, 2017) e La vita moltiplicata (Miraggi, 2019). Suoi racconti sono comparsi anche in varie raccolte e su alcune delle principali riviste letterarie italiane. I suoi ultimi libri sono la novella Ronnie Banti ha perso la scommessa (Divergenze, 2022) e il romanzo Bianco su bianco (Castelvecchi, 2023).

racconto Marta Barattia

tramonto

Un racconto di Marta Barattia
Numero di battute: 2146

Luigi è seduto nell’ingresso quadrato, sprofondato in una poltroncina magra, le palpebre pesanti semichiuse dietro la spessa montatura in bachelite nera, le pantofole di panno, il gilet di lana. La pelle delle mani è trasparente, quasi azzurra.

«Facciamo due passi, è una bella giornata» dice Egle sfiorandogli la spalla.
«Non posso, aspetto una telefonata.»
«Una telefonata. E da chi?» chiede Egle.
«Una ragazza» dice Luigi, e gli si spalanca una fessura negli occhi e una identica schiude le labbra in un sorriso.

«Capisco» dice Egle, «allora uscirò per conto mio.» Infila il cappotto di cammello, si aggiusta i capelli sotto la cloche color cipria e scivola fuori dal portoncino.
Silenzio.
Trascorrono alcuni minuti, poi il telefono squilla.

«Non posso, aspetto una telefonata.»

Luigi si accende, solleva la testa, afferra la cornetta grigia dell’apparecchio posato sul tavolino lì a fianco e risponde. Ascolta. Annuisce. Ride. «Certo, certo» dice. «Al solito posto» dice. «A tra poco.» Poi riattacca. Scavalla le gambe per appoggiare entrambi i piedi a terra, piega i gomiti, spinge sui braccioli. Si smuove appena, incredulo.

La serratura scatta nuovamente ed è subito il provvidenziale ticchettio delle décolleté di Egle, il suo profumo al mughetto.

«L’appuntamento!» dice Luigi. «Si sbrighi, mi dia una mano!»

«Anche oggi ha ricevuto quella telefonata, allora…» dice Egle, e senza nemmeno sbottonare il cappotto si china a infilargli le scarpe che stavano già pronte lì a fianco. Un gettone del telefono le scivola fuori dalla tasca: tintinna, rotola sul pavimento di graniglia e si ferma muto contro le pattine, accanto al portaombrelli. Luigi si aggrappa al braccio di Egle, si solleva; escono insieme.

L’ascensore scende sferragliando al piano terra. Fuori il sole del pomeriggio bagna appena il marciapiede, nei viali del parco le foglie scricchiano sotto i loro passi lenti. Luigi ha il respiro sottile.

«Allora mi dica, signor Luigi. Chi è questa ragazza?»
«È Egle. La mia Egle. Ormai è quasi un anno che ci parliamo. Mi aspetta alla panchina vicino alla fontana. Non voglio far tardi, è già quasi il tramonto.»
«Siamo partiti per tempo; facciamo ancora un giro, camminare le fa bene.»

bio marta barattia

Marta Barattia (1977) è nata e vive a Torino.  Sa da sempre di voler scrivere, perciò è brillantemente riuscita a non farlo per moltissimo tempo. Da vent'anni il suo non-vero-lavoro è insegnare il teatro a bambini e ragazzi condividendo il suo non-dignitoso-stipendio con un marito, due figlie e un cane. Non ha mai superato la prova costume. 

racconto Giulio Morelli

prosopagnosia

Un racconto di Giulio Morelli
Numero di battute: 2497

Vera vede solo ciò che può sopportare. Sul materasso il corpo di Mauro sembra quello di un morto. È la prospettiva da cui lo guarda a confonderla, a farlo sembrare morto, ma Mauro non è morto: respira (i morti non lo fanno). In via Padova è tutto come ieri – non è cambiato nulla. Sul pavimento poche tracce – le solite: umori vari, peli e capelli. Le pareti pullulano di istantanee, ma nella penombra i volti sono macchie generiche.

La stanza, a parte Vera e Mauro, contiene un letto (al centro), un appendiabiti (vicino alla porta), un comò (sotto la finestra – l’unica). La luce è spenta e, dato che non c’è una piantana, è lecito supporre che a mezzaria penda un lampadario.

«Allora sposiamoci.»

Il soffitto è un soffitto come tanti, non ha nulla di speciale come l’amore di Vera e Mauro. Si sono conosciuti sette anni fa in un pub gestito dai cinesi. Seduti al bancone, Vera e Mauro hanno ordinato la stessa lambic. Una risata impacciata a cui sono seguite una stretta di mano e una relazione da manuale. Hanno capito di appartenersi quasi subito. Aspettavano il tram, Vera aveva una sneakers slacciata, Mauro si è inginocchiato e gliel’ha allacciata. «Mi stai chiedendo di sposarti?», «Sì», «Allora sposiamoci».

Non lo hanno fatto. Mauro ci pensa ancora al fatto che non l’hanno fatto, che Vera ora è di un altro, che ride a battute che non sono le sue, che ha messo al mondo un figlio che non gli assomiglia. Vera gliel’ha mostrato, scrollando tra le foto dell’iPhone, Mauro lo ha guardato di sbieco; poi un «congratulazioni» strozzato, un rantolo nella gola, emerso dalla bocca come un conato.

Mauro avrebbe accettato il figlio di Vera soltanto se fosse stato suo, ma non è suo – è roba di un altro di cui non sa nulla, a parte che si è preso Vera. Ha cercato di strappargliela come un cerotto, ma i lembi sono intatti, la colla resiste all’acqua, allo sfregamento che leva aderenza a ciò che è progettato per aderire.

Vera e Mauro si sono lasciati per un errore di calcolo, ma scopano ancora nel bilocale che Vera aveva progettato per loro. Quando ci vivevano insieme, il mondo restava fuori dalla porta, ora che vivono separati il mondo è dappertutto, filtra da sotto la finestra, si deposita sul parquet, sedimenta tra le intercapedini. Mauro si sposerà ad aprile: Vera ora lo sa. Prima di uscire, si rivestono, poi si salutano con un cenno della mano. Oltre la soglia i loro volti sbiadiscono come le istantanee sulle pareti: sono irriconoscibili; raccontano una storia che non è più la loro, ma la nostra.

giulio morelli bio

Giulio Morelli è un robespierrista, vive a Eupilio e insegna storia. Scrive, non pubblica. Detesta che qualcuno oltre a sé stesso legga ciò che scrive. Ha un cane, si chiama Thomas.

racconto ballarini

il papero

Un racconto di Isabella Ballarini
Numero di battute: 2133

Cammini per quella strada in fretta, come ogni mattina. Tieni la borsa sotto il braccio, stringi il manico dell’ombrello e fuggi veloce, sotto la pioggia che diventa ogni giorno più fitta. Passi davanti al Papero e fai finta che lui non sia lì. Guardi in basso, pur di non vedere il suo sorriso che splende dai cartelloni stradali. Il tuo passo accelera, i tacchi delle scarpe barcollano, le pozzanghere rischiano di farti cadere a ogni passo. Ogni giorno così, sotto quel diluvio che va avanti ormai da più di due mesi. Ma tu te lo ricordi, il Papero, quando ancora elemosinava attenzione da quelli che si rifiutavano di alzare gli occhi su di lui. Giorni lontani, quelli. Le gocce di pioggia non cadevano così spesso, tra le nuvole e il vento c’era sempre un tiepido sole. E il Papero non era un papero.

Era una persona che sognava in grande e guardava il cielo. Tu lo conoscevi bene. Ti piaceva, persino. Sorridevi e intanto i capelli ti cadevano sugli occhi. Credevi che lui avrebbe cambiato il mondo. È cambiato il vento, invece, è cambiato tutto. L’uomo si è fatto Papero.

«L’uomo
si è fatto Papero.»

E mentre la pioggia cadeva sempre più spesso, il Papero avanzava nella notte. Era folle e selvaggio e mentiva a tutti con violenza spudorata. La sua immagine si faceva bestia giorno dopo giorno. Lui saliva nei cuori perché usava parole di gloria. Si tagliava i capelli, si cambiava i vestiti. Appariva sugli schermi televisivi, o sui giornali, o sui computer. I soldi gli arrivavano addosso senza che facesse niente per cercarli. Gli bastava esistere: ogni sua parola muoveva le masse.

Mentre corri sotto la pioggia, butti l’occhio ai cartelloni dove il Papero appare e vai avanti senza fermarti. Lo vedi starnazzare, dimenticarsi di te. Vedi la gente che lo ama senza motivo. Nessuno si accorge della pioggia: quella viene giù sempre più fitta e tutti stanno là, a bagnarsi, a sorridere, a vivere come paperi agli ordini di un Papero.

Tu cammini per la strada in fretta, come ogni mattina. Tieni la borsa sotto il braccio, stringi il manico dell’ombrello e fuggi veloce. Passi davanti al Papero e guardi in alto, verso il cielo.

La tua mente resta tua.

bio Isabella Ballarini

Isabella Ballarini scrive da diversi anni. I suoi racconti sono usciti sulle riviste L'Irrequieto, Sulla Quarta Corda, Quaerere, L'Equivoco, CrunchEd e Spaghetti Writers.

vincenzo montesano racconto

la scatola

Un racconto di Vincenzo Montisano
Numero di battute: 2357

Sono nato costretto in una stanza due per tre. Vuota, come un luogo comune. Senza porte né finestre. L’aria è tanfata di nicotina, sebbene io non fumi. Al centro, un tavolo di legno sberciato su cui poggia una scatola di metallo, chiusa, dai bordi taglienti. Non c’è modo d’aprirla, e d’altronde non ho mai tentato.

Ogni cinque anni, il giorno del mio compleanno, un biglietto d’auguri esce dalla scatola. Prima si innesca un frullio, come d’ali d’insetti allarmati dalla possibilità imminente d’essere uccisi, poi, senza particolari entusiasmi, nella noia mortale che al passare del tempo ferisce ogni curiosità, il biglietto sbuca da sotto la scatola. Tua madre ti vuole bene, diceva il primo. Il messaggio era vergato – e io ero un bambino – con una calligrafia dalle m tondeggianti e dalle o morbide.

Nel rammarico di non aver allattato al seno, pensai all’inconveniente che dev’essere stato per l’ignota genitrice la mia nascita, e allora capii, perdonai, trovai in me le ragioni di un abbandono. Ne ho collezionati undici in tutto, di questi biglietti.

«Il terzo diceva:
la guerra è finita».

Il terzo diceva: la guerra è finita e quel giorno, scoprendomi la pancia, non mi meravigliai di non possedere l’ombelico. L’ottavo diceva: tuo padre non ti ha mai toccato tra le gambe e allora posai il polso sul bordo tagliente della scatola, segai fino all’osso, poi gettai via la mano, per paura di compiere atti indegni.

Il nono biglietto non lo lessi per intero, l’interesse è sempre stato per me prossimo allo zero: cosa scorre di così galvanico, mi chiedevo, tra la scatola e la stanza, tra la stanza e il mondo esterno, perché tutti siano così elettrizzati dalla vita? Utopico è appassionarsi a ciò di cui non si hanno evidenze; a una realtà la cui giustizia è sempre indizio e mai prova di colpevolezza. Ma oggi, oggi è un giorno ben strano, mi dico. Le mie logiche si pervertono, oggi. Il mio corpo muore, oggi.

Con la mano che mi resta, scaravento a terra la scatola, vorrei sapere, le urlo prendendola a calci, sputandoci, pisciandoci sopra, vorrei sapere, sapere perché! Poi rifiato, torno in me, al mio schema. L’ira decanta nella stanza vuota. Il frullio, questa volta, è meno energico del solito. Gli insetti staranno crepando, penso. Il dodicesimo biglietto sguscia dalla scatola accanto alla mano mozza già putrefatta. Il biglietto dice: la chiave per aprirmi è dentro la scatola.

bio Vincenzo Montisano

Vincenzo Montisano (1988) è stato finalista alla VI edizione del Premio Neri Pozza con il romanzo Inaugura stanotte il secolo del bene, in pubblicazione nel 2025 per Wojtek. Ha pubblicato la novella Logica degli incendi (Industria&Letteratura 2024). Nel 2023, un suo racconto è stato selezionato nella longlist di The Florence Review. Dal 2019 codirige la collana di poesia I Masnadieri per Tra Le Righe Libri. Collabora dal 2009 con i collettivi Nucleo Kubla Khan e La Masnada. Ha pubblicato su Atomi-Oblique, Narrandom, Quaerere, Micorrize, Palin Magazine.

racconto Lorenzo Zerbola

piccola storia di un impazzimento

Un racconto di Lorenzo Zerbola
Numero di battute: 2380

molto deve provare
di grato e d’ingrato chi a lungo qui
in questi giorni di conflitto fa uso del mondo.
Beowulf, vv. 1060-1062

 

Non appena sveglio andò automaticamente in bagno e, aspettando lo stimolo necessario per cagare, si mise a leggere l’etichetta dello shampoo. Appena poco più tardi, dieci o quindici minuti circa, catapultato nel solito traffico delle sette e mezza, si rese di conto di non ricordare più quella strana parola che deve anche aver pronunciato, seduto sulla tavola del cesso, nel tentativo di masticare qualcosa dal suono sconosciuto, duro come un granello di pietra. O meglio, era sicuro di ricordarla, di poterla scrivere addirittura, ma a forza di ripeterla e visualizzarla era come se ne avesse perso il pur piccolo significato, la polpa; e gli rimase solo il dubbio.

Passò poi l’intera giornata come al solito, in un ufficio. Tornato a casa, si rese conto che il coinquilino, in uno dei suoi imprevedibili raptus germofobici, aveva pulito casa e buttato tutti i flaconi vuoti che da qualche settimana arredavano il ripiano della doccia.

«Il flacone non c’era, era finito.»

Non andò al supermercato di proposito, ma per necessità generale, anche se poteva rimandare ancora di qualche giorno. Seguì passivamente un’immutabile lista mentale della spesa, intanto che con l’occhio cercava la corsia dei prodotti igienici, senza mai trovarla dove si aspettava – dovevano aver riorganizzato le corsie, come ogni settimana. Chiese indicazioni a un cliente qualsiasi, che non gli rispose, e infine a un commesso che, senza dire nulla, gli indicò un punto con il dito.

Il flacone non c’era, era finito.

Prima di addormentarsi, pensò ancora una volta a quella parola vuota e sconosciuta, ma non si preoccupò di non riuscire a ricordarla, di averla forse persa per sempre.

Col passare del tempo, si fece sempre più silenzioso, risucchiato da quella cancellatura simile al tassello mancante di un puzzle immenso, lasciandosi pian piano andare a una vita scandita da impulsi che automaticamente lo svegliavano, lo staccavano da una sedia o un sedile, gli permettevano di attraversare la strada senza essere investito da veicoli urlanti; pulsazioni che lo facevano accedere a nuove schermate di impalpabili home e sezioni, aprire i nuovi ma superficiali messaggi, in un grigio silenzio assoluto di veloci video insignificanti.

E i contorni delle cose si liquefacevano tra le mani di chiunque, frattanto.

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Lorenzo Zerbola (1993) scrive racconti (alcuni sono stati pubblicati su Verde e L’Inquieto) e fa l'insegnante in una scuola appenninica. Col passare del tempo ha perso il suo famoso piede destro, forse a causa di quella che tutti chiamano sedentarietà della vita. Permane sonnolento. Ciò che lo contraddistingue maggiormente, dicono, è la sua capacità di dare ottime indicazioni stradali.