Un racconto di Antonio Francesco Perozzi
Numero di battute: 2257
Così m’inchinai verso lo scarico della doccia e non accettai più compromessi.
Che importava essere nudo? Che importava l’acqua addosso e la percezione strana di una pelle che trascorre in liquido? Avrei visto il fondo – forse – e avrei scoperto un modo tutto diverso di provare la vita – forse.
Tra me e la voragine c’era mezzo metro, ormai; anche meno. Vedevo i rivoli trasparenti costruire un vortice, attorno alle piccole conche trapezoidali, con una geometria troppo precisa per essere fatta di fluido, per essere naturale.
«Scesi di dieci centimetri.»
Ma pensavo con inquietante semplicità: era geometricamente perfetto – dunque era vero. Era geometricamente perfetto – dunque era più reale di tutto ciò che avessi mai conosciuto. Mentre scendevo di dieci centimetri al minuto, provai a stilare il catalogo di tutte le esperienze della mia vita, messe in fila una dietro l’altra: l’asilo e un Pikachu di gomma; le elementari e una compagna col naso sporco; religione a seconda ora il sabato; le spille dei Clash e dei Rancid sullo zaino; Margherita che sapevo ora consegnasse pizze il venerdì sera; una sua forcina sul mio cuscino; i soldi di Amazon strappati coi denti…
(Scesi di dieci centimetri.)
Che ragione c’era di credere ancora alla vita reale? Sul vetro che avevo intorno s’era formata una patina di vapore depositato. Non potevo vedere oltre, non potevo: il mio accappatoio, verde e blu, semplicemente non era mai esistito.
(Scesi di dieci centimetri.)
Stava lì, nella colonnina d’aria tra il mio medio e la voragine, tutto il senso del mondo. Non m’importava neanche più avere dei capelli, ad esempio: che farsene del riccio morbido nell’assoluta bassezza del niente?
(Scesi di dieci centimetri.)
Quando ero ormai vicinissimo, m’accorsi di macchie calcaree sul metallo dello scarico: le avrei attraversate senza remore; non ci sarebbe stata incrostazione, finalmente, nel mondo di là.
(Scesi di dieci centimetri.)
Il medio toccò per primo: non mi sorpresi per niente nel farmi idrico anch’io, nel sentire il braccio intubarsi, poi la spalla, finalmente la testa. Il mio corpo seguì una sinusoide contro la gravità e alla fine anche i talloni, e gli alluci, mi seguirono giù, nello scarico della doccia.
Sentivo solamente – lontano – il picchiettare di gocce grosse sulla ceramica.
Antonio Francesco Perozzi (1994) vive a Vicovaro, in provincia di Roma. Si è laureato in Filologia moderna presso l’Università di Roma La Sapienza con una tesi dal titolo Sanguineti e il decostruzionismo. È autore del romanzo Il suono della clorofilla (L’Erudita 2017) e dell’opera poetica Essere e significare (Oèdipus 2019, prefazione di Francesco Muzzioli). Suoi racconti e poesie sono apparsi in antologie e riviste.