Un racconto di Francesca Marzia Esposito
Numero di battute: 2313
Crescendo incontravamo strani oggetti nella casa, misterici monoliti accampati tra le gambe a cavalletto del tavolo, sui tappeti, lungo le mensole, oscuri volumi imperscrutabili che nella loro mancata corrispondenza a una precisa funzione sapevamo essere: opere d’arte. Fiancheggiavano muri, con la matita imbrattavamo l’intonaco a nostra altezza e il cervello l’avevamo a mollo nel periodo concettuale di nostro padre.
Pannelli rettangolari in corridoio esponevano prodigiosi utensili chirurgici, bisturi affilati adatti alla vivisezione che suggerivano un ordine sempiterno primordiale. Nell’anticamera un lavello di marmo, nel quale fingevamo di raderci, si collegava a una bombola di gas o di ossigeno bianca anch’essa e posta sotto al ripiano. Un’anomala pettorina in salotto riproduceva l’anatomia di un ventre, la piastra di vetro era fornita di cinghie per l’allaccio e rimandava a uno strumento di tortura correttiva per corpi deturpati da abominevoli storture.
Con Manuela sostavamo nella stanza degli scacchi dove, oltre a quadri e libri, trovavamo foto in bianco e nero di un uomo nudo riccio di inguine che si copriva il viso brandendo un pugnale. Lo studio era la porta in fondo; noi spiavamo nostro padre issato sulla scala contro la tela, oppure accovacciato a terra con le mani e i jeans imbrattati di pittura.
«Più del nostro accento temevamo le tele con le fiche galleggianti.»
Ci trasferimmo a Milano e nostro padre prese a disegnare fiche galleggianti nel magma di colore. Non avesse usato il carboncino nero avremmo potuto immaginare altro anziché l’esattezza della soffice matassa pubica femminile. Conoscemmo Monica e Luca, mocciosi meneghini che presero a farci notare l’accento differente. A nessuno dicevamo di nostro padre artista. Avevamo già un bel daffare con una madre eccentrica che in confronto alle altre donne, prototipi lignei a cassetti usciti da un mobilificio dozzinale, pareva schermo elettrizzato.
Un giorno invitammo Monica e Luca per ricambiare gentilezza. Più del nostro accento temevamo le tele con le fiche galleggianti. Una di queste si trovava sulla parete del soggiorno. Dico soggiorno e non è esatto, la casa era loculo a una sola stanza e la tela incombeva immensa nella sproporzione. Che cosa significa, disse Monica fissando la vulva. Luca prese a ridere. Diventammo rossi in volto e rispondemmo a mente: che stiamo con Satana.
Francesca Marzia Esposito vive a Milano, insegna danza. Si è laureata al Dams di Bologna, ha conseguito un master in Scrittura per il Cinema all’Università Cattolica di Milano. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati sulle riviste: Granta, ’tina, Colla, GQ e altre. La forma minima della felicità è il suo primo romanzo, edito da Baldini & Castoldi (2015).