Un racconto di Francesca Savoia
Numero di battute: 2382
Stanno immobili, uno di fronte all’altra, infilati nella vasca da bagno. Luca tiene gli occhi chiusi e Anna sente materializzarsi in quel silenzio una distanza dolorosa che presagisce da tempo. Getta la testa all’indietro languidamente, inarcando la schiena fino a spingere i seni fuori dalla superficie dell’acqua. Aspetta con ostinazione che Luca si avvicini e le fa male la schiena nel punto in cui si appoggia al bordo della vasca. Sa che domani comparirà sulla sua pelle un livido violaceo puntuto di rosso, una striscia di dolore a ricordarle che insistere non serviva a nulla, ma non si rassegna, vuole lasciare il suo corpo nudo in bella vista come un’esca.
Pensa al loro primo bagno insieme, quando subito dopo lui le aveva detto timidamente: «Con te sento una connessione che non ho mai provato prima». Anna gli dava le spalle e fumava alla finestra una sigaretta umida di entrambe le loro salive. Si era voltata a guardarlo e l’aveva amato così profondamente da desiderare che lui la mangiasse. Fammi esistere solo per te, aveva pensato.
«Vuole lasciare
il suo corpo nudo in bella vista come un’esca.»
Luca resta ancora immobile. Dov’è finito tutto il suo amore ora? Anna scivola vergognosamente verso il basso, lasciando che l’acqua la avvolga fin sopra le clavicole. Nasconde la frustrazione sotto una voce carezzevole e sperando di attirare la sua attenzione chiede: «Il lavoro ti ha stancato molto?». Vorrebbe che avesse bisogno di lei come di una madre, così da essere sicura di averlo per sempre.
«No, tutto bene. I colleghi nuovi sono gentili.» Luca apre finalmente gli occhi, e mentre stende le gambe sbadatamente tocca quelle di lei, che sorride di quel piccolo contatto improvviso.
Rinfrancata dalla vicinanza del suo corpo, lo incalza con piccoli colpetti sulle cosce. «Nel weekend ho detto a Giulia che sarei stata con te, andiamo al cinema?»
«In realtà gli altri volevano uscire… magari ci andiamo un’altra volta!»
Un’ondata di tristezza le risale dallo stomaco e mastica quel dolore tra denti e saliva senza sapere cosa rispondergli.
«Mi fumo una sigaretta» le dice. In uno sciabordio d’acqua le imprime un bacio rapido sulla fronte. Mentre Luca afferra l’accappatoio, Anna nota sul suo braccio un lungo capello bruno rimasto appiccicato per sbaglio e pensa che quella sia l’unica cosa che di lei gli resta davvero addosso. Lo osserva allontanarsi e diventare una sagoma sempre più liquida sotto il suo sguardo appannato.
Francesca Savoia è nata in provincia di Mantova tra la nebbia e le zanzare. Laureata in Lettere moderne all’università di Bologna e attualmente iscritta alla magistrale di Filologia. È appassionata di arte, fotografia e teatro e coltiva l’amore per la scrittura sin da quando era bambina.
Un racconto di Ezio Azzolini
Numero di battute: 2486
Ehi, questo te lo devo proprio dire, nel solo modo che conosco. Sotto il murale gigante eravamo migliaia, noi avevamo scelto la metà della via, a vedere lo schermo messo storto tra le teste e le bandiere. Tu stavi sul muretto che dà sul largo dei tabernacoli, degli ex voto e della santità. Vedevi meglio tu, eri arrivata presto.
Dino ci moriva, io non lo so che ci stavo a fare, un po’ di onestà te la devo. Volevo partecipare a una festa, può darsi. Non ero invitato ma nessuno se l’è presa.
Portavi la maglia Buitoni dello scudetto dell’87. Era un’imitazione fatta bene. O nell’87 quella maglietta ha imitato te, qui ora così, può darsi. Eri celeste da perdere il fiato, quest’è. Dico quest’è, come ci fosse da mimetizzarsi. Ma non ho bisogno, non ero invitato ma nessuno se l’è presa. Delle ragazze di Napoli eri la sola senza trucco, questo lo giuro. Anche da lontano lo vedevo che non avevi il trucco. Sei arrivata presto per metterti in piedi sul muretto, forse eri lì prima che nascesse la città e nascesse il mondo.
«Portavi la maglia Buitoni dello scudetto dell’87.»
Dopo, quando è finita e si è incendiato tutto e tutti hanno urlato, io volevo prendere il momento e invece mi sono distratto. Ti sei accorta da lontano che ti stavo fotografando. Non te la sei presa. Ti sei messa in posa per me, hai fatto il tre con la mano come in un cartone di Miyazaki e mi hai sorriso. Ce l’ho qui sfocato in galleria, lo andrò a guardare quando ho un po’ bisogno. Troppe luci tutte insieme, il tuo sorriso troppe luci e niente fuoco, lo Xiaomi non ce l’ha fatta, e neppure io.
Nella folla del largo impazzito non ci siamo più visti. Non è vero. Ti ho vista andare via, e non ho fatto niente. Avrei potuto dirti: ehi, in treno ho scritto una storia, ci sono io che vedo un padrone che prende a calci il suo cane, allora lo difendo e calcio il padrone, e il cane difende il padrone e prende a morsi me. Avrei dovuto spiegarti che tanto la foto era venuta male, che con me non avresti fatto un grande affare. Ma questo lo giuro, sarai una delle ragazze che penso. Quelle che da ragazzo vedevo ballare all’alba con la pista quasi vuota, e me ne stavo lì fermo.
Al bar della stazione Dino ha preso un cornetto e io non ho preso niente. Lo scatto nella galleria si perderà tra altri sbagliati e poi verrà cancellato da un upload. Oppure non si perderà, lo svilupperò finto Polaroid per andare al sughero sul muro, il bel fantasma sfocato della gioia universale. Nel vetro dei cornetti c’era un insetto con diverse zampe. Ma a Dino non ho detto nulla.
Ezio Azzollini è nato a Bari nel 1983 ed è giornalista. Scrive di cultura e sport per Esquire, ha pubblicato racconti su LiberAria, Tapirulan, Efemera, Cedromag, SuperTrampsClub. È stato finalista del Premio Calvino nella call di racconti del 2020. Lavora al suo primo romanzo.
Un racconto di Sarah Cipullo
Numero di battute: 2303
Cody vuole gettare il CEO giù dalla torre dopo avergli piantato due chiodi negli occhi. Vuole spingerlo dalla cima della fabbrica di Babele, la chiamano così, la nostra azienda. È una fabbrica verticale, la nostra, che cresce ogni ora. E il CEO è sempre lì, al piano più alto.
Anche noi siamo sempre qui. Io e Cody, per esempio, stiamo insieme al duecentoventinovesimo. Di notte ci dormiamo, qui dentro, e di giorno ci lavoriamo insieme agli altri, in fretta e senza sentimento. Sono tutti così organizzati qui, i colleghi parlano tutti la stessa lingua rotta, lo stesso inglese rattrappito. Anche se il suo è bello, quello di Cody, dico, perché Cody è madrelingua e quindi parla come un nobile.
«Di notte ci dormiamo,
qui dentro,
e di giorno
ci lavoriamo.»
Negli ultimi mesi però Cody dopo lavoro ha iniziato ad accasciarsi per terra. Ha sempre le spalle curve, la faccia stanca, con le mani si tiene le ginocchia. Non dorme più la notte, Cody, non ci riesce. Se ne sta nel buio con gli occhi spalancati e dice che i manager sono tutti un’accozzaglia di zombie, dice che il CEO è un re rozzo che vomita bestemmie al centro dell’universo. Poi certe mattine si sveglia e mi dice: «Michele, questo lavoro è la mia vita in pausa».
Sempre si lamenta, che la nostra fabbrica gli sembra una città senza desiderio, così dice, che è stata congelata dalla noia prima del raffreddamento del pianeta. Dice, Cody, che se il CEO fosse stato un animale, avremmo avuto una vita migliore. Che gli animali hanno una voglia incrollabile di vivere, capiscono che la vita è un dono prezioso e la custodiscono gelosamente.
«Se al tempo che mi rimane tolgo gli anni in fabbrica, quanto mi resta da vivere?» mi chiede certe mattine. E pure se lo capisco, non gli rispondo mai niente. I nostri colleghi sono infaticabili e quindi cosa gli devi dire a uno così, quando tutti quelli che gli stanno attorno gli piantano ogni giorno un chiodo nella bara? Però Cody ci vede lungo. «Nel futuro posso solo morire» ha detto ieri mentre si metteva a letto.
Così quando il capo reparto stamattina è venuto a chiedermi se sapevo perché il corpo di Cody è disarticolato sul cemento del marciapiede, gli ho detto che secondo me si è alzato presto, mentre ancora io dormivo. E che, nell’impossibilità di ammazzarci tutti, deve aver pensato che non gli restava altro da fare che gettarsi giù dalla torre.
Sarah Cipullo vive a Torino. Le ultime tre riviste che hanno pubblicato le sue storie sono: Hook Magazine, The New York Times e Sky Island Journal. Non è bilingue.
Un racconto di Vasco d’Agnese
Numero di battute: 2500
Febbraio, sei e quaranta del mattino, poco prima del Carnevale. Il sole è sorto da poco, ma dalla fermata ancora non si vede. Il cielo è limpido, pulito, di quel blu elettrico delle albe invernali. Lui sale in pullman. Sale e lei è lì, a due passi di distanza, come ogni lunedì. Deve solo fermarla, con una scusa qualunque.
In realtà lei già lo conosce: è quello di via Altamura, l’ultima fermata prima dello stadio, tre dopo la sua. Spesso si scambiano sguardi, qualche volta un sorriso – quindi magari la scusa è superflua. Basterebbe un “buongiorno, come va?” oppure, meno formale “ciao, come va? Da un po’ volevo parlarti...”.
«Lei – è molto probabile –
lo aspetta.»
Lei – è molto probabile – lo aspetta. Lo aspetta e lo riconoscerà. Risponderà sorridendo, inclinando leggermente la testa. Lui imbastirà una chiacchiera, e lei non scenderà quando deve, si dimenticherà, o forse lo farà apposta. E anche lui non scenderà alla solita fermata, anche lui si dimenticherà, o forse anche lui lo farà apposta, e a un certo punto scenderanno insieme. Lui indicherà un bar e prenderanno un caffè, seduti al tavolino, nel via vai di studentesse, ragazzi, papà che comprano brioche per i figli, e lei arriverà tardi al lavoro – lui anche peggio.
Ne rideranno, e prima di lasciarsi lui la inviterà al cinema, quella sera stessa, o magari il giorno dopo. Si scambieranno i numeri e condivideranno messaggi, usciranno insieme, ancora e ancora, parleranno di case, viaggi, quadri, musica, si baceranno e faranno l’amore. Prenderanno l’auto e andranno in costiera, fitteranno casa al mare, e vedranno tramonti, onde, alberi, asfalto, piogge in spiaggia e mattine d’autunno. Penseranno di voler vedere l’alba dal terrazzino, ma si sveglieranno sempre tardi, ridendo, e lui preparerà la colazione e le chiederà di sposarlo, e lei lo abbraccerà.
Tinteggeranno casa verde e azzurro ed il tempo scorrerà rapido. Lui imparerà a fare foto – finalmente! – le accarezzerà il viso mentre lei le guarda, di sera, e dopo avere scelto le più belle le ordineranno in un album, e avranno due figli, sicuri, piantati nel mondo come lui non è mai stato, e col tempo anche i capelli si imbiancheranno e i passi saranno più lenti, incerti, le giornate più brevi e ogni attimo da quel momento in poi sarà l’ultimo della vita perché sarà la vita, compatta e luminosa, e niente più da chiedere, da desiderare, ogni cosa intera, cerchi di mare inanellati a riva, e nessuno vedrà la morte dell’altro perché così decideranno e così sarà.
Ma lui non ha scuse, né parole, né sguardi complici. Arriva la sua fermata e scende. Scende e basta.
Vasco d’Agnese è nato a Napoli nel 1970, dove ha sempre vissuto. Insegna Filosofia dell’educazione all’università Luigi Vanvitelli, e ha coltivato la passione per la scrittura in forme diverse.
Un racconto di Gianandrea Frighetto
Numero di battute: 2421
Avevo tredici anni la prima volta che vidi un visone.
Ero con mio cugino, un armadio biondo pannocchia con un sorriso furbesco, e la sua compagnia. Ci aggiravamo tra le campagne dove il dialetto comandava pure sulle vetrine dei negozi.
«Gheto mai fumà?» mi domandò qualcuno.
«Certo» dissi al gruppo. «Philips, Marlboro, Camel» elencai, fregate a ogni sorta di parentela.
«Ma non visoni» commentò il cuginetto.
Aveva due anni in meno, come tutti quelli della banda. Tra le dita teneva un ramoscello striato come una tigre, dal profumo esotico. Un forellino sottile quanto uno stuzzicadenti lo passava parte per parte.
«Gheto mai fumà?»
«No ghi nemo bastanza» se ne uscì quello ribattezzato Carega.
«Ndemo allora» ruggì il cugino, la bici stretta sotto le manone.
Salii con lui, in piedi sul portapacchi. In testa al gruppo zigzagammo tra case diroccate, campi di granoturco, pisciammo sui muri, qualche petardo volò contro la canonica. Maledizioni e parolacce al don e alle sue messe.
Prendemmo un sentiero sterrato che terminò in una fitta boscaglia.
«Di qua» disse il cugino, che mollò la bici e si lanciò armato di bastone.
In mezzo alla selva, un groviglio di liane infestava un vecchio faggio. Il visone sembrava un lungo serpente avvolto sulla preda.
I ragazzi si misero all’opera cercando i rami più secchi. Tastavano e annusavano con le lame pronte. Ogni tanto una fiammella illuminava le loro facce.
Il cugino ne accese uno e poi me lo passò in una nuvola di fumo. Inspirai quell’aroma selvatico, dolce e spigoloso allo stesso tempo.
«Sei dei nostri» disse con un risolino. Parlava in italiano con me.
Intanto dal sentiero era arrivata un’altra compagnia, qualcuno sussurrò che erano quelli di terza. Avevano la mia età eppure sembravano più duri e cattivi.
Volarono parole, qualche culo smutandato al vento, ma nulla più.
Ci rimettemmo in sella e mi spiegarono che i visoni erano terreno di tregua. Un po’ per ciascuno e poi se le sarebbero date fuori da scuola o a calcio.
Il resto del bottino ce lo fumammo strada facendo, fino all’orto di zia. Le caramelle alla menta lavarono via le malefatte, prima dei saluti.
Non tornai più in campagna, non cercai più visoni con mio cugino e la sua banda. Qualche anno dopo smisi pure con le sigarette. Ci sono volte però in cui scendo in cantina e mi siedo sulla vecchia poltrona. Tiro fuori quel primo mozzicone di visone e lo cicco con gli occhi chiusi, in bocca il dolce sapore di poter essere scoperto.
Gianandrea Frighetto nasce a Bassano del Grappa, cresce a Rosà e corre tra le calli veneziane per laurearsi in Economia e Beni Culturali. Lavora in una cartotecnica, legge e scrive da sempre. Qualche racconto è stato pubblicato tra concorsi e riviste. Nel 2022 esce il suo primo romanzo, Santa Kultura (La Ruota) e diventa papà. Ha trent’anni in difetto.
Un racconto di Rudi Capra
Numero di battute: 1343
Ichi Tohaku fu un illustre matematico. Visse tutta la vita a Sendai, in una casa senza luce elettrica né riscaldamento.
Comprese da giovane che il problema fondamentale della natura umana è quello della singolarità e passò una vita a cercare di risolverlo. Una sola nazione, una sola religione, una sola donna, una sola vita e una sola morte. La natura umana è schiacciata in quest’unità soffocante e Tohaku cercò una teoria matematica in grado di spezzarla.
Una vita nomade vissuta in tanti luoghi e tante donne, con tanti futuri a disposizione in notti e giorni paralleli.
In una fredda primavera del 1964, mentre la gatta miagolava alla porta per entrare, Ichi trovò la soluzione. Applicandola in ambito fisico, avrebbe biforcato la propria esistenza lanciando sé stesso verso una serie inarrestabile e potenzialmente infinita di biforcazioni.
«Attese.
Invano.»
Attese. Invano.
Controllò e ricontrollò i calcoli, ma risultavano corretti.
Infine comprese: l’unità fondamentale della sua persona era stata scissa, ma Ichi era quello rimasto al di qua della biforcazione, mentre l’altro Ichi era stato sparato verso un futuro ramificato ed espanso. Senza alcuna possibilità di incontrarsi.
Ichi era rimasto nell’unità angusta della stanza rettangolare con il tatami srotolato, la gatta che miagolava fuori dalla porta e un piovasco leggero che cadeva dal cielo bianco.
Rudi Capra è ricercatore in Filosofie dell’Asia orientale e critico cinematografico, attualmente a Torino. Ha diverse pubblicazioni all’attivo e due monografie, una sul pensiero interculturale e una sul cinema di Nicolas Winding Refn. Suoi saggi e racconti sono apparsi anche su L’Indiscreto, Risme, Singola, Digressioni, Le parole e le cose.
Un racconto di Emma Zannini
Numero di battute: 2495
Da bambina correva nella via sterrata, e cieca, che separava i terreni di B. e C., vecchi contadini, e con lei c’erano sempre tre maschi della sua stessa età, cugini fra loro, e la sua sorellina, tremenda forse più di tutti. Erano, insomma, una banda.
Per quella strada ci passava solo, e raramente, qualche trattore, a volte le bestie, e in vista non c’erano case, solo distese infinite di erba che terminavano nel cielo immenso. Tutto era a disposizione loro e dei loro giochi. Soprattutto, gli piaceva stare attorno al vecchissimo albero di castagno, solitario, nel bel mezzo del terreno di B., e l’avevano designato la loro base.
Da lì la stradina si vedeva ancora, ma dovevano comunque stare attentissimi: se B. li avesse beccati sul suo terreno, sul suo castagno, sulle sue balle di fieno, li avrebbe scacciati coi cani, furibondo, così la leggenda diceva. Lei, però, ricordava una volta che avevano sentito dei cani in avvicinamento, ed era stato il panico. Non avevano avuto tempo di scappare, e si erano arrampicati tutti sull’albero, issando la sorellina un po’ per le spalle un po’ per il braccio, nascondendosi fra i rami.
«Erano, insomma,
una banda.»
Sì, era il vecchio contadino con i due vecchi cani. Erano rimasti appollaiati in silenzio, pregando. Quando poi se ne era andato ed erano scesi dall’albero, erano tutti eccitati da come gliel’avevano fatta. Eppure a lei – aveva taciuto però, perché avrebbero detto che se l’era inventato – eppure a lei era parso che B., passando vicino al castagno, avesse incrociato i suoi occhi, e si fosse girato dal lato opposto, l’ombra di un sorriso.
Quel giorno, quella primavera, erano stati loro a trovarlo. Da lontano sembrava un bozzolo enorme, appeso al castagno, e sua sorella era corsa lì ridendo sguaiata pensando fosse un animale brutto. Poi aveva urlato. Pendeva dall’albero con una sorta di dolcezza, scosso appena dal vento, come una carezza. Gli altri erano corsi a chiamare a casa, solo lei era rimasta lì impietrita: aveva alzato gli occhi al volto di lui, livido su quel cielo azzurro azzurro.
Erano andati a guardare la processione della bara dalla chiesetta al cimitero, la seguiva solo qualche vecchia velata di nero. Tutti, anche il prete, reggevano candele spente. Più tardi, inquieta, aveva chiesto perché, e suo padre le aveva risposto scuro: «Non c’è luce, di là, per chi muore così».
Ancora oggi, quando ritornava al paese, andava a posare fiori su quella tomba, sola, fuori dal cimitero, senza croce. Oltre i suoi, non ne aveva mai trovati altri.
Emma Zannini è laureata in Lettere moderne all’Università di Padova. Si trasferisce a Bologna dopo aver lavorato in un giornale a Roma, consegue la laurea in Italianistica nel 2021 e da allora alterna il suo tempo fra scrittura e insegnamento.
Un racconto di Irene Montano
Numero di battute: 2297
Luca era ancora assorto nei bagliori intermittenti dell’albero di natale quando Carlotta lo chiamò alle spalle: «Amore, che fai? Non vieni?». Lo vidi seguire il profumo dell’arrosto attraverso l’intreccio del parquet di rovere fino alla tavola apparecchiata. Carlotta gli fece cenno di sedersi vicino a lei ma aveva la testa girata nella direzione opposta, tutta protesa in adorazione del padre, con cui aveva già intavolato una discussione su Bruegel il Vecchio. Curatore museale lui, studentessa al terzo anno di Storia dell’arte lei, messi insieme erano una rottura di palle a orologeria.
Luca si sedette fissando il posto vuoto davanti a sé, ma un rumore di tacchi sembrò suggerirgli che presto sarebbe stato occupato. Un rossore silenzioso gli si diffuse sulle guance. Pochi istanti dopo, la madre di Carlotta era di fronte a lui, con una teglia di lasagne fumanti tra le mani. Nessuno sembrò far caso al suo arrivo, perciò Luca si alzò di scatto per aiutarla, «Ci penso io, Nunzia», e nel passarsi la pirofila le loro dita si sfiorarono in un saluto complice.
«Lo vidi seguire il profumo dell’arrosto attraverso l’intreccio del parquet di rovere.»
Durante la cena si trincerarono entrambi dietro la sicurezza di una conversazione banale, Nunzia gli chiese come fosse andato l’ultimo esame di Giurisprudenza, passandosi la mano senza fede tra i capelli sciolti; Luca si informò sui progressi dei suoi studi di pianoforte, rigirando il calice di vino tra le mani. Gli altri però non notarono quelle lunghe pause, nelle quali Nunzia fumava nervosamente spegnendo lo sguardo ansioso sulle labbra di Luca. E non si accorsero neanche degli occhi di lui, che rimbalzavano dal neo sul mento di lei al terzo bottone, sfacciatamente slacciato, della sua camicia. Un piede si liberò zitto dalla propria scarpa per muoversi con discrezione sotto al tavolo.
«Mi aiuti a portare il tiramisù?» Quello era il segnale. Anche la settimana precedente erano scomparsi prima del dessert. Sperai che almeno quella volta rimettessero in ordine le coperte del mio letto. Non sapete quante cose si possano vedere da questa poltrona. Loro credono che io non sia più lucida, eppure, sebbene ormai mi sembrino tutti degli estranei, sento di conoscerli molto meglio di prima. Nonostante questi novanta anni, oltre la vacuità del mio Alzheimer, riesco ancora a riconoscere l’incendio di due cuori che bruciano.
Irene Montano è nata a Livorno nel 1986. Esploratrice entusiasta e anima irrequieta di professione, lavora nel mondo del vino e studia Lingue e Letterature straniere presso l’università di Pisa con il sogno di diventare traduttrice letteraria. Si è classificata tra i dieci finalisti del Premio Letterario Etnabook – Cultura sotto il Vulcano 2023 con la poesia Kikládhes.
Un racconto di Giorgia Papagno
Numero di battute: 2400
Sei a metà di questo volo Ryanair operato da Air Malta tratta Bologna-Creta e pensi a quando quindici anni fa vivevi nella contea di Westchester, pensi a quando hai detto a qualcuno che ti sentivi sempre molto sola, o meglio, che forse i momenti belli ed epifanici li avevi quando eri sola, e che non avresti mai scritto il libro che lui ti diceva / tutti ti dicevano sempre che avresti dovuto scrivere anche solo per le cose assurde che avevi visto e che avresti voluto che gli altri vedessero, tipo quel cervo che nell’estate del 2009 ti aveva attraversato la strada a Westchester e tutto sapeva di umido e di aghi di pino e di carogna di animale da macello e di tutte le altre cose per cui amiamo l’America, ma come potevi essere certa che qualcuno leggendo del cervo non solo vedesse il cervo ma sentisse il cervo, sentisse te che vedevi il cervo?
Peraltro se sei della contea di Westchester o di Asiago, magari vedere un cervo non ti pare nemmeno un avvenimento così straordinario senza tutto il sottotesto che tu ci hai letto (era uscito Oracular Spectacular e sull’iPod nano 4G Pieces of What a ripetizione mentre tu guardi il cervo e lui guarda la striscia di verde bagnato e sottoesposto dall’altra parte della striscia d’asfalto), comunque stiamo per atterrare a Creta, ora guardi la striscia di mare dal finestrino e pensi a quella giornata a Westchester in cui forse non hai visto un cervo ma avresti potuto vederlo, e hai raccontato quella storia così tante volte che ti sei convinta di averlo visto ma forse hai invece solo avuto paura tutto il tempo di vederlo, che poi era stato forse peggio di vederlo perché:
1) l’ansia di trovarsi faccia a faccia con un cervo, che in America non sono cervi ma sono alci;
2) la delusione di non esserti trovata faccia a faccia con un cervo, che avrebbe coronato quel momento tutto umido di aghi di pino e di carogna di animale da macello;
«Tipo quel cervo che nell’estate del 2009 ti aveva attraversato la strada.»
3) Il patetico tentativo di renderti interessante raccontando di aver visto un cervo mentre camminavi sul ciglio della strada umida di pioggia estiva nella contea di Westchester.
L’altoparlante annuncia l’ultima possibilità di acquistare in supersconto un profumo Paco Rabanne, dei gratta e vinci di beneficienza prima dell’atterraggio. Ti picchietti l’indice sull’orecchio per chiedermi togliere le cuffie, mi posi una mano sulla coscia, mi fai:
Ti ho mai raccontato di quando all’università vivevo a Westchester?
Giorgia Papagno nasce a Brescia nel 1987, si laurea in Lettere Moderne a Padova e trascorre un periodo di studio alla Columbia University di New York. Al suo ritorno in Italia si specializza in Didattica della lingua italiana a stranieri a Ca’ Foscari. Insegna precariamente nella scuola pubblica. I suoi lavori sono apparsi in riviste come Lahar Magazine, Clean, Auralcrave, The Loch Raven Review. Poesie e fotografie dalla raccolta inedita Non Sarò Mai Manhattan sono state pubblicate da RatPark e L’Appeso; alcuni testi sono andati in scena, altri sono diventati musica.
Un racconto di Francesca Ranza
Numero di battute: 2321
Andavo all’asilo con una bambina, tale Carlotta, che a un certo punto, in circostanze mai chiarite, venne scelta come coprotagonista (con lei c’era un’altra tizia più grande che parlava pure, Carlotta invece faceva solo delle facce) della pubblicità dei Fiammiferini. Quando si rese conto che tutti i suoi compagni l’avevano vista in tv, Carlotta, che era sempre stata una bambina educatissima, perfino timida, iniziò improvvisamente a comportarsi come una specie di Briatore. Si fece fare un permesso per entrare e uscire dall’asilo quando le pareva, cominciò a portare tutto il tempo dei ridicoli occhiali da sole azzurri glitterati e a comandare noialtri a bacchetta.
La cosa che le piaceva fare più di tutte era chiedere a qualcuno di tenere una roba sua in mano mentre lei si sistemava i capelli. Le piaceva così tanto che a volte si appropriava temporaneamente degli oggetti più ingombranti che riusciva a trovare solo per fare questa sua scenetta. Aveva dei ricci bellissimi.
«Aveva dei ricci bellissimi.»
Un giorno vidi Carlotta sollevare un’enorme cesta di vimini piena di chiodini – ginocchia tremanti, guance paonazze, occhi fuori dalle orbite – e, proprio un attimo prima di soccombere, lanciare un urlo, soffocato e spaventoso, al povero Emilio che passava di lì in quel momento. «Reggimi questo! Prendilo subito!» Lui scattò prontamente e le prese quell’affare dalle mani. Lei iniziò a spostarsi i ricci da una parte all’altra della testa, sbuffando lenta, lentissima. Emilio resistette solo per qualche secondo, poi lasciò cadere la cesta che rovinò al suolo insieme ad almeno un miliardo di chiodini. «Sei scemo, Emilio? Raccoglili subito» si lagnò stizzita Carlotta.
Avrei voluto dirle qualcosa, qualcosa tipo “perché ti affanni tanto, Carlotta, tutto questo non ha alcun senso, siamo tutti miserabili allo stesso modo, tutti accomunati dallo stesso tragico destino”. Invece un giorno mi ordinò di tenere in braccio un leone di peluche gigante che puzzava di saliva e io lo feci, senza fiatare, per quattro minuti buoni.
Ci rincontrammo per caso al secondo anno di liceo. Era piena di brufoli, e infatti faceva la pubblicità di una crema contro i brufoli. Per entrambe le cose, si vergognava. «Ti ricordi quella volta del leone?» le chiesi. Ma Carlotta non si ricordava, o almeno mi disse così. Peccato, pensai, era stato bellissimo.
Francesca Ranza è nata e cresciuta a Milano. Studia Letterature comparate a Ca’ Foscari e lavora per la rivista letteraria Galápagos.
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