Un racconto di Giovanna Piazza
Numero di battute: 2474
Io so che è salito sulla montagna e non è sceso più.
Mentre suo fratello continuava a parlare di denaro, sua madre insisteva a difenderlo, lui è uscito di casa e ha iniziato a camminare.
Loro lo hanno cercato a lungo e poi creduto morto e infine hanno smesso di cercare. Dalla mia finestra li osservavo agitarsi da una stanza all’altra come se fossero colpevoli, all’erta. Hai fatto? chiedeva la madre più volte al giorno al figlio maggiore, e gli ricordava gli impegni presi. Il fratello di rimando bestemmiava contro ogni resistenza del mondo, guasto o impedimento che fosse.
La mattina presto, appena svegli, capitava che guardassero insieme in direzione della montagna, ma poi portavano altrove lo sguardo, come se sapessero.
È rassicurante la certezza di non essere visti, liberi, ma forse più forte è il desiderio nascosto di essere trovati, liberati, scoperti, pensavo, mentre sottraevo per lui della carne secca dalla cantina di una bottega e sognavo di dire finalmente la verità a qualcuno.
«Io so che è salito sulla montagna e non è sceso più.»
Quando ci incontravamo sulla montagna ero sempre io il primo a parlare, sembrava non interessargli granché la mia presenza, provava gratitudini brevi che svanivano subito dopo un sorriso. E anche quei dolori, che sapevo sentiva osservandogli il corpo malcerto, non li prolungava nei gesti né nei pensieri per chiedere qualcosa in cambio al mondo. Mentre lo guardavo mangiare in silenzio ciò che gli davo, mi pareva non avesse segreti.
Allora gli insegnai a cacciare e a rubare con destrezza agli uomini e alla natura, nei boschi e nelle case di costa la notte: lui mi imitava, ma non mostrava entusiasmo né paura, eseguiva semplicemente ripetendo le azioni e io non avevo mai la certezza che avesse davvero imparato. Sembrava quasi che volesse farmi contento. Eppure temevo che si aspettasse sempre qualcosa in più dalla mia presenza, perciò gli feci vedere come si governa e si sottomette una bestia, perché ero certo che fosse incapace di difendersi e che non riuscisse a sopravvivere senza di me.
Quando un cane nero lo morse, lui non fece nulla, non reagì, aspettando che l’animale smettesse, fui io a doverlo battere con un bastone e a scacciarlo.
Accettava la mia protezione ma non la cercava, sembrava potesse fare a meno di tutto, e non per orgoglio. Capii che non c’era traccia di vendetta nella sua fuga. Era semplicemente stupido e muto e immobile come un paesaggio, talmente inadatto alla vita che il mio disprezzo per lui superava la pietà.
Così me ne tornai a valle.
Giovanna Piazza (1987) è nata a Pordenone. Alcuni suoi racconti sono apparsi su Verde Rivista, Il Colophon e Il Paradiso degli Orchi. Insieme a Claudio Bagnasco cura il blog letterario Squadernauti.