Un racconto di Alessandra Lamanna
Numero di battute: 2444
Li hai nascosti in borsa, in un tovagliolo di carta che non trattiene l’olio in eccesso. Ti resterà la puzza. Sei anelli di calamari come i nostri sei anni assieme.
È un giovedì di gennaio in un ristorante di sushi di fronte all’Adriatico. Fuori quattro gradi, dentro un clima equatoriale. C’è un acquario, anzi no, solo un grande schermo tv che proietta immagini di un acquario con pesci tropicali. Tutto è blu: tavoli, divanetti, pavimento. Tutto troppo fermo, impregnato dell’odore pungente della salsa di rafano. Si muove solo la cameriera per uscire a buttare secchi neri.
Ordini come se fossimo in dieci.
«Non ce la faremo mai a finire» dici divertita.
«Se non mangi tutto, paghi una penale» ti dico serio.
Non lo sapevi, fai la tua faccia ingenua, quella dell’inizio anche se presto i barlumi di innocenza si sono alternati a distillati di ferocia. Come quella volta che mi tirasti giù le mutande e poi ti fermasti di botto: «Il tuo odore sembra la pipì del mio gatto» dicesti.
Ora invece dici: «Per una volta che non capisco una cosa io fra le migliaia che non hai mai capito tu».
La volta che hai abortito, per esempio. Non volevi un figlio, eravamo d’accordo. Anche quando la ginecologa ci fece sentire il battito, nessun dubbio. Eppure, ci rimuginasti per mesi finché io sputai un: «Massì, io forse lo avrei tenuto». Ecco: se dovessi trovare l’inizio della fine, direi che è questo.
Come archivierai questa ultima cena per restituirti le chiavi di casa? Io fra le cose misere, come quelle che non hai più la forza di sperare.
«Se non mangi tutto, paghi
una penale.»
Ingoi un uramaki in fretta per chiedermi: «Hai presente quando lei dice che la gente dovrebbe fare solo quello?». Parli dell’ultimo film al cinema. La protagonista passa metà pellicola a scopare.
Annuisco distratto, non mi va di parlarne. Assolvevi il sesso come un compito a cadenza settimanale. Ho sentito dire che ora te la fai con uno sposato, ma credo che ci andassi a letto mentre ancora timbravi il cartellino della nostra routine sessuale.
I sei anelli fritti sono ancora nel piatto. Te ne rigiri uno all’anulare sinistro. Alludi a un matrimonio di cui non abbiamo mai parlato: «Non eravamo fatti per questo».
Allungo le chiavi sul tavolo. Le raccogli con gli anelli fritti e metti in borsa. Usciamo con il biscotto della fortuna.
«Presto colmerai un vuoto» leggo. «E il tuo?»
«Devi liberarti di un peso.»
Ci muoviamo verso il bidone dell’organico. Mi fai cenno di seguirti, poi ti liberi dei calamari.
Alessandra Lamanna, 48 anni, è nata a Taranto e vive a Bari. Insegna inglese nelle scuole superiori. Non esce mai di casa senza un libro in borsa, ama addormentarsi leggendo.
Un racconto di Guido Casamichiela
Numero di battute: 2494
Scrivere a Tania dell’ufficio acquisti un’email contenente la richiesta di ordinare per esempio numero 2 cucitrici e numero 4 scatole di fermagli zincati ricevendo come risposta gentilissimo, provvedo subito, ti aggiorno quanto prima sui tempi di consegna, buona giornata, Tania equivaleva a dichiararsi il reciproco amore. Ne era convinto da un mese, o forse due, al massimo tre: non ricordava da quanto esattamente.
Tutti i pomeriggi, sdraiato sul divano della sala, perdeva tempo a ricostruire le origini di questa sorta di intesa comunicativa clandestina, e intanto inventava dettagli pseudoborgesiani.
«Gentilissimo, provvedo subito.»
Protetto dalla penombra di un vicolo, in un tempo lontano, lui le aveva consegnato un manualetto rilegato dalla copertina traslucida con tutte le indicazioni (anche quelle per farmi capire che non mi ami più, aveva precisato in un bisbiglio che era quasi un singhiozzo); lei l’aveva rifiutato. Era già lontana quando gli aveva sussurrato piano eppure fortissimo lascia i manualetti alle coppie senza intesa, non svilirci, non farlo, non lo meritiamo.
La sera invece i dubbi lo assalivano: e se mi fossi sbagliato? Si chiedeva talvolta, allarmato. Se lei non capisse che dietro ogni mia richiesta di acquisto c’è sempre un ti amo? E se non fosse vero che dietro i suoi procedo con l’ordine c’è sempre un ti amo di più io? Se fosse tutto solo nella mia testa?
Erano allarmi di un minuto, che rientravano non appena si ricordava di come lei l’aveva guardato una volta, alla mensa che frequentavano entrambi pur senza mangiare mai allo stesso tavolo. Si trovavano alla cassa, lei davanti a lui. Stavano per pagare, avevano la tesserina dei buoni pasto nella mano. Lei si era voltata per un attimo e l’aveva fissato, prima di rivolgersi alla cassiera. Gli era sembrato uno sguardo intenso, lei aveva addirittura sospirato, appena appena. Due secondi dopo, lui stava già dicendo a se stesso tieni a mente questo sguardo, tienilo a mente per i momenti sciagurati in cui non sarai più sicuro di niente, e fatteli passare.
Finito l’allarme, non poteva fare a meno di chiederle mentalmente scusa per avere dubitato.
Di solito si addormentava subito dopo che lei, tornata nella penombra del vicolo, dettava le sue dolci condizioni: ti scuso solo se mi prometti che è l’ultima volta, ricorda sempre lo sguardo della mensa, ricorda il sospiro, e non smettere di scrivermi email per richiedere nuova cancelleria, non vivo che per quelle, sette ore al giorno, cinque giorni a settimana, un sabato al mese.
Guido Casamichiela, cinquant’anni, due cose ama: le bio lunghissime e l’incoerenza.
Un racconto di Mario Greco
Numero di battute: 2445
La nostra casa è piccola, ma in compenso è molto luminosa. Ci sono tre balconi. Su ognuno di questi balconi mia moglie ha disposto un compatto schieramento di piante. In prima linea, ha posizionato le piante da guardia, è così che le chiama lei: catambra, citronella, basilico, lavanda… Mia moglie ha una passione sfrenata per le piante, e ogni volta che la vedo trafficare intorno a esse cerco di immaginare quello che sarebbe stata capace di fare se avessimo avuto la fortuna di possedere una casa con un bel giardino.
Le piante da guardia funzionano, questo è certo. Le zanzare si tengono alla larga. Nostra figlia ancora non ci crede, dice che è impossibile. Non so perché, ma è sempre così scettica su tutto, sta sempre a criticarci. L’abbiamo avuta troppo tardi, è questo il punto. Da ragazzina si vergognava di noi, perché avevamo quasi il doppio dell’età dei genitori delle sue amichette. È da un bel po’ che non abita più in questa casa, convive con un uomo, un poco di buono che un giorno sì e uno no le mette le mani addosso e la minaccia.
Proprio ieri è stata qui, si è presentata nel tardo pomeriggio, tutta accaldata, con una t-shirt indossata al contrario e una piccola tumefazione sullo zigomo sinistro. Mia moglie ha subito incominciato ad agitarsi. «Dimmi che non è successo di nuovo» chiedeva. «Mio Dio, dimmi che non è successo di nuovo.»
«Dimmi che
non è successo
di nuovo.»
«Prima o poi lo ucciderò quel bastardo» ho detto a mia moglie, poco più tardi, mentre nostra figlia era in bagno, sotto la doccia. Ho stretto i pugni. Non so, sicuramente avrò fatto una faccia strana, perché mia moglie è stata quasi sul punto di mettersi a ridere. Nostra figlia ha mangiato un po’, ma soltanto per farci contenti. Qualche spicchio di pomodoro, mezza mozzarella.
Dopo che se ne è andata nella sua stanza, io e mia moglie siamo usciti sul balcone del nostro minuscolo soggiorno. Non c’era un alito di vento. Mia moglie ha preso l’innaffiatoio e ha iniziato a parlare con le piante. Fa sempre così. Tiene l’innaffiatoio in una mano e con la mano libera accarezza le piante e dice: «Avete sete, poverine, avete sete eh?». Questa volta, però, la voce le tremava. E le tremava anche il braccio che reggeva l’innaffiatoio. «Lascia fare a me» le ho detto. «Ci penso io.»
Lei dice sempre che non ne sono capace, che ogni volta combino un pasticcio, tra acqua per terra e schizzi di fango, ma ieri sera sono stato molto attento, e lei non ha avuto assolutamente niente da ridire.
Mario Greco è nato nel 1959, a Sant’Arsenio, dove risiede. Nel 2011 ha ricevuto una menzione speciale dalla giuria del Premio Chiara per una raccolta di racconti inediti. Nel 2016 un suo racconto è stato pubblicato nell’antologia Dieci racconti per Piero Chiara (Macchione editore). Altri racconti sono stati pubblicati sulle riviste Tuffi, Carie, Grado Zero, Pastrengo, Rivista Blam, il Mondo o Niente, In fuga dalla bocciofila, Formicaleone, Smezziamo, Quaerere, Birò, Grande Kalma.
Un racconto di Alberto Pascazio
Numero di battute: 2498
Ho fatto mettere le transenne in piazza. Mi è costato diecimila euro, ma ho strappato la dicitura “evento privato”. Verso le sei sono tornato dalla spiaggia e ho preso un cono: nutella e panna. Poi, sono andato al concerto.
Le sedie sono già tutte sistemate: seicento posti vuoti. La cover band di Ramazzotti mi ha chiesto mille euro, ci siamo accordati sugli otto. Per ricreare l’atmosfera di un’estate fa, ho lasciato che qualcuno potesse entrare. Vecchi, soprattutto, cui qualche figlio in bermuda, con un pupo in braccio, porta di tanto in tanto un pezzo di pizza o un supplì.
La band sale sul palco per il soundcheck, io prendo una birra al bar sotto i portici. Sulle colonne accampano le foto della Sabaudia storica: la bonifica, le famiglie, le dune. Sulla settima colonna a sinistra, partendo dal mare, c’è un ritratto della nonna di Giulia: è bella come l’attrice di un film muto. Adesso sta morendo.
«Seicento
posti vuoti.»
Mi siedo e il cantante saluta il pubblico. Non c’è nessuno, ma gli ho chiesto di fare così: di fare esattamente come l’ultima volta. Attaccano a suonare ed è atroce. Lui simula una voce nasale, i vecchi tossiscono, il sale mi pizzica addosso. È tutto perfetto perché è tutto come allora. Urla: «più bella cosa non c’è…», poi porge il microfono verso la platea. Rispondo, da solo: «Più bella cosa di teee».
I bambini ridono. Le squallide promesse dell’estate adulta sono già pronte a essere tradite dalla noia, dal cibo a buon mercato, da un’altra – l’ennesima – serata tranquilla. Era così che mi piaceva: il futuro uguale, la noia borghese che non avevo mai avuto, il vezzo di fare qualcosa di brutto, per ridere. Me l’ero conquistata quella vita. Godevo delle nuove felicità come si fa con le bestie esotiche: oh che bizzarro, una cosa nuova, una cosa bella.
Quand’ero piccolo, al paese, un concerto in piazza mi piaceva davvero. Poi ho sposato una nuova natura, una faccia borghese della grande città, e queste cose mi piacciono perché non mi piacciono. L’ironia ha ricoperto tutto, fino a non farmi più credere a niente: neanche al me bambino – è mai esistito? Un’estate fa, almeno, mi restava lo stupore di un ti amo, che usciva dalla mia bocca o dalla sua.
Adesso che il concerto è finito, lei ha un altro, io anche. E quando i ricordi più belli e tremendi, quelli davvero felici, riemergono dal fondo di un’altra Peroni, li spingo giù ricreandone altri – scemi, banali. Metto in scena a mie spese una vita senza speranza
come un concerto
di una cover band
di Ramazzotti
a Sabaudia.
Alberto Pascazio scrive per lavoro, è direttore creativo in un’agenzia di comunicazione. A volte scrive anche racconti, a volte, addirittura, qualcuno li pubblica.
Un racconto di Ivan Campedelli
Numero di battute: 2355
La sua mano saliva sulla pancia di Marta e sotto la pelle tesa sentiva il calore di una casa accogliente. Avevano appena fatto l’amore. Sdraiati sul tappeto, si stringevano e respiravano con un lieve affanno. Luca pensò che quella sensazione di quiete non fosse immobilità, era piuttosto il frutto di un equilibrio di forze: spinte attrattive che li avevano portati verso quel momento e impulsi più difficili da vedere, che avevano lavorato all’opposto per trascinarli lontano.
Poco tempo prima, quello stato di quiete fu sul punto di infrangersi. Accadde a settembre, quando Marta glielo disse. Parlarono a lungo seduti sul tappeto e lui si sentì felice. Si abbracciarono e lei pianse, stringendosi alla sua spalla. Poi si alzò. È tardi, gli disse sorridendo. Luca sbloccò lo schermo del cellulare per guardare l’ora. Meglio andare a dormire, domani ci alziamo presto entrambi. Eppure, una vertigine lo trattenne a terra. Vai pure a sistemarti, le disse, io ti raggiungo a letto.
«Meglio andare
a dormire, domani ci alziamo presto entrambi.»
Il pomeriggio seguente Marta lavorava fino a tardi. Luca, invece, uscito dall’ufficio trovò il tempo di andare in palestra. Cercò di sfiancarsi con delle serie piuttosto serrate, ma non riuscì nemmeno ad affievolire la fissità dei pensieri, che dalla sera prima occupavano tutta la sua concentrazione – anche al lavoro, gli era sembrato di girare a vuoto, senza concludere nulla.
Quando tornò a casa, si spogliò e restò a lungo a fissare l’interno dell’armadio. I suoi vestiti, le sue cose, tutto disordinato. No, non si sentiva pronto. Prese magliette, pantaloni, camicie. Impilò tutto sul letto. Poi fece un mucchio con calzini e mutande. Guardava le sagome informi dei vestiti puliti. Era successo per sbaglio, in fondo. Non lo avevano programmato. Alcune coppie di amici ci avevano provato per mesi, avevano atteso, si erano sentiti pronti. Così avevano raccontato. Stava riempiendo il borsone che usava per andare in palestra, quando squillò il telefono.
Sto tornando, gli comunicò la voce di Marta con un certo distacco, abbiamo chiuso prima. Che ne dici se prendo due pizze? Luca rispose che non vedeva l’ora di vederla. Ed era vero. Marta sarebbe stata una madre straordinaria, lui un buon padre. Terminò di riempire il borsone e lo nascose sotto il letto. Strinse il cellulare, da cui aveva appena ascoltato la voce di Marta. E di nuovo sentì l’equilibrio della quiete.
Ivan Campedelli è nato a Verona nel 1988, dove si è laureato in Filologia moderna. Insegna in una scuola tra le montagne della Lessinia. Ama la natura e ha percorso a piedi alcuni sentieri escursionistici di lunga percorrenza, come il sentiero europeo E5 e parte dello sterminato Pacific Crest Trail. Negli anni alcuni suoi racconti sono apparsi sul web e su riviste, come Nazione indiana e Writers Magazine Italia.
Un racconto di Giorgia Mosna
Numero di battute: 2489
Quando la notte è un conto alla rovescia, Enrico sprofonda nel cuscino e sulle dita della mano sfiora le ore che lo separano dal risveglio.
«M’ama, non m’ama…» dice, e sospira e aspetta.
È dall’estate in cui incontrò il cane che Enrico aspetta.
Non ha mai capito come sia successo, nemmeno sa se è successo davvero, anche se quando racconta giura che è accaduto. Si era avvicinato al cane perché era un cane, un border collie bianco e nero come sono i border, con gli occhi nocciola. Enrico lo aveva accarezzato considerando marginalmente la ragazza che lo portava, una abbronzata, molti braccialetti, un intenso profumo di vaniglia.
Lui aveva guardato il cane, solo il cane. Lo aveva toccato al collo, nel folto del pelo, fissandolo negli occhi pur sapendo che con i cani non si dovrebbe.
Non si dovrebbe con nessuno, in effetti.
«Lui aveva
guardato il cane.»
Nel momento in cui le loro pupille si erano agganciate qualcosa era accaduto, un magnetismo, che aveva polverizzato la sua percezione di sé. Sai, quel contorno che senti, quello che ti fa dire “io”. Enrico dice che il bordo non l’ha sentito più; dice che lui era nel cane.
Per l’esattezza, Enrico dice che era il cane ma anche tutto quello che cane non era, e che il senso di essere sé stesso, di essere quindi Enrico e non altro era scomparso.
Letteralmente. Di fatto.
Di solito, Enrico a questo punto si emoziona. Il fiato gli si fa corto e appoggia gli occhi di lato. Se ti stava guardando, non ti guarderà più. Così, a bassa voce, Enrico ti dirà del tempo.
Ti dirà che il tempo era scomparso.
Dirà che quando ha guardato negli occhi il cane, lui ha toccato l’eternità.
Dirà d’aver capito in un sol colpo quello che intendevano i filosofi medievali, quella faccenda di Dio che conosce ogni particolare perché tutto è fermo ed esiste contemporaneamente, e non c’è divenire, discesa, inizio o fine sotto il suo sguardo; che tutto è compreso e benaccetto.
Poi la ragazza aveva fatto tintinnare i braccialetti. Faceva caldo e la sua pelle aveva emanato quello sgradevole odore di vaniglia; ha detto che doveva andare e il cane aveva subito scodinzolato. Sull’orlo di quella voce rotta il cane era tornato nel cane, e suo malgrado anche Enrico era rientrato. Il cane al cane, Enrico in Enrico, il momento si era chiuso, senza che nessuno se lo sia riuscito a spiegare.
Tranne quando è notte, e il soffitto contro cui si dibatte gli ricorda l’essenza.
Allora Enrico è l’unico che sa: se dovesse succedere ancora, allo spalancarsi del tempo lui non si farà distrarre da nulla.
Giorgia Mosna è nata a Bolzano. Ha studiato violino e viola nel Conservatorio della sua città e poi a Roma. È stata violista ma ora non lo è più, si è occupata di letteratura per l'infanzia ma ora non più. È stata casellante, commessa in una libreria, segretaria. Scriveva e scrive ancora. Suoi racconti sono apparsi sul blog del Penelope Story Lab, sul blog del Super Trump Club, sulla rivista Turchese. Nel 2023 è stata selezionata tra i semifinalisti della call racconti del premio Calvino.
Un racconto di Stefano Lento
Numero di battute: 2441
In Fabbrica non ci lavora più nessuno, sono circa trent’anni che gli operai non varcano i cancelli per andare in produzione. Quando negli anni Cinquanta il signor De Seta si mise in testa di produrre tessuti, tutti lo prendevano per matto supponendo che in un’Italia da ricostruire le priorità fossero altre. Ma lui ci aveva visto lungo, la gente, oltre al cibo e una casa sicura in cui stare, aveva bisogno anche di vestiti caldi coi quali ripararsi dal freddo. Perseguì la sua idea senza mai desistere e, dopo decenni di duro lavoro, arrivò addirittura a cucire i talari di Papa Woytila.
Il signor De Seta, oltre a essere un bravo imprenditore era un acuto sociologo: di fianco alla Fabbrica fece costruire un edificio nel quale ospitare le famiglie degli operai che “accuditi dal calore delle mogli e dei propri figli avrebbero reso meglio a lavoro”, così asseriva quando qualcuno metteva in dubbio la bontà della sua impresa.
«Della Fabbrica e delle residenze resta solo l’involucro.»
Della Fabbrica e delle residenze resta solo l’involucro, entrambe avvolte dal silenzio e dall’edera selvaggia. Ma lì dentro è custodita la memoria di Gustav che, appena maggiorenne, fu assunto alle dipendenze del signor De Seta.
Oggi Gustav ha ottantacinque anni, del vigore di un tempo gli restano solo le spalle larghe e delle manone da uomo di catena. Il suo dolore diventa tangibile quando lo sguardo gli si bagna di commozione.
«Quella era la finestra da cui affacciavo» mi indica con il dito un infisso in legno per metà oscurato da una persiana sbilenca. «La casa aveva una cucina in muratura e i pavimenti in cotto. Alla domenica usavamo il camino per cuocere il pane – ne infornavo più del necessario per portarlo anche agli altri.» Poi indirizza il dito verso il portone alle spalle del quale immagino esserci una corte comune. «Ci incontravamo a ora di pranzo, ognuno con qualcosa di pronto da donare alla tavola degli altri compagni. Eravamo una grande famiglia di cui, dalla fine della produzione, non è rimasta più traccia.»
Gustav si sente ormai uno del luogo, in Russia ci è nato ma ha trascorso tutta la vita in questo posto e non vuole abbandonarlo. Parla un italiano misto al dialetto, una lingua tutta sua, tronca e al contempo rigida. «Non ti viene mai voglia di tornare nel posto da cui sei venuto?» gli chiedo mentre lui fissa la ciminiera, quasi non facesse caso alla mia presenza. «Ero il guardiano della Fabbrica, e questo rimango. Non posso lasciare il posto che mi è stato assegnato.»
Stefano Lento nasce a Napoli nel 1983. Laureato in Architettura, inizia sin da subito a collaborare con riviste di settore – tra cui Living Corriere della Sera, Ottagono Magazine, Il giornale dell’Architettura – per poi lavorare a un proprio progetto (startfortalents.wordpress.com) di informazione digitale. Sonosolofavolette.wordpress.com è un contenitore di storie surreali.
Un racconto di Francesco Nicolli
Numero di battute: 2495
Mi hai lasciato perché abbiamo quarant’anni e non ti do più emozioni, ma solo affetto. Mi hai lasciato dopo che ho iniziato un secondo lavoro per poterci comprare un appartamento – vicino al centro, ma con un po’ di scoperto. Mi hai lasciato dopo avermi convinto ad avere un figlio anche se non volevo, ma che almeno non è venuto. Mi hai lasciato che ti avevo appena aiutato a comprare la macchina nuova – pago io i bocchettoni dell’aria, avevo scherzato, siamo una famiglia.
Mi hai lasciato e mi sento come durante un’immersione, nel momento in cui l’aria inizia a scarseggiare e il pelo dell’acqua sembra irraggiungibile.
«Mi hai lasciato perché abbiamo quarant’anni.»
Mi hai lasciato e quando guardo le vecchie foto non riesco a non sorridere – siamo stati ragazzi insieme, sei stata all’ospedale al mio fianco, sei stata nuda, al mio fianco –, ed è sempre un po’ come fossi qui con me.
Mi hai lasciato e nonostante siano passati più di dieci anni dalla prima volta, pensare a te ancora mi fa venir voglia di partire, raggiungerti, e stringerti in un abbraccio che conduce dritto al letto.
Mi hai lasciato e ho trovato un’altra. L’ho trovata perché sto invecchiando, e perché la mia famiglia ci rimane male, se resto solo.
Io ci rimango male, se resto solo.
Con la nuova sto correndo, più veloce del dolore, più veloce della tua assenza.
Siamo andati a vivere assieme. Parcheggia l’auto nel tuo posteggio e stende i panni nel tuo scoperto. Le ho regalato un vestito che ho comprato nel negozio che ti piaceva tanto, quello nella strada tra casa e l’ufficio. L’ho portata a Firenze a vedere Giotto, a mangiare la schiacciata di Scheggi e a prendere il sole nella piscina accanto allo stadio, dove mi hai insegnato a respirare tra una bracciata e l’altra e io non l’ho mai imparato. E quanto eri buffa con quei panini pieni di salsa – ti ci sporcavi fino alle guance, come una bimba.
L’ho persino portata a passeggio nel sottomura, dove andavamo ogni sabato a lamentarci di una società in cui non sembrava esserci spazio per noi due. E siamo anche stati in Inghilterra, a mangiare gli scones e a bere una birra nel pub vicino al fiume di cui non ricordavo mai il nome. Certo lei è astemia, tu invece con in mano una birretta scura come i tuoi capelli eri proprio carina.
E ora che siamo a Roma, l’ho portata a cena a Testaccio, in tutti quei ristorantini che ci ha consigliato la tua capa. Ma sul Pincio – se siete innamorati, andateci l’ultimo giorno al tramonto, ci aveva detto – sul Pincio non siamo stati.
Sul Pincio ci potrei tornare solo con te.
Francesco Nicolli è nato a Ferrara nel 1981. Di mestiere scrive di ambiente ed economia e insegna all’università. Nel tempo libero ascolta musica e accumula libri, sognando il giorno in cui avrà tempo per leggerli tutti.
Un racconto di Valentina Schiavo
Numero di battute: 2010
«Ha bisogno d’aiuto, signora?»
«Macché aiuto, ho bisogno di un miracolo!»
«Allora è nel posto giusto, signora. Che tipo di miracolo cerca?»
«Speriamo. La mia casa è maledetta! Mio marito è morto il maggio scorso cadendo dalla scala, stava sistemando il roseto. Poi tutte le piante sono morte. Anche quelle nuove, le compro, le porto a casa, e muoiono. Si seccano se le lascio in vaso, le pianto in terra e marciscono. La casa è maledetta, tutto è maledetto.»
«Signora, non disperi, ho quello che fa per lei. Si vede che suo marito è un po’ risentito di essere morto per colpa di un roseto, e adesso si sta vendicando con le sue piante. Che Dio l’abbia in gloria! Le serve il Naso di San Basilio.»
«Che tipo di miracolo cerca?»
«Il Naso di San Basilio…?»
«Certo, signora, il Naso di San Basilio. È proprio questo in bacheca, lo vede?»
«Questo qui è un naso?»
«Sì, guardi bene, è appiattito per conservarlo tra i vetrini. I due fori al centro sono le narici, vede?»
«Ah, sììì.»
«È molto antico, ha più di cinquecentomila anni. Direttamente da Gerusalemme, l’hanno tramandato di famiglia sacra in famiglia santa, fino a Roma. Lì i vescovi l’hanno messo in salamoia con le olive, per preservare il rosa della pelle. Vede com’è pulito?»
«È purificato.»
«Esatto, purificato. Poi, da Roma, i frati lo hanno portato nel convento qui, sopra al colle. L’hanno tolto dalla salamoia, appiattito con una vanga, e messo a conservare tra questi due vetrini.»
«Che ingegnosi questi frati.»
«I frati sanno il fatto loro, signora. Purtroppo, il loro convento è andato a fuoco qualche hanno fa, raso al suolo, tutti i frati scomparsi, scom‑par‑si!»
«Tutti bruciati?»
«No, signora, no. Si sono vaporizzati in Spirito Santo. E il Naso di San Basilio intatto, salvato dai vetrini.»
«In nome del padre e del figlio, amen.»
«Il Signore sia con noi! Le assicuro, signora, che questo naso convincerà suo marito a lasciare in pace le piante, e le dirò di più. Anche suo marito si santificherà.»
«Oh, Santa Maria! Fulvio santo! Aspettami Fulvio, ti porto il Naso di San Basilio stasera!»
Valentina Schiavo è nata a Padova, ha vissuto tra Svezia e Inghilterra per qualche anno, per poi stabilirsi in territorio dolomitico. Lavora in comunicazione.
Un racconto di Andrea Consonni
Numero di battute: 2477
In cinque e minuti e quarantasei quante sigarette posso fumare? Quanti baci posso darti? Quante tartine con maionese, prosciutto crudo e gamberetti posso preparare? Cinque minuti e quarantasei.
Facevi partire la canzone e cominciavi a tempestarmi di domande. Alle cave di granito. Per telefono. Sul treno. Tornando da scuola. Con le cuffie. Con lo stereo acceso. Io chiudevo gli occhi e mi muovevo come se fossi Billy Corgan. A piedi nudi sulla moquette studiando il modo per portarti via da quel paesino del cazzo. Centomila sacchetti di patatine ci stanno nella tua stanza e se poi svuotiamo la stanza li ritroviamo tutti i tuoi libri? Te le sentivo gridare dal piano di sopra le domande.
Mi scrivevi lettere di dieci pagine con elenchi di cose che avremmo dovuto fare a tutti i costi prima di morire: andare a Londra, intervistare Isaac Asimov, scrivere la sceneggiatura per una telenovela ambientata nel nostro palazzo, addomesticare un pipistrello, aprire una colonia di ricci, incendiare la fabbrica dove lavoravano le nostre madri.
«Te le sentivo gridare dal piano di sopra le domande.»
Mi facevi trovare nello zaino test psicologici con domande a cui venivano assegnati un certo tipo di punteggi. Dovevo consegnarti le risposte il giorno stesso e tu mi avresti fatto trovare nella cassetta della posta il mio profilo.
Dal tuo balcone facevi penzolare un filo di lana con attaccata la cassetta di Siamese Dream e un biglietto con scritto che mi avresti amato per sempre.
Poi sei sparita.
Una notte la tua famiglia ha preso le sue cose, le ha caricate sul Ducato di tuo padre e addio. Sono passati trent’anni da allora. Quest’anno compiamo quarantacinque anni. Io il 6 giugno e tu il 12 agosto. Ho la faccia gonfia e non riesco a smettere di bere ma trascorro ancora giorni interi ad ascoltare quell’album e a rispondere ai test che mi spedisci per posta.
Prima domanda di quest’anno: se ti trovassi di fronte a mio fratello cosa faresti? a) lo uccideresti; b) gli spalmeresti il culo di salsa guacamole e lo abbandoneresti nudo in un campo vicino alla statale; c) gli parleresti del riccio che si chiamava Isacco.
Quarantaquattresima domanda: tema libero.
Compilo tutto.
L’indirizzo della tua casella postale cambia ogni anno.
L’ultima domanda che mi rivolgesti prima di sparire fu: secondo te quanto ci mettiamo a cavallo per raggiungere Venezia? Io, te e due puledri. Un giorno saprai rispondermi.
Poi sì, ti ho risposto, l’anno scorso, e la pistola per rapinare una banca l’ho comprata.
Non l’ho mai usata.
In attesa del tuo ritorno.
Andrea Consonni (1979) lavora come addetto alle pulizie e preparazione popcorn in un cinema multisala di Lugano.
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