Un racconto di Elena R. Marino
Numero di battute: 2483
Mi volto di scatto e dico no! Non è possibile! Così non possiamo andare avanti! Sono stufo quanto basta, sono stufo. Capisci?
Lo allontano con un dito, lo guardo aggrottando più che posso le sopracciglia, in modo da sembrare cattivo. «Te-ne-de-vi-anda-reee!» gli urlo.
Non sente ragione, mi perseguita così da giorni.
Stiamo camminando in periferia, ci siamo noi e le schiumette della vita, i detriti e i residui. Siamo tutti qui che camminiamo scoglionati per andare non si sa dove. Io lo saprei anche, dove sto andando, se lui non mi desse il tormento impedendomi di pensare. Sì, è questo il problema: mi impedisce di pensare. Mi butta addosso continuamente tutta questa tristezza, tutto questo squallore interiore. Cammina con il fiatone, manco riesce a starmi dietro, eppure parla, parla, parla.
«Non ci riuscirai mai... stai perdendo il tempo della tua vita... il tuo non è un sogno, è un’ossessione! Ti stai perdendo la vita vera... era... era...»
Così mi dice, il bastardo. Io mi tappo le orecchie. Bela bela beeeeeh!
E poi mi dice: «Vedrai, ti ammalerai se continui così, e tu lo sai!».
«Non sente ragione, mi perseguita così
da giorni.»
Io scappo verso il fiume, mi pare che forse potrei seminarlo. Ho gambe buone, io. Lui arranca. Eppure non riesco a spiccicarmelo di dosso, lo vedo arrivare nero con il suo naso schiacciato, la pelle sporca, i denti rovinati, i capelli unti: è brutto, non posso dire altro, piagnucola, mi dice che non ho nessun rispetto per lui, per le cose che lui mi dice, e che lui mi dice quelle cose perché mi vuole bene, e vuole prendersi cura di me, cura.
«Se soltanto tu riuscissi a essere un po’ più allegro!» gli urlo. «Basterebbe un po’ più di leggerezza, che diamine!»
Mi guarda stranito. Per lui una richiesta del genere è inaudita.
Siamo sul ponte che allaccia la città alla montagna. Sotto, il fiume è marrone denso.
Ne ho abbastanza, non c’è comunicazione fra noi, e io devo pur sopravvivere.
Sono più grosso di lui: lo prendo e lo scaravento giù. Nel caffellatte che scorre qui sotto.
Tanto è solo il mio alter ego, no?
È chiaro che è solo il mio alter ego. Potrebbe mai esistere una persona vera così lamentosa?
Guardo giù. Lo vedo annaspare, poi scomparire, poi riemergere e scorrere insieme al caffellatte. Si agita, ecco, guarda come si agita con le braccia. Poi fine. Inerte come un tronco lo vedo viaggiare verso Verona.
Rimango a pensare. Non c’è più davvero. Sono solo.
Forse non era il mio alter ego. Era un altro e basta.
Mi guardo attorno, inquieto. Adesso iniziano i miei guai, credo.
Elena Rosanna Marino (1967) lavora come regista e drammaturga al teatro Spazio 14 di Trento. Ha studiato Letteratura greca antica a Trento e a Urbino. Ha lavorato come ricercatrice presso l’Università di Torino. Ha collaborato a GI vocabolario della lingua greca di F. Montanari (Loescher) e ha scritto Gli scolî metrici antichi alle Olimpiche di Pindaro (Labirinti 1999), oltre a numerosi articoli su riviste. Dal 2003 ha abbandonato il greco per dedicarsi in modo professionale al teatro. Suoi racconti sono usciti su riviste.