Un racconto di Antonio Vangone
Numero di battute: 2462
Fu deciso in gran fretta. Vivevamo già da anni in enormi città senza nome, rampe di partenza tirate su da un mese all’altro, nessun puntino sulle mappe, solo numeri. 44. 56. Ogni tre o quattro mesi mandavo una lettera alla mia famiglia, saluti e baci e un nuovo numero a cui spedire la posta. 71. Solo quello, poche parole e un numero, ogni comunicazione con l’esterno era sottoposta a controlli rigidissimi, non ci era permesso rivelare nulla sulla natura del nostro operato.
Ma a parte questi piccoli disagi mi piaceva quella vita, la sensazione di essere un ingranaggio ben oliato in un sistema perfettamente funzionale, prima i geologi, gli architetti, gli astrofisici, poi gli operai e i tecnici come me, quelli che le manovelle dovevano girarle. A lavoro concluso ad alcuni di noi, in genere i più anziani, veniva proposto di stabilirsi lì con i soldati e il personale di supporto e riunirsi ai loro cari. A me non è mai successo. Non c’è stato il tempo.
87, l’ultimo numero. Il piano di evacuazione fu reso pubblico non appena le navi furono cariche, le ultime bombole approntate. Noi lo sapevamo da tempo che il pianeta era perduto, che non poteva più sostenerci tutti. Noi, i minuscoli membri del misero due per cento che sarebbe rimasto a terra, salutammo con mestizia la gente che piangeva e ci chiamava eroi.
«Noi lo sapevamo da tempo
che il pianeta
era perduto.»
Erano anni che immaginavamo lo sciame di aerei provenienti da ogni parte del mondo e le facce atterrite di quelli che la verità la sapevano da tre giorni, ci era stato ordinato di sorridere e ci provammo, ma anche a noi veniva da piangere a guardarli, a pensare che non sapevano proprio niente e le valvole del gas soporifero presto si sarebbero aperte con un soffio cattivo e un messaggio rassicurante. C’ero, quando fu registrato, sintetizzato da un computer con voce di donna in tutte le lingue: sarebbe stato sussurrato loro di riposare bene, perché il viaggio era lungo e la partenza dura e invece non si sarebbero più svegliati e le navi interstellari avrebbero vagato in eterno nello spazio, cariche di cadaveri tristi e speranzosi.
Molte in realtà non lasciarono mai l’atmosfera, il tempo era poco e i costi alti, si tagliava dove si poteva. Così prima di tornare alle nostre vite, alle città dei nostri ricordi ora vuote, dovemmo seppellire i morti, decine per ciascuno di noi, miliardi di corpi carbonizzati tra l’acciaio e il tungsteno, raccolti con cura e fasciati in bare bianche biodegradabili. Tra milioni di anni, petrolio.
Antonio Vangone (1995) vive alle pendici del Vesuvio e spera per il meglio. Studia per diventare odontoiatra, legge e scrive quanto può. Finalista al Premio Raduga 2017,
suoi racconti sono apparsi su Firmamento, Ammatula e altre riviste letterarie.