Un racconto di Donata Cucchi
Numero di battute: 2436
«Ho perso il cane.» Lo disse d’un fiato, con coraggio, mentre guidava. Lo disse con coraggio e forse sfida, nell’odore umido di novembre che entrava dal finestrino un po’ abbassato, le foglie malate, la sua voce incrinata, il profumo della sigaretta. Fuma quando è in difficoltà, quando qualcosa si sposta dall’asse che lei faticosamente tiene centrata, ogni giorno con sforzo, ogni momento potrei dire, mentre i suoi occhi dilatati, verdi e d’oro si muovono nel turbine delle parole, nella provvidenza della sua intelligenza – che sempre la salva – sempre o quasi – o forse mai – in quella lotta che è la sua vita, un travaglio multiforme di inquietudine, paura, debolezze improvvise, angoscia che arriva imprevista e prevedibile a cena, di notte, al mattino nel disordine della nostra casa dove lei in vestaglia di lana cammina spettinata e bellissima tra il bricco del tè, il computer acceso, gli appuntamenti con i pazienti che riceve nella stanza azzurra dove anch’io sono stato.
Era stata la mia psicologa, ci credereste, c’eravamo conosciuti così, andavo da lei due volte a settimana. La prima cosa era il suo sorriso sulla porta, la seconda il soggiorno con i resti del pranzo, la tovaglia sul tavolo per metà, i giochi della gatta sparsi su un parquet di rovere.
«Poi, di nuovo,
il mondo cambiava.»
Mi irritava allora che il mio cane non potesse entrare. Era un bassotto insolitamente mite, molto piccolo e leggero. Non avrebbe ringhiato alla gatta, la strega sottile che scivolava verso l’alto su mobili e scaffali, avrei potuto tenerlo in braccio, che fastidio le dava. Invece il mio cane restava fuori e la gatta scorrazzava dentro, io guardavo la parete slavata del suo studio e pensavo che la mia vita doveva essere diventata proprio patetica se avevo scelto di fare affidamento su una così. Poi, di nuovo, il mondo cambiava. Era il modo in cui nel parlare lei sfilava all’improvviso l’elastico dai capelli scuri, era il suo mutare in creatura temibile e veggente.
«Ma tu perché me l’hai affidato?» Questo invece lo disse con rammarico e crudeltà, a un semaforo, mentre frenava. Si voltò nel suono della domanda, difficile individuare su quale parola, sulla curva del punto interrogativo potrei dire. Era una jazzista in tutta la sua pazzia. Certo, una jazzista, lo capii in quel momento. Sapeva i tempi. Prendeva quello che c’è – non solo le note felici, liquide e magnifiche, ma tutto, la sua fatica, la mia miseria, l’ambiguità di quella perdita – e rilanciava.
Donata Cucchi (1974) è laureata in filosofia e lavora per Zanichelli dal 2005. Ha collaborato con diverse case editrici e scrive articoli di arte e cultura per «La Ricerca», di Loescher. Da alcuni anni si dedica alla fotografia e alla pratica teatrale. Vive a Bologna.